Il micidiale mito della vittoria mutilata incombe sull’Ucraina ferita (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

La consapevolezza sempre più forte che Kyiv dovrà fare affidamento sulle sue forze, dopo la vittoria di Trump. E gli europei, qualcuno dei quali continua a fare foto ricordo con Zelensky, che cosa faranno per salvargli la faccia?

A Budapest erano riuniti i leader della Comunità politica europea, più di quaranta stati, convocati per discutere del futuro del continente, all’indomani di Trump. Il pletorico organo si era riunito per la prima volta nell’ottobre 2022, su sollecitazione di Macron, dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Gli è letteralmente passata sopra la testa lo scambio di affettuosità fra Putin e Trump: vediamoci, ci vediamo. Orbán ha fatto la ruota, Zelensky ha ribattuto, a futura memoria.

L’altro giorno Kristina Berdynskykh riferiva qua le reazioni ucraine al trionfo di Trump. “La cosa principale che accomuna tutti – concludeva – è la consapevolezza che Kyiv dovrà ora fare sempre più affidamento sulle proprie forze nella guerra contro la Russia”. Constatazione piena di onore, ma naturalmente nessuno può pensare che l’Ucraina sia in grado di sostenere con le sole proprie forze, e nemmeno con quelle residue e avaramente centellinate degli alleati, la guerra con la Russia.

Si può, da chi sta dalla parte dell’Ucraina invasa e massacrata, interrogarsi sulla nuova situazione, temuta più che prevista. E riconoscere intanto che non è dai dirigenti ucraini che ci si può aspettare un discorso diverso: l’acqua alla gola non consiglia la duttilità. Chiunque abbia un’autorità in Ucraina deve temere di aprire una crepa dalla quale passi il crollo.

C’è ancora un paio di mesi e poco più di Biden: può fare qualcosa prima dell’avvicendamento? Era possibile, e sarebbe stata l’altra faccia della signorilità con cui ha accettato la sconfitta e il passaggio di consegne. Ma il successo di Trump è stato troppo schiacciante per autorizzare iniziative audaci. Tanto meno sulla assicurazione e i tempi di un ingresso nella Nato, l’ultima delle cose che Trump potrebbe tollerare.

Allora? Una qualche fine della guerra in Ucraina è, fra tutte le promesse millantate da Trump, l’eventualità più a portata di mano. Senza paragone con Israele e medio oriente e Iran. Putin, con il discorso al Club Valdai, ruffianamente e oltraggiosamente confidenziale, gli ha aperto la strada. Sono ambedue capaci di tutto. (Forse Putin di più: Trump può preoccuparsi di compromettere il proprio esordio).

L’Ucraina ha una forza di persuasione, o di ricatto, se si voglia dire così, ridotta al lumicino. La vanteria di Trump – chiuderò la guerra in un giorno – ha un doppio suono alle orecchie degli ucraini: per quelli stremati da due anni e mezzo di sofferenza così da agognare, che se lo dicano o no, una fine, il suono di una possibile liberazione dall’incubo; per quelli che resistono a ogni costo, e che a nessun costo vogliono tradire il sacrificio degli innumerevoli caduti, un suono lugubre di tradimento.

E quel doppio sentimento può risuonare in ciascuna persona. I combattenti sono fedeli a chi li ha preceduti, i civili sono sempre più angosciati dalla chiamata che incombe sui loro cari.

A Budapest, Zelensky ha detto: “Su una fine rapida della guerra: oggi, io credo che il presidente Trump voglia una conclusione rapida. Che lo voglia, non significa che andrà a finire così. E non protestate, sto solo dicendo che siamo dove siamo. E siamo in guerra coi russi. Questo è un fatto, è il nemico più impegnativo di questo secolo… Ecco perché dobbiamo prepararci a qualsiasi decisione. Vogliamo una giusta fine della guerra. E io so che una rapida fine della guerra comporta perdite per l’Ucraina: non può essere diversamente. Forse non sappiamo o non vediamo qualcosa… C’è bisogno di un po’ di tempo”.

Qualcuno potrà contare su un gioco delle parti. Trump – ammesso che faccia star buono Mike Pompeo – dirà pubblicamente a Zelensky e agli ucraini: bisogna finirla, vi lascerò senza armi, sarà la mia responsabilità. 

Immaginando che Zelensky e i suoi rispondano: dobbiamo cedere alla forza maggiore, non dipende più dalla nostra volontà. Zelensky e i suoi (quelli che gli resteranno in un momento così drammatico) potrebbero anche rifiutarsi di mettere la propria firma sotto il compromesso imposto, rivendicarsi estranei, passare la mano.

Hanno molti rivali, li avevano prima del 24 febbraio 2022, l’accordo tacito fu di accantonare i dissensi fino al dopoguerra. Allora il dopoguerra si figurava diverso. Possono esplodere prima, proprio riguardo all’agonia della fine della guerra – qualunque cosa sia, un cessate il fuoco, un negoziato, un congelamento… Il navigato Poroshenko si è affrettato a calcare la mano sul rifiuto di qualsiasi concessione: ha fissato ieri cinque “linee rosse” invalicabili – e ha voluto precisare che l’Ucraina non è ancora pronta per la Nato. Dall’America, Oleksey Arestovych, che è il più spregiudicato compromesso vivente, e conserva un seguito ingente (quasi due milioni su YouTube) continua a picchiare ai fianchi: ieri giurava che non un solo soldato nordcoreano si era affacciato a Kursk e tanto meno al fronte ucraino. Ha anche “rivelato” che nella lista dei nemici compilata dal sito Myrotvoretz (attribuito al servizio segreto, l’Sbu), figurava dal 2018 il nome di Donald Trump, e che è stato cancellato l’altro giorno. (Elon Musk c’era).

E gli europei, qualcuno dei quali continua a fare una foto ricordo con Zelensky, che cosa faranno per salvargli la faccia? Che cosa faranno per salvare la propria, lasciamo perdere.

L’ultimo sondaggio sostiene che nella fiducia degli ucraini Zelensky sia in testa – con una percentuale dimagritissima – seguito da Zaluzhny e, a molta distanza, da Poroshenko. Zaluzhny, che sta a Londra in silenzio, avrebbe dalla sua la reputazione intatta di militare (ma era lui a volere la mobilitazione di massa), quando le tensioni nel paese richiedessero un’influenza autorevole sul sentimento di tradimento dei combattenti.

Tranne qualche minore rotto a tutto, nessuno, per ora, vuole fare la prima mossa. Ciascuno vede di essere con l’acqua alla gola, ma vuole essere lui il derubato. Comunque vada, è fin d’ora certo che l’Ucraina aggiungerà al suo tremendo costo di vite, sentimenti e cose, la micidiale mitologia della vittoria mutilata.

L’ex ministro degli esteri Dmytro Kuleba ha avvertito i suoi connazionali che avranno un gran bisogno, un bisogno ancora più grande, di farmaci per il cuore.

Il governo non presenta il report sull’applicazione della legge 194: è la prima volta in 46 anni (editorialedomani.it)

di Federica Pennelli

Diritti
Mancano i dati del 2022. Sportiello (M5s) e l’attivista Di Martino si chiedono se, dietro questo ritardo, non ci sia una volontà politica «rispetto a una linea di continuità sulle politiche di deterrenza che questo governo sta portando avanti rispetto al diritto all’aborto».
Le associazioni continuano a chiedere dati aperti in relazione alle strutture pubbliche
Se i dati pubblici sono un bene comune e una risorsa per la cittadinanza, in Italia abbiamo un serio problema con la loro messa a disposizione da parte del governo, tramite il ministero della Salute. Nel dettaglio, da nove mesi si attende la pubblicazione di un importante report, quello che ogni anno fotografa l’applicazione della legge 194, che permette l’interruzione volontaria di gravidanza, nel nostro paese.

Nonostante la deputata del M5s Gilda Sportiello avesse presentato un’interrogazione parlamentare il 1° ottobre, scritta insieme a Federica Di Martino del progetto “Ivg, ho abortito e sto benissimo”, non aveva avuto alcuna risposta da parte del ministero della Salute.Solo l’8 novembre, tornando a presentarne una seconda, è riuscita ad avere un’amara risposta: i dati non ci sono, siamo fermi a quelli del 2021. Mancano dunque all’appello i dati del 2022, per la prima volta in 46 anni dall’istituzione della legge 194.

Le risposte mancate

Il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, ha risposto a Sportiello che «sussistono oggettive difficoltà tecniche a rispettare la scadenza, poiché la raccolta, il controllo e l’elaborazione dei dati analitici sull’interruzione volontaria di gravidanza di tutte le regioni e le province autonome determina un procedimento comprensibilmente lungo e delicato». E ha aggiunto che «la trasmissione dei dati relativi al 2023, da parte delle regioni e delle province autonome all’Istituto superiore di sanità e all’Istat, è infatti ancora in corso».
Per Di Martino, quello a cui stiamo assistendo «ha dell’incredibile ed è vergognoso. Un ritardo simile non si era mai registrato.
Si è parlato di produzione del report dei dati che dovevano essere raccolti afferenti all’anno 2023, ma quelli che stiamo aspettando sono quelli del 2022, nonostante siano già presenti dei dati Istat che non vengono, però, aggregati insieme a quelli che spettano, in termini di raccolta, al ministero della Salute e alle regioni».

Sportiello e Di Martino si domandano se, dietro le ragioni di questo ritardo, non ci sia invece una volontà politica «rispetto a una linea di continuità sulle politiche di deterrenza che questo governo sta portando avanti rispetto al diritto all’aborto».

«Sono talmente insoddisfatta che, ogni volta che ascolto qualche risposta alle interpellanze che pongo al governo, mi chiedo: perché l’ho fatto, se poi mi devo sorbire una risposta che dimostra che il governo non ha la minima idea di quello che sta facendo o di quello che sta succedendo? – si chiede Sportiello –. Non venite a dire che volete applicare la legge 194, perché non è così.
Se così fosse, dovreste battervi in prima persona per assicurarvi che l’aborto farmacologico sia somministrato in tutte le regioni allo stesso modo e sia garantito, perché lo prevede la legge. Non lo state facendo ma anzi, nelle regioni che amministrate, addirittura lo negate, andando contro una circolare ministeriale. E non potete dire con tanta, ma veramente tanta ipocrisia, che volete applicare la legge 194».

La mancanza di dati apertiI

problemi legati alla mancanza dei dati, spiega Di Martino, sono molteplici: «Così come la 194 è stata svuotata di senso, anche il report sulla 194 è stato svuotato di significato reale ed è diventato un mero pro forma con dei dati a cui potersi aggrappare per strumentazioni ideologiche».
Infatti il dato dell’obiezione di coscienza, dai report, sembra ridursi di anno in anno, ma nei fatti non è così: «Qualcuno ci deve spiegare perché i problemi che incontrano le donne ad abortire sono sempre più grandi. È diventato soltanto un manifesto per rendere conto all’Europa del fatto che l’Italia garantisce, da un punto di vista formale, il diritto all’aborto, mentre sappiamo che questa cosa non avviene», continua Di Martino.

Da un lato, quindi c’è una «sottovalutazione dello strumento del report, che andrebbe rimodulato inserendo altri parametri con dati aperti e divisi per strutture, mentre a oggi continua ad apparire come strumento vuoto, una mera formalità che risulta tuttavia necessaria per continuare ad avere una minima prospettiva sui dati».

Per rispondere alla domanda se la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza (Ivg) sia applicata, bisogna avere dei dati e nella relazione di attuazione del ministero della Salute ci sono solo i dati nazionali e regionali: cioè dati chiusi, aggregati per regione.
Nel lavoro, che poi si è tradotto in un libro “Mai dati”, delle giornaliste Chiara Lalli e Sonia Montegiove, si sottolinea come servano invece i dati aperti e per ogni struttura ospedaliera: «Solo se i dati sono aperti sono utili e ci offrono informazione e conoscenza. Solo se i dati sono aperti hanno davvero un significato e permettono alle donne di scegliere in quale ospedale andare, sapendo prima qual è la percentuale di obiettori nella struttura scelta».

L’accesso all’aborto in Italia

La dottoressa Silvana Agatone, ginecologa, presidente e membro del comitato scientifico di Laiga, spiega a Domani l’iter dei dati: «Ogni volta che un medico effettua l’interruzione volontaria di gravidanza deve trascrivere il dato, che poi viene mandato all’Istituto nazionale di statistica.
Dall’Istat viene inoltrato all’Istituto superiore di sanità (Iss) che elabora i numeri per poi inoltrarli al ministero della Salute». All’interno della relazione, dovrebbero esserci anche i dati sull’obiezione di coscienza ma, per Laiga, non dovrebbero essere presentati come tali quelli di infermieri e medici anestesisti, perchè «non dovrebbero potersi appellare all’obiezione di coscienza.
La legge parla di “quelle azioni che determinano un’interruzione di gravidanza” per cui assistiamo all’errore madornale per cui viene monitorata l’obiezione di personale altro, che non ha nessun diritto legale di farlo. Un errore che fa sì che negli ospedali basta dirsi obiettore e scappare, anche per motivi di urgenza, perdendo tempo prezioso».

Sono capitati, infatti, casi in cui «si entra nella sala operatoria e tutti scappano dicendo “io sono obiettore” e uno li insegue dicendo loro “guarda che non puoi farlo”, perdendo tempo prezioso per la donna.

Un magistrato, se dovesse indagare sulla cosa, andrebbe a cercare solo il ginecologo, non vedendo che è tutto l’ambiente che determina un ritardo illegale». Sulla questione delle Ivg, la dottoressa afferma che «solo poco più della metà degli ospedali offrono l’Ivg nei primi 90 giorni e la cosa più difficile è che molti meno la offrono dopo per le malformazioni fetali. Nel Lazio le Ivg dopo i 90 giorni si effettuavano solo a Roma ed eravamo solo in sei a eseguirle».
Non basta, inoltre, sapere solo quanti siano i medici che si dichiarano obiettori, ma anche sapere quanti siano i sanitari che poi, effettivamente, eseguano gli aborti: «Nei reparti vengono monitorati coloro che si dicono non obiettori, ma è capitato che coloro che si dichiaravano non obiettori fossero presi, per contratto, a fare solo ecografie.
Poteva sembrare che in quell’ospedale ci fossero non obiettori in più, ma non era proprio così. Inoltre, alcuni si dichiarano non obiettori ma poi non vogliono eseguire le Ivg, quindi il dato andrebbe rivisto» perché il numero dei non obiettori non significa, purtroppo, avere più personale medico che effettua le Ivg.Eleonora Mizzoni, con il progetto di mappatura dell’obiezione di coscienza “Obiezione respinta”, dal 2017 fa inchiesta sullo stato dell’arte di accesso alla contraccezione ordinaria, di emergenza e Ivg, a partire dalle testimonianze delle utenti sulle varie strutture ospedaliere.

Mizzoni dichiara a Domani che hanno sempre rilevato una profonda discrepanza tra il report del ministero sull’applicazione della 194 e la realtà: «Una discrepanza quantitativa, dato che nel report manca il sommerso dell’obiezione di coscienza dei farmacisti, che obiettano illegalmente sulla contraccezione di emergenza, come manca anche un dato sull’obiezione di struttura, ovvero quegli ospedali che fanno il cento per cento di obiezione».

Dal punto di vista qualitativo, «da sempre notiamo come l’enorme stigma e giudizio che c’è intorno alla pratica abortiva, che fa sì che anche negli ospedali in cui le donne e le persone incinte riescono ad accedere all’Ivg si vivano delle pessime esperienze: ascolto del battito fetale senza consenso, commenti moralisti inappropriati, antiabortisti davanti agli ospedali, preti in corsia, mancato supporto medico con testimonianze che ci parlano di medici che si sono rifiutati di fornire antidolorifici».

La cinica geopolitica dalemiana, e la lunga, lunghissima, nottata che attende l’Ucraina (linkiesta.it)

di

Buonanotte, Kyjiv

Tra nostalgia romanzata e verità alternative, l’ex leader dei Ds liquida la causa degli ucraini come un incidente della Storia, sostenendo che la vittoria della Russia sarà inevitabile perché è una potenza troppo grande e per essere fermata.

Purtroppo non è l’unico a pensarla così a sinistra

«Sento leader europei dire: “Vinceremo la guerra contro la Russia”: una sciocchezza. La Russia è una potenza nucleare, non si lascerà sconfiggere. Non perché c’è Putin ma perché sono russi. Ma quali libri hanno letto da ragazzi questi nuovi governanti?». Con la consueta cultura del dubbio che da sempre lo anima, Massimo D’Alema, in una lunga intervista a Domani, ne dice diverse di cose che se fossimo lui definiremmo sciocchezze, ma siccome non siamo lui definiremmo come minimo opinabili, diciamo. È

evidente che l’ex ministro degli Esteri (oggi osservatore con interessi di tutt’altro tipo, commerciali, diciamo) considera la difesa dell’Ucraina una velleità, una specie di obolo da pagare alla dignità di quel popolo, ma soprattutto una causa impolitica, una sconfitta prevedibile, annunciata, inevitabile perché «la Russia non si lascerà sconfiggere»: e dove sta scritto?

Certo, in “Guerra e pace” (lo hanno letto tutti, anche «questi nuovi governanti») ma per venire a tempi più recenti è anche vero che la beneamata Unione sovietica dovette abbandonare l’Afghanistan a gambe levate, e poi bombarda l’Ucraina da due anni e mezzo senza riuscire a sottomettere Kyjiv, segno che anche gli indomiti russi non sono così imbattibili tanto che hanno dovuto chiedere una mano ai nordcoreani giunti alle porte dell’Europa, una follia nella follia.

Tutto questo dimostra che i carri armati di Putin possono essere fermati e il regime di Mosca costretto a una trattativa con l’Ucraina in piedi: o per meglio dire così sarebbe potuto andare se il 5 novembre non avesse vinto Donald Trump.

Ora che nella sostanza Joe Biden non è già più alla casa Bianca (Joe Biden, altro che «questi nuovi governanti», uno che si occupa di politica estera più o meno da quando D’Alema, da “Pioniere”, dava i fiori a Palmiro Togliatti al IX congresso del Partito comunista italiano), è facile dire che la Russia non perderà: Kyjiv la stanno già svendendo.

L’ex leader della sinistra italiana non è «contento» della pax putinian-trumpiana ma in fondo sì, la pace prima di tutto e non c’importa degli altri, come cantava Adriano Celentano, cioè di quegli ucraini che potrebbero vedersi togliere pezzi della loro Patria del tutto illegittimamente, dopo un atto di forza condannato da tutti i paesi liberi.

«Noi» – non si stanca di ripetere l’ex ministro degli Esteri – facevamo politica: con Bill Clinton ma anche andando oltre Bill Clinton («noi cercavamo una soluzione per il dopoguerra. Si convinse») all’epoca della guerra nell’ex Jugoslavia: come se quel conflitto fosse paragonabile all’aggressione di una grande potenza militare come la Russia ai danni di un Paese sovrano.

Ma già, la colpa dell’invasione non è dell’invasore ma dell’Occidente che lo ha fatto innervosire con la strategia dell’allargamento della Nato – anche qui, che c’importa della volontà dei paesi che liberamente vogliono stare “da questa parte” – e questa è esattamente l’argomentazione del Cremlino per giustificare l’aggressione. Invadere è stata un’esagerazione («la responsabilità è di Putin»), ma la responsabilità è dell’America che guida la Nato, diciamo.

Coincidenza, ieri Sergio Mattarella, che ebbe la ventura di essere il vicepresidente del governo guidato da D’Alema (vedi la Storia com’è strana) ha affermato l’opposto: «Risalta oggi come l’Alleanza Atlantica abbia contribuito, in modo determinante, alla stabilità internazionale e al più lungo periodo di pace vissuto dal Continente europeo, saldo ancoraggio per la sicurezza del nostro Paese. La attuale fase di instabilità conferma la validità di quelle scelte.

L’inaccettabile aggressione della Federazione Russa contro l’Ucraina e il conflitto in Medio Oriente ne sono ragioni evidenti». È assai probabile che tra la lettura dell’ex capo dei Ds e quella del presidente della Repubblica un bel pezzo della sinistra non solo quella rossobruna degli estremisti ma anche di quella del Partito democratico preferisca la prima. Adesso – sostiene D’Alema – «serve la poliitica»: ma senza gente come “noi” che eravamo tanto bravi  chi sarà in grado di farla?

Meno male che Donald c’è, pensa l’ex lìder Maximo la sera prima di mettere la testa sul cuscino. E buonanotte, Ucraina.