La via inglese al reddito di cittadinanza (lavoce.info)

di

I fenomeni opportunistici da parte di chi percepisce 
sussidi non sono un problema solo italiano. 

Il Regno Unito ha così costruito un sistema di welfare-to-work. Se ne potrebbero riprendere alcune caratteristiche, per comporre un meccanismo equilibrato.

Reddito di cittadinanza e Universal Credit

Il reddito di cittadinanza è ancora una volta sotto accusa. In particolare, le critiche riguardano la cosiddetta “Fase 2” del programma – quella dedicata alle politiche attive del lavoro – per l’incapacità di contrastare adeguatamente diffusi fenomeni di ricorso al lavoro sommerso da parte dei suoi beneficiari; allo stesso tempo, lo strumento non sembra essere in grado di incentivare la partecipazione al mercato del lavoro.

Non è chiaro quanto il fenomeno sia esteso in Italia, ma l’opportunismo dei percettori di sussidio è un tema noto in letteratura ed è oggetto di dibattitto in tutti i paesi occidentali. I tentativi di contrastarlo sono vari, oggetto di analisi, anche cinematografica come nel film Io, Daniel Blake , che esplora proprio le pratiche di condizionalità del sistema più avanzato al mondo di welfare-to-work, ovvero quello del Regno Unito.

Nel Regno Unito esiste un sistema di tutela analogo al reddito di cittadinanza, si chiama Universal Credit e racchiude tutti gli strumenti di assistenza pubblica (per esempio, indennità di accompagnamento, Naspi, Rdc, e così via) che, a seconda della tipologia di bisogno e dei contributi versati, varia in termini di importo e durata. Va detto che uno strumento unico di tutela, facilmente riconoscibile e ampiamente noto alla popolazione, sarebbe auspicabile anche per il contesto italiano.

Anche nel Regno Unito esistono milioni di beneficiari e, tra di loro, centinaia di migliaia hanno costantemente comportamenti opportunistici. Per contrastare il fenomeno è nato, dai tempi di Margaret Thatcher, il principio di welfare-to-work. A differenza dei percettori del reddito di cittadinanza, nel Regno Unito il beneficiario di Universa Credit non sigla una “patto di servizio”, ma una “dichiarazione di intenti”.

Il nostro “patto di servizio” spesso è un atto formale (senza conseguenze pratiche), mentre nel modello anglosassone la “dichiarazione di intenti” è invece un “contratto” siglato dall’utente, a cui spetta dimostrare il suo reale impegno nella ricerca di un lavoro.

Esiste un cronogramma da rispettare, il disoccupato deve “provare” di aver cercato lavoro almeno per 35 ore settimanali: attraverso cronologie della ricerca online, e-mail di conferma di colloquio e altro ancora.

Tutta la documentazione va consegnata al work coach del Jobcentre Plus che il percettore incontra generalmente una volta ogni due settimane (può capitare però che gli incontri siano giornalieri). Il percettore dovrà partecipare anche a una serie di “disposizioni ufficiali”, ovvero workshop e altre iniziative di politiche attive.

La condizionalità implica un apparato sanzionatorio che si rivale direttamente sul benefit e sulla sua entità ed è diversamente articolata (sospensione o decurtazione) a seconda della discrezionalità del work coach; ovviamente, l’utente ha la possibilità di fare ricorso.

Ad esempio, può essere sanzionato il solo ritardo agli appuntamenti oppure la mancanza di documentazione a supporto della ricerca del lavoro svolta .. leggi tutto

(Sabrina Mazzeo)

Giusto fine, mezzi sbagliatiLa cultura giustizialista ha trasformato l’Italia in uno Stato confessional-giudiziario (linkiesta.it)

di Iuri Maria Prado

Negli anni Ottanta si ritenne che per debellare 
la criminalità mafiosa occorresse inventare il 
delitto mafioso, 

e cioè punire la mafiosità dell’omicidio, del furto, della truffa, dell’estorsione, della corruzione, con il risultato che le indagini e i processi presero a svilupparsi sulla base dell’indizio di mafiosità e a prescindere dal necessario riscontro circa le effettive responsabilità delittuose. È stato un errore

Non si offenderebbe la memoria del generale Dalla Chiesa, ieri celebrata dal presidente della Repubblica, riguardando con giudizio equanime i quarant’anni di mezzi sbagliati che lo Stato ha adoperato al giusto fine di trionfare sul crimine organizzato.

Anzi, lo Stato che commemora le vittime illustri della violenza mafiosa renderebbe loro un servizio migliore se non omettesse sistematicamente di riconoscere il vizio capitale delle politiche cosiddette antimafia: che fu di aver voluto contrastare quell’offensiva con una legislazione simbolica, totemistica, e con un tentativo di rifondazione sociale per via giudiziaria.

Al mafioso secondo cui “la mafia non esiste” si rispose mettendo la mafia dove non dovrebbe esistere, e cioè nella legge. Perlopiù (non sempre) in buona fede, si ritenne cioè che per debellare la criminalità mafiosa occorresse inventare il delitto mafioso, e cioè punire la mafiosità dell’omicidio, del furto, della truffa, dell’estorsione, della corruzione, con il risultato che le indagini e i processi presero a svilupparsi sulla base dell’indizio di mafiosità e a prescindere dal necessario riscontro circa le effettive responsabilità delittuose.

Perché divenne quella, la presunta matrice di mafia, la cosa che qualificava ed esauriva la fattispecie. “Arrestato per mafia”, “Condannato per mafia”, non furono più soltanto semplificazioni giornalistiche: diventarono realtà processuali.

E si giunse a tanto, appunto, proprio per il trionfo di quella concezione fuorviante e pericolosissima dell’attività inquirente e giurisdizionale: l’idea, cioè, che essa abbia il compito di tutela sociale che ancora una volta, perlopiù in buona fede, propugna la cultura cosiddetta antimafia.

Se fossimo in uno Stato di diritto quella cultura apparterrebbe a una vaga congerie di ininfluente moralismo autoritario, ma nello Stato confessional-giudiziario cui è ridotto il nostro sistema essa si è incartata nelle leggi che combattono la mafia come si combatte il malocchio, la stregoneria, insomma “il male” … leggi tutto

(mahdi rezaei)

Come cambia il reddito di cittadinanza: in campo le agenzie private. Cosa si rischia se si rifiuta un lavoro (open.online)

Il governo al lavoro sulle nuove regole del 
sussidio: 

centri per l’impiego in pensione, accorciamento della durata dei contratti che non si possono rifiutare

Il governo intende coinvolgere le agenzie di reclutamento private nella ricerca del lavoro per i percettori del Reddito di cittadinanza. Mandando così in pensione i centri per l’impiego. E intende anche tracciare le offerte di lavoro (tramite il sistema della mail, del messaggio su Whatsapp o dell’sms) per risolvere il problema dei rifiuti e far valere la regola della perdita del sussidio dopo i tre no.

Anche perché circa 750 mila percettori del reddito di cittadinanza ritenuti attivabili non hanno ancora sottoscritto i patti per il lavoro e iniziato a cercare un impiego: questo dicevano i dati diffusi dall’Anpal a luglio. Su di loro si è acceso un faro quest’estate dopo che è scoppiato l’allarme per l’assenza di lavoratori stagionali.

Gli imprenditori del turismo e della ristorazione hanno puntato il dito proprio contro il sussidio, accusandolo di disincentivare i percettori ad accettare i lavori a disposizione. Per questo adesso il governo vuole muoversi. E potrebbe mettere in campo anche un’altra riforma: l’accorciamento da tre a due mesi della durata dei contratti che non si possono rifiutare.

«C’è bisogno di creare quanto prima una sinergia tra pubblico e privato che ancora manca. Al momento il Reddito di cittadinanza è strutturato affinché le offerte di lavoro provengano dai centri per l’impiego, ma quando si scorrono i dati si scopre che questi ultimi statisticamente offrono il 4% delle opportunità lavorative l’anno.

Esiste, quindi, un 96% di opportunità lavorative gestite dal mondo privato attraverso le agenzie per il lavoro al quale bisogna attingere», dice la sottosegretaria al Lavoro Tiziana Nisini al Messaggero. «Al momento, per come è strutturato il sistema, un lavoratore può voltare le spalle anche a 100 offerte di lavoro senza che nessuno se ne accorga.

Lavoriamo perciò a una banca dati nazionale per avere un quadro completo delle domande e delle offerte di lavoro», aggiunge la senatrice della Lega.

(Damir Kopezhanov)

Trentanove anni fa la strage di via Carini, Palermo ricorda il generale Dalla Chiesa (palermotoday.it)

Il prefetto, da poco insediato a Palermo, venne 
ucciso nel 1982, 

assieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Era la mafia che alzava il tiro. Nel giorno dell’anniversario, molti gli appuntamenti per commemorarlo

Sono passati 40 anni dal giorno in cui, pochi mesi dopo essere stato nominato prefetto, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa cadde vittima nella strage di via Carini. Assieme a lui morirono anche la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Era il 1982 e la mafia alzava il tiro. “Mentre Roma discute, Palermo è espugnata”, tuonò il cardinale Salvatore Pappalardo, citando Sallustio.

Oggi Palermo ricorda quel giorno con una successione di appuntamenti di commemorazione. Sarà l’arcivescovo, monsignor Corrado Lorefice, a presiedere domani, alle 10.30 in Cattedrale, la celebrazione eucaristica in ricordo del prefetto e della sua azione di contrasto al terrorismo, alla criminalità organizzata mafiosa e ad ogni forma di illegalità. Sarà presente, insieme alle autorità civili e militari, il sottosegretario di Stato all’Interno, Nicola Molteni in rappresentanza del Governo nazionale … leggi tutto

Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa intervistato da Enzo Biagi (INEDITO) (L’intervista è un’esclusiva AccasFilm. www.accasfilm.it)

Il Reddito di cittadinanza tra meriti e demeriti (corriere.it)

di Maurizio Ferrera

Quanti equivoci sui sostegni agli indigenti, 

e rischia di aprirsi una guerra ideologica, capace di avvelenare il percorso della prossima legge di bilancio. Prima del Covid-19, quella che l’Istat chiama povertà assoluta colpiva già 4,6 milioni di persone, diventati 5,6 milioni nel corso del 2020

Il Centrodestra vorrebbe abolirlo, in quanto «diseducativo e clientelare» (Salvini). Anche Renzi propone un referendum abrogativo. Il Pd è disponibile a una revisione, i Cinque Stelle levano gli scudi. Sul reddito di cittadinanza (Rc) rischia di aprirsi una guerra ideologica, capace di avvelenare il percorso della prossima legge di bilancio.

È difficile comprendere perché in Italia le politiche contro la povertà abbiano da sempre suscitato diffidenze e divisioni. Negli ultimi vent’anni si sono succeduti almeno una decina di provvedimenti: un «avanti e indietro» che non ha paralleli in Europa. Nessuna politica pubblica nasce perfetta e va periodicamente rivista sulla base dell’esperienza. Ma non si può ricominciare ogni volta da capo, sennò scatta quella che gli esperti chiamano la trappola dell’insuccesso: si finisce per screditare qualsiasi proposta pragmatica con il vecchio adagio «ci vorrebbe ben altro», lasciando di fatto il problema senza soluzione.

Come ha mostrato fin troppo drammaticamente la pandemia, il rischio povertà è ancora molto elevato nel nostro Paese. Prima del Covid-19, quella che l’Istat chiama povertà assoluta colpiva già 4,6 milioni di persone, diventati 5,6 milioni nel corso del 2020. Un aumento massiccio, che sarebbe stato però molto superiore se non avessimo avuto, appunto, il reddito di cittadinanza. Certo, la riforma che doveva «abolire la povertà» è nata in fretta, con molti difetti di progettazione.

Ciò che serve oggi non è certo una sterile contrapposizione di principio, solo un buon «tagliando» basato su un pacato sapere empirico. Che cosa, esattamente, andrebbe cambiato?

Il primo aspetto da migliorare è la capacità del Rc di intercettare i veri indigenti. Fatto cento il numero delle famiglie in povertà assoluta, solo 44 ricevono il sussidio, le altre 56 no … leggi tutto

Leggi anche: Bologna – Reddito di cittadinanza, altri 29 denunciati: l’accusa è truffa aggravata

Matteo Renzi: «Pronto il quesito contro il reddito di cittadinanza»

Scoperta furbetta del reddito di cittadinanza, rischia il carcere

Veneto, ultimo in classifica per reddito di cittadinanza, irregolarità nel 90% dei casi

Percepivano il reddito di cittadinanza senza averne diritto: 30 denunciati dai carabinieri di Alessandria

(Leon)

Quei «cento passi» ancora così difficili in Sicilia (corriere.it)

di Felice Cavallaro

Martedì, alla presentazione di un libro su 
Felicia Impastato, 

la madre coraggio di Peppino di compaesani ad assistere ce n’erano davvero pochissimi

A trent’anni dalla stagione delle grandi stragi di Cosa nostra e dopo il grande impegno di un’antimafia seria (non quella parolaia), tanti siciliani non riescono proprio a fare quei «cento passi» entrati nel linguaggio del cinema e del riscatto civile. I «cento passi» di Peppino Impastato. Com’è accaduto l’altra sera a Cinisi, nel paese a ridosso dall’aeroporto di Palermo dove «don» Tano Badalamenti ordinò il massacro di quel figlio storto di un suo amico mafioso.

Perché martedì, alla presentazione di un libro su Felicia Impastato, di compaesani ad assistere ce n’erano davvero pochissimi.

Cinisi continua così a voltare le spalle anche alla madre coraggio che fece riaprire le indagini sulla messa in scena di un fallito attentato terroristico. Come aveva voltato le spalle ai funerali di Peppino nel maggio 1978. E anche alla prima proiezione del film di Marco Tullio Giordana con Luigi Lo Cascio pronto a percorrere i «cento passi».

È questa storia che un’intera comunità sembra non volere recepire, anche se a parlare accanto agli autori di «Io Felicia» e alla nipote Luisa, c’era il sindaco, Giangiacomo Palazzolo, il dito puntato contro gli assenti, contro i suoi stessi concittadini: «Un paese che ha paura di guardarsi allo specchio, ancora percorso da una certa mentalità».

Ed è come rivedere «L’ora legale», il film di Ficarra e Picone con un sindaco che era meglio dei suoi elettori … leggi tutto