Omicidio Rostagno. Un delitto voluto da Cosa nostra (articolo21.org)

di Rino Giacalone

L’attività giornalistica di Mauro Rostagno, 
sociologo e giornalista, torinese di origine, 
tra i fondatori di Lotta Continua, «poneva 
in crisi il sistema di potere criminale 
imperante nella provincia di Trapani». 

Da qui la decisione di Cosa nostra di uccidere il 26 settembre 1988 Mauro Rostagno, 46 anni, che all’epoca dirigeva a Trapani l’emittente televisiva Rtc. La Cassazione (presidente Di Tomassi, relatore Santalucia) ha così scritto nelle 38 pagine con le quali ha motivato la conferma della condanna all’ergastolo del capo mafia di Trapani Vincenzo Virga, mandante, «per volere del capo mafia della provincia di Trapani, Francesco Messina Denaro» dell’omicidio.

Rostagno, come hanno confermato diversi collaboratori di giustizia, testimoniando nel processo di primo grado svoltosi dinanzi alla Corte di Assise di Trapani (presidente Pellino a latere Corso) rappresentava per la mafia trapanese una “camurria”, una persona fastidiosa, da eliminare.

Furono tentati dalla mafia tentativi a zittirlo attraverso l’editore della tv dove Rostagno, giornalista intelligente e caparbio, dove di fatto faceva da direttore, un ridimensionamento dell’attività giornalistica che però non ci fu, tanto che la mafia aveva anche pensato di uccidere per vendetta e punizione l’editore, l’imprenditore Puccio Bulgarella.

La Cassazione, che però nulla ha detto sulle connessioni esistenti nel trapanese tra mafia e massoneria, sui quali parecchio si soffermarono i giudici di primo grado descrivendo lo scenario in cui maturò il delitto, ha condiviso le sentenze di primo grado e di appello a proposito della responsabilità nel delitto del capo mafia di Castelvetrano, Francesco Messina Denaro, morto nel 1998, ma all’epoca dell’omicidio Rostagno indiscusso capo della cupola della provincia di Trapani. Da “don” Ciccio Messina Denaro, padre dell’attuale latitante Matteo, arrivò la condanna a morte di Mauro Rostagno … leggi tutto

La quarta gamba del governo Conte azzoppata dal giustizialismo grillino (linkiesta.it)

di

Un’indagine contro la ’ndrangheta della procura 
di Catanzaro coinvolge l'Udc calabrese e 
costringe alle dimissioni Lorenzo Cesa, uno 
degli uomini corteggiati per rafforzare la 
sua traballante maggioranza. 

Ancora una volta cronaca e politica si incrociano, con l’irruzione di carte bollate e manette nel mezzo dell’ennesima crisi

Ancora una volta, va detto come fatto oggettivo, la magistratura entra con tutto il suo peso in una delicatissima crisi politica che è ancora lontana dall’essere chiusa.

Mentre la Calabria che va al voto nei prossimi mesi per rinnovare il consiglio regionale dopo la morte della governatrice Jole Santelli diventa un laboratorio politico, con Luigi de Magistris in pista appoggiato da una serie di mondi non lontani da quelli del procuratore Gratteri, ecco che da Catanzaro quest’ultimo bombarda l’Udc, il piccolo partito di centrodestra guidato fino a oggi da Lorenzo Cesa, raggiunto da un avviso di garanzia per associazione a delinquere aggravato dal metodo mafioso nell’ambito di una maxioperazione contro la ’Ndrangheta – che ha un nome fantastico, Basso profilo: agli arresti domiciliari anche Francesco Talarico, assessore al Bilancio della Regione Calabria e segretario regionale dell’Udc.

Secondo l’accusa gli Udc locali avrebbero accettato di favorire un imprenditore, Antonio Gallo – che aveva stretti rapporti con le cosche – nella sua corsa agli appalti prima in Calabria e poi a Roma. E sarebbe stato nella Capitale che Gallo avrebbe incontrato Cesa. Di qui il coinvolgimento dell’(ex) segretario dello scudocrociato.

Cronaca e politica dunque si incrociano un’altra volta, come in mille altre occasioni della storia italiana, con l’irruzione di carte bollate e manette nel bel mezzo dell’ennesima crisi politica, nei giorni decisivi per un presidente del Consiglio che si è trasformato in rabdomante di voti parlamentari per assicurare un bis al suo secondo governo – bizzarrie della matematica applicate a una politica in disfacimento – dopo l’abbandono di Italia viva … leggi tutto

Il giorno in cui fu uccisa la speranza. Quarantuno anni fa la morte di Piersanti Mattarella (articolo21.org)

di Paolo Borrometi

C’è un prima e c’è un dopo nella storia della 
Sicilia. Lo segna una data: 6 gennaio 1980.
Quel giorno venne drammaticamente assassinato, sotto gli occhi della sua famiglia, l’uomo che aveva avviato una nuova stagione politica nell’isola, Piersanti Mattarella. Un killer gli sparò contro otto colpi di pistola per uccidere lui e la speranza dei siciliani che, in lui, vedevano la nascita di una nuova politica, contro la mafia, la corruzione, l’illegalità.
Mattarella, con Moro, erano una speranza per il Nostro Paese. Entrambi brutalmente uccisi.
Oggi sono 41 anni dalla sua uccisione, anni in cui sulla sedia di Presidente della Regione si sono accomodate persone condannate per gravissimi reati.
Abbiamo bisogno, tanto bisogno, di quella speranza. E di quella politica delle “carte in regola”. E il presidente Mattarella ci ricorda che nella vita bisogna schierarsi, l’indifferenza favorisce le mafie ed i loro fiancheggiatori.