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L’autonomia differenziata? È inutile per affrontare le trasformazioni climatiche, geopolitiche, demografiche e tecnologiche del XXI secolo (valigiablu.it)

di 

Il dibattito sull’autonomia differenziata è la 
dimostrazione che i politici italiani non 
hanno capito in quale secolo, e in quale mondo, 
viviamo. 

E questo vale in particolare per quelli che dichiarano di rappresentare gli interessi “di chi produce”. Preoccupati solo di conquistare una manciata di voti in più (e di consolidare feudi politici di lunga data), affamati di presentismo e di dirette Facebook, spesso del tutto ignari di ciò che accade nel Mar Cinese Orientale, a New Delhi, nell’Artico o a Lagos, i nostri politici non si accorgono che i prossimi decenni saranno tra i più duri, e decisivi, della storia umana.

La crisi climatica e ambientale. L’ascesa e il rafforzamento di nuove potenze geopolitiche. Il declino demografico. La rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale. Si tratta di trasformazioni epocali che investiranno l’Italia con asprezza, e che il regionalismo aiuterà ad affrontare più o meno quanto una pistola ad acqua può tenere a bada una tigre affamata.

Mentre nei palazzi del potere a Roma, e negli studi TV di Milano, parlamentari e giornalisti, vecchi arnesi della politica e insigni costituzionalisti (quasi sempre maschi ultracinquantenni) discutono di Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), costi standard e residuo fiscale (tacendo su un tema ancora più cruciale: le materie che certe Regioni chiedono), si avvicina un’ordalia che colpirà il nord come il sud, Brescia come Catania, la Toscana come la Calabria. Non è difficile capire perché.

  1. Il Mediterraneo si sta riscaldando di più della media globale, con effetti catastrofici su tutti i paesi rivieraschi. Sarà sempre peggio, specie per un paese fragile come il nostro, alle prese con il dissesto idrogeologico, la cementificazione selvaggia ecc. Ciò avrà un impatto significativo sulla nostra sicurezza alimentare, sul nostro patrimonio artistico e architettonico, sulle nostre infrastrutture, sui nostri beni e sulle nostre vite. Faccio un esempio concreto: nel 2018 una tempesta, Vaia, colpì il nordest italiano, devastando le foreste delle Dolomiti (almeno 14 milioni di alberi abbattuti), danneggiando la basilica di San Marco e allagando Venezia, generando blackout, distruggendo case, uccidendo persone. Ecco, nei prossimi decenni eventi meteorologici estremi come Vaia saranno sempre più frequenti. E questi eventi non colpiranno una sola regione, ma più regioni, proprio come Vaia è stata una catastrofe per il Trentino-Alto Adige, il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia, la Lombardia.
  2. Nel Mediterraneo allargato, regione strategica per la sicurezza e gli interessi nazionali, Stati autoritari come la Turchia, l’Egitto e l’Arabia Saudita hanno un crescente peso geopolitico, e già oggi intervengono in Libia, Siria, Yemen, Somalia ecc. Non si fanno alcuno scrupolo a umiliare le democrazie europee (si pensi all’atteggiamento di Ankara nei confronti di Stoccolma, o del Cairo in merito al caso Regeni), e sono impegnate in un massiccio riarmo. E domani, come si comporteranno? La storia ci insegna che le nuove potenze sono quasi sempre molto assertive: lo fu anche l’Italia della prima metà del ‘900, una nazione bellicosa pronta ad aggredire l’Impero ottomano, l’Etiopia, la Spagna, l’Albania, la Francia, la Grecia ecc. È molto probabile che la Turchia del 2035 (92 milioni di abitanti) o l’Egitto del 2040 (almeno 130 milioni di abitanti) daranno prova di una forte aggressività. L’Italia, per motivi in primis geografici, dovrà affrontare (subire?) le conseguenze della loro ascesa. Solo un eurocentrismo antiquato e supponente (o profondamente ingenuo) può illudersi che le nuove potenze da me citate si comporteranno diversamente da come ci siamo comportati noi europei (liberali o meno) nel ‘900.
  3. Al principio del Novecento l’Italia era uno dei paesi più popolosi e giovani al mondo. Come ho cercato di ricordare l’anno scorso su Gli Stati Generali, aveva 34 milioni di abitanti, contro gli 11 dell’Egitto e i 9 dell’Etiopia. Oggi è uno dei paesi più vecchi. Ventenni e trentenni emigrano, i bambini non nascono e le donne subiscono ostacoli e discriminazioni che le dissuadono dal fare figli. Può un’economia reggere nel medio-lungo periodo con una piramide demografica sempre più sottile alla base? Può esistere un welfare degno di questo nome se a lavorare sono sempre meno cittadini, magari precari con bassi stipendi?
  4. La rivoluzione dell’IA cambierà in profondità settori cruciali per l’economia italiana come il manifatturiero e l’agricoltura. Pensiamo alla Visione Artificiale, utilizzabile per misurare lo stato di salute di una vigna, come per controllare che non si verifichino intoppi sulla linea di produzione; pensiamo alla Manutenzione Predittiva, essenziale nelle fabbriche di domani. In Italia abbiamo PMI e startup molto promettenti, però nel complesso il paese non è tra quelli alla guida della rivoluzione dell’IA, e rischia di perdere questo treno come ha già perso quello delle ICT negli anni ‘90, con effetti drammatici in termini di produttività, efficienza, competitività, benessere. Le quattro trasformazioni citate non soltanto incideranno profondamente sul nostro stile di vita (e questo non è in sé un male), ma metteranno in discussione le fondamenta stesse della società italiana. Può sembrare fantascienza, eppure non lo è … leggi tutto

Modifiche al Pnrr sì, ma a un patto (lavoce.info)

di  E 

Il Pnrr non è un maxi-ristoro per i paesi 
colpiti dal Covid. 

È lo strumento operativo per realizzare il Next Generation EU. Modifiche sono possibili, ma all’interno di una cornice che rafforzi l’Europa. Solo così si possono affrontare le grandi sfide.

Tappe rispettate

Il 30 dicembre 2022 il governo italiano ha comunicato di aver raggiunto i 55 traguardi-obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza per il secondo semestre 2022 e ha inviato alla Commissione Ue la richiesta di pagamento della terza rata da 21.839.080.460 euro. L’Italia ha quindi rispettato sinora tutte le scadenze semestrali previste dal Pnrr (questa è la terza). Adesso, però, si entra nella fase più difficile.

Se gli obiettivi del primo anno (2021) del Piano erano soprattutto le riforme e quelli del 2022 la pubblicazione di avvisi e gare, il 2023 è l’anno di apertura dei cantieri e si capirà se l’Italia sarà in grado di completare tutto entro il 2026. I tempi serrati e le conseguenze della guerra hanno messo al centro del dibattito pubblico nazionale ed europeo, da diversi mesi ormai, l’ipotesi della revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Cosa accade in Europa

A settembre 2022 il Portogallo ha formalmente proposto di allungare oltre il 2026 i termini della spesa (ma non la tabella di marcia delle riforme) del suo Recovery and Resilience Facility, a causa dell’alta inflazione generata dalla crisi energetica. Nella nota inviata alla Commissione europea (che finora non ha avuto alcuna risposta ufficiale) il governo di Lisbona sostiene infatti che attuare tutti gli investimenti previsti dai rispettivi Piani comporta, per gli stati, costi troppo elevati e, considerando anche la corsa alle materie prime innescata dalla necessità di rispettare i tempi, si rischia di alimentare ulteriormente la spirale dei prezzi.

A novembre il Lussemburgo ha presentato una proposta di revisione approvata dalla Commissione, ai sensi dell’articolo 18 comma 2 del regolamento Ue 2021/241, che prevede una riduzione (il Piano è passato da 93,4 a 82,7 milioni di euro) del contributo finanziario massimo in seguito all’aggiornamento dei dati del Pil 2021 (cresciuto più del previsto) e all’eliminazione di un investimento, il “Digital Skills”, che riguardava un insieme di corsi e-learning sulle competenze digitali per dipendenti collocati in regimi di lavoro ridotto tra gennaio e marzo 2021.

Il 9 dicembre 2022 anche la Germania ha presentato alla Commissione una modifica del suo Pnrr, chiedendo di intervenire su due misure: posticipare la data per il completamento di uno dei sette progetti di digitalizzazione delle ferrovie, a causa di ritardi eccezionali dovuti alla guerra; modificare un programma speciale per la ricerca e lo sviluppo di vaccini contro Sars-Cov-2, poiché due partecipanti su tre hanno abbandonato il progetto.

La Commissione, il 19 gennaio 2023, ha dato il via libera alla revisione del Piano, poiché “circostanze oggettive rendono non più raggiungibili tappe o obiettivi specifici”, ma il Piano tedesco modificato soddisfa ancora gli undici criteri di valutazione del regolamento. Successivamente, sarà il Consiglio ad approvare il nuovo Piano.

Ben prima del voto del 25 settembre, proprio su queste colonne abbiamo sostenuto la tesi della difficoltà del cambio del Pnrr e i rischi che ciò potrebbe comportare per il nostro paese. Oggi tutti sembrano esserne consapevoli, rimane tuttavia la necessità di tenere conto del nuovo contesto all’interno del quale il Piano deve essere attuato: economia di inflazione e di guerra.

A cosa serve il Pnrr

È tuttavia importante ricordare che il Pnrr non è una sorta di maxi-ristoro per i paesi colpiti dalla pandemia da Covid-19, ma è lo strumento operativo con cui realizzare (tramite risorse da spendere e riforme da attuare) l’iniziativa europea del Next Generation EU. Aiutando gli stati a prepararsi alle sfide del futuro, principalmente quella digitale (per almeno il 37 per cento del Piano) e ambientale (per almeno il 20 per cento).

Per quanto concerne l’Italia, che assorbe quasi il 25 per cento di tutto il Next Generation EU, il Piano serve anche a risolvere i limiti strutturali del paese in termini di ammodernamento di strutture e procedure, omogeneizzazione delle politiche pubbliche e apertura dei mercati, aspetti che la Commissione ci ricorda nelle annuali “raccomandazioni” specifiche.

Gli strumenti con cui intervenire, le ipotesi alternative

Pertanto, una revisione del Pnrr, pensato per riforme strutturali, non appare lo strumento più appropriato di fronte a una crisi congiunturale. Per affrontare le conseguenze della crescita dei prezzi e la crisi energetica ci sono altri strumenti da affiancare al Piano.

  1. Come per il Lussemburgo e la Germania, rimanendo all’interno del Pnrr, si possono modificare singoli investimenti: ad esempio quelli energetici, perché in questo settore lo scenario si è modificato profondamente dal 2021. Deve trattarsi però di una “ritaratura” che non intervenga tuttavia sull’impostazione del Piano. Recentemente anche il Commissario Paolo Gentiloni ha comunicato che tra gennaio e marzo sarà possibile emendare i Piani nazionali, ma con due punti fermi: le modifiche dovranno essere giustificate e riferite ai soli investimenti.
  2. In secondo luogo, con tempi brevi di esecuzione, vi è la possibilità di “usare” il Fondo Complementare che l’Italia ha istituito accanto alle risorse del NG-EU: circa 30 miliardi di euro, che potrebbe essere riprogrammati – totalmente o in parte – per le nuove esigenze.
  3. Terza ipotesi, con tempi medi di realizzazione, la definizione di un “NG-EU 2”, di cui tra l’altro si discute già, che, con gli stessi vincoli, procedure, filosofia e funzionamento, sia calibrato esclusivamente su due settori oggi centrali: industria pesante ed energia. Peraltro, sul tema dell’energia, la Commissione Europea ha presentato il Piano RePowerEU, per rendere l’Unione indipendente dai combustibili fossili russi (gas, petrolio e carbone) entro il 2030.
  4. Graduata su un arco temporale più lungo, vi è poi la revisione del Patto di stabilità e crescita, sospeso fino a fine 2023. Per l’Italia l’ipotesi sarebbe più funzionale nelle crisi congiunturali. A novembre la Commissione ha presentato una proposta base che prende atto che la riduzione del debito non può avvenire a scapito della crescita e degli investimenti, lasciando aperto lo spazio per una negoziazione.

Sono quattro percorsi che, in maniera complementare, consentono di intervenire nel contesto nazionale, ma all’interno di una cornice di rafforzamento dell’Europa, necessaria per le grandi sfide.

Salvaguardando non soltanto il nostro Piano da 191,5 miliardi garantiti dall’Ue, ma cercando di alzare il livello del negoziato sul Patto di stabilità e crescita per riuscire a ottenere un ambizioso bilancio pubblico europeo, in grado di replicare periodicamente iniziative importanti come il Next Generation EU.