Saranno stati, come disse Antonio Ingroia, l’ex pm del processo “Trattativa”,
i colletti bianchi ad averla fatta franca, o non invece lui stesso, il collega Di Matteo e tutta la banda dei giornalisti che facevano la ola davanti a loro? Insomma, chi è che l’ha fatta franca? Quando, con grande senso della scenografia e piccolo senso del pudore, il presidente della corte d’assise di Palermo Alfredo Montalto scelse il ventiseiesimo anniversario dell’uccisione di Paolo Borsellino, il 19 luglio 2018, per depositare le motivazioni della sentenza che sposava l’ipotesi-bufala e condannava gli imputati per minaccia o violenza a corpi dello Stato, era stato un coro di osanna che aveva percorso l’etere e la penisola.
Tre anni dopo, quando una nuova sentenza assolve tutti, si scopre che la “complessità” della mafia non va giudicata nelle aule di giustizia. Travaglio permettendo, naturalmente.
I giudici avevano aspettato il novantesimo giorno, ultima scadenza consentita dalla legge dopo l’emissione della sentenza, pur di scodellare le 5.252 pagine calde calde sulla commemorazione della strage di via D’Amelio, nel 2018. E consentire ai giornali amici di titolare direttamente su Borsellino. Non solo per ricordarne il valore e il sacrificio, però. È sufficiente sfogliare qualche titolo del giorno dopo. Corriere della sera: “I giudici e via D’Amelio: il dialogo tra Stato e mafia accelerò quella strage”.
La Repubblica: “Chi condannò Borsellino”. Il Fatto: “La Trattativa uccise Borsellino”. Parliamoci chiaro: quel giorno i tre alti carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, oltre al senatore Marcello Dell’Utri erano presentati come gli assassini, o quanto meno i mandanti, della strage di via D’Amelio, in particolare della sua accelerazione nei tempi. Perché, mostrando agli uomini della mafia il volto fragile e accomodante di uno Stato pronto a trattare, avevano in realtà spinto i boss dei corleonesi ad alzare il prezzo con altre bombe e altre stragi.
È evidente a tutti, o forse a pochi, che la strage di via D’Amelio non aveva nulla a che fare con il processo. Ma molto con l’uso propagandistico che ha inquinato per tanti troppi anni – non si riesce più a contarli, perché le prime indagini nei confronti di Dell’Utri sono partite fin dal 1994- l’inchiesta e poi il processo su una trattativa tra lo Stato e la mafia che ormai una sentenza che possiamo considerare definitiva ha sonoramente bocciato.
L’“accadimento”, il quid che avrebbe spinto Totò Riina a fare in fretta a uccidere Borsellino, “non è provato”, come scriveva sul Corriere Giovanni Bianconi, ma trovava convergenza di due fatti … leggi tutto