L’angolo fascista
Non leggete “il Fango Quotidiano”
Un Paese civile non ha bisogno di forcaioli e bugiardi.
Tutte le condanne di Marco Travaglio
Maurizio Belpietro, La Verità e le condanne – Diario
Procedimenti giudiziari per Pietro Senaldi
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Il lessico giornalistico
La stampa filogovernativa deve saper governare le strumentalizzazioni e i conflitti ingaggiati anche da rappresentanti delle istituzioni, che dovrebbero invece essere il luogo della mediazione.
C’è una grande responsabilità dell’informazione nella tutela di diritti fondamentali
Sono diversi i contesti della democrazia populista, di quella maggioritaria e della democrazia costituzionale. Tutti e tre coinvolti dal tema che affrontiamo. Il termine democrazia populista è qui utilizzato in senso neutro, secondo la scienza della politica, non in quello negativo che utilizziamo parlando invece del populismo penale o di quello giudiziario come religione di massa. Sono due profili collegati ma distinti (cfr. sul primo Donini, Populismo e ragione pubblica, Mucchi, 2019; sul secondo Id., Populismo penale e ruolo del giurista, Sistema penale 7.9.2020).
Infatti, il contesto del giornalismo in generale, anche di sinistra, è obiettivamente quello della democrazia populista in una accezione che vede l’estensione dei temi della Costituzione, della tecnica del diritto e dei diritti, nello spazio pubblico di destinatari potenzialmente molto allargati, preparando un discorso evocabile anche in un eventuale talk show.
È populista il discorso sui diritti non solo (negativamente) se si appella alla maggioranza o alla sua rappresentatività nella figura del leader, impiegando argomenti per una massa di ascoltatori-lettori plaudenti a brevi inputs assertivi fondati su emotività ed effetti speciali, abbacinati mediante una sacralizzazione maggioritaria del potere; ma è populista anche (più positivamente) il messaggio che ha come interlocutrice quella stessa platea, alla quale vengono invece esibiti altri argomenti di contrasto che veicolano i valori dei diritti costituzionali e sovralegislativi: creando così lo spazio dialettico per un populismo non meramente maggioritario all’interno di quest’ultimo.
Il che è oggi reso più comprensibile a tutti per il fatto che la maggioranza politico-elettorale è numericamente una minoranza, e non può certo vantare basi sacrali di legittimazione.
Ciò premesso, il giornalismo costituisce in modo direi naturale il background, la base culturale e lessicale di tutti e tre quei livelli, se si vuole che anche la democrazia costituzionale raggiunga l’estensione di quella maggioritaria e di quella populista nello spazio pubblico.
Per il resto, mi limito a definire maggioritaria la democrazia basata sul consenso, più che sui vincoli giusrazionali e normativi imposti al Parlamento da fonti sovralegislative; costituzionale la democrazia che si richiama ai vincoli alla stessa legislazione, a ciò che è sottratto a decisioni puramente maggioritarie e trova deposito nei testi costituzionali ed equiparati, pertanto anche dell’Unione europea e di fonti sovranazionali; mentre è populista la democrazia che muove dalla crisi di rappresentatività delle democrazie nel mondo e si appella direttamente al consenso non solo elettorale, ma anche esterno alle competizioni politiche formali, per orientare l’opinione pubblica attraverso strumenti e veicoli di comunicazione estranei alle discipline scientifiche o accademiche, o lessicalmente da quelle divergenti, ma capaci di catturare attenzione e partecipazione di soggetti che sono o potranno diventare elettori o anche soltanto sostenitori di una parte politica. La parte metodologica di questa riflessione finisce qui. Affrontiamo ora quella dei contenuti.
Il primo punto riguarda il senso della politica come luogo del bene pubblico, della ricerca di un bene comune, non della perenne lotta tra amici e nemici. La logica amico-nemico come “essenza” della politica, notoriamente descritta in un famoso scritto di Carl Schmitt, può affascinare sul piano descrittivo, ma non deve diventare una pratica deontologica dell’azione.
Anche la sua quotidiana emersione nei discorsi e nel vissuto della leader di Governo appare spesso una pratica subìta e sofferta, ma non certo espressione di una visione cristiana (v. Tommaso D’Aquino, J. Maritain e il bene comune, esteso alle moltitudini, e non solo ai cives), e neppure istituzionale (v. il costituzionalismo moderno) della politica, che è terreno di protezione dei diritti universali e non solo di cittadinanza.
L’esaltazione, oggi sempre ricorrente, del sistema maggioritario come luogo della perenne contrapposizione tra poli, se diventasse l’adesione a una filosofia à la Schmitt, dovrebbe essere solo per questo rifiutata. Non può connotare un governo, che è organo anche co-legislativo che coopera con il Parlamento in questa funzione istituzionale.
Anche una concezione marxista o gramsciana della politica, anche la lotta di classe, o la lotta tout court, depurata di declinazioni penalmente rilevanti, non può costituire oggi la base deontologica di un’azione governativa: le istituzioni sono sempre di mediazione, non di lotta, essendo sottoposte a bilanciamenti giurisdizionali. La lotta appartiene alle parti sociali e dunque anche ai partiti, non alle istituzioni che i partiti non occupano (o non dovrebbero occupare). E tale è il diritto costituzionale, una istituzione gestita da organi giurisdizionali, che si impone a tutti solo a queste condizioni.
Ciò premesso, deve appartenere al lessico comune del giornalismo l’idea che la Costituzione non può diventare terreno di scontro (o di progetto di riforma) meramente maggioritario: la maggioranza politica – oggi tutte le maggioranze sono diventate numericamente minoranze, come detto, depotenziando radicalmente l’idea vetero-populista di incarnare il popolo o qualche vox dei – interpreta giustamente un mandato, ma si esprime in istituzioni quali luogo della mediazione e del dialogo tra le parti, non rappresentando unilateralmente una sola parte di quelle in conflitto.
Questa cultura deve diventare patrimonio anche della destra, ma prima ancora del giornalismo che non ne sia per vocazione il controcanto, perché è identitario della sua corretta collocazione istituzionale e del suo contributo costruttivo alla costruzione del dialogo.
La questione dello scontro tra politica (sempre il Governo, in questo momento) e magistratura è un corollario di quanto appena detto. Non si è mai visto che ministri o capi del governo iniziassero un conflitto generalizzato contro singoli atti giurisdizionali che non fanno altro che ripetere la standard view di centinaia di provvedimenti analoghi sul possibile contrasto tra un atto legislativo e il diritto dell’Ue, chiedendo una decisione della Cgue attraverso un rinvio pregiudiziale ex art. 267 Tfue e che lo facessero attraverso una personalizzazione polemica contro singoli magistrati.
Hai visto mai? È la regola, è normale quel ricorso, non è né di sinistra né di destra. E non diventa di sinistra perché nella situazione concreta l’istituzione governativa ha prodotto la legge a sostegno di una sua politica. È sempre così quando si chiede una sentenza alla Corte di giustizia: la personalizzazione delle leggi appartiene alla logica amico-nemico e la sua appropriazione da parte di alcuni partiti schierati (o eventualmente di qualche componente della magistratura) contro gli altri rispecchia una patologia di sistema. Il giornalismo deve sapere governare queste strumentalizzazioni, offrendo una diversa cultura delle istituzioni. Lo chiediamo ai giornalisti filogovernativi. È una mission del giornalismo.
Quanto è successo nella vicenda dell’abrogazione del falso in bilancio (orientata contro i processi, più che contro gli illeciti) e ora nelle reazioni innescate dalla questione Albania, può essere descritto correttamente solo distinguendo tra una democrazia costituzionale e maggioritaria e una democrazia populista.
Anche un quotidiano come il Corriere della sera comincia a percepire che l’azione di governo contro la magistratura “comunista”, ora che quell’azione trova l’opposizione critica anche dell’avvocatura, appare divenuta una strategia e non una risposta comprensibile a una patologia dei giudici (M. Franco, “Se lo scontro sulla giustizia diventa una strategia”, 5.11.24, p. 21).
Lo stesso vale per l’interminabile querelle sulla separazione delle carriere, che non deve costruire una immagine della magistratura come nemico delle istituzioni. I giornali vendono polemiche perché non fanno cultura. Tutti esperti di tutto, la democrazia penale ha divorato le competenze, in nome di una gestione populistica del consenso, che non è amico di quella verità che il giornalismo deve difendere.
Al lessico condiviso, invece, deve appartenere la distinzione tra le conseguenze politiche di un provvedimento, e la base normativa che lo sostiene legittimamente. Il sindacato politico delle decisioni arroventa il clima in modo strumentale, facendo della magistratura il possibile terreno di simonie politiche: uno dei peccati più gravi è quello di vendere la Giustizia a un prezzario stabilito fuori di essa e capace di desacralizzare tutto il suo contesto.
È vero che in una visione laica la giustizia può essere, fin dalla base costitutiva dello Stato, dal patto sociale, contrattualizzata. Ma quando la Giustizia è solo ormai merce di scambio delle logiche bellicose dei partiti armati l’un contro l’altro, anche la designazione di giudici costituzionali può diventare commercio e la lettura delle loro decisioni ossequio ai loro mandanti.
Sarebbe la fine del diritto costituzionale e di quel poco o tanto di sacrale che la Carta fondamentale, anche la lex e soprattutto il ius, deve e può conservare solo in un quadro super partes. Il giornalismo ha il dovere di preservare questi fondamentali.
Il retroterra culturale diffuso, invece, che ha cominciato a vacillare con il Covid e l’intolleranza per ogni riserva critica su vaccini, gestione delle informazioni e limitazioni dei diritti fondamentali, è esploso in una chiamata collettiva al consenso e all’intolleranza con le guerre nelle quali siamo coinvolti direttamente.
La logica del nemico ha prevalso su tutto. Abbandonando quella dei diritti fondamentali. Qui ci avviciniamo al nocciolo di tutto il discorso. Sono grandi le responsabilità del giornalismo. Bellicisti e realisti vs. pacifisti e idealisti, è una battaglia persa per i secondi. Ma c’è un tema che supera ogni contrapposizione, che avvince ogni azione politica, partitica e statale.
La tutela dei diritti fondamentali, base del costituzionalismo e del diritto dell’Occidente, è un vincolo per la politica internazionale. Ci deve essere passione nel suo sostegno, non tiepidezza.
Alcuni di noi hanno rievocato Kant e il saggio Per la pace perpetua quale momento topico dell’idea di una giurisdizione universale, oggi base della Corte dell’Aia. Non è una panpenalizzazione della politica. È una prevenzione generale contro la logica dello sterminio e non solo del genocidio, reato difficile sempre preso a pretesto per buttare tutto alle ortiche, quando ce ne sono moltissimi altri di crimini contro l’umanità. Al lessico comune deve appartenere il rispetto e la passione per la protezione delle moltitudini, e non solo delle cittadinanze quale limite al diritto di guerra attraverso il diritto umanitario.
E infine, but not least, una questione millenaria relativa alle prassi politiche israeliane (una storia di stermini, dal tempo degli Assiri in poi). Da quando, negli anni ’70 del Novecento, si è diffusa l’idea che dire antisraeliano doveva significare antisemita, i linguaggi e le menti si sono confusi.
È divenuto un verbo occidentale, ma dopo il 7 ottobre 2023 e la guerra illimitata di Netanyahu non è più possibile mantenere quel precetto dell’intolleranza. Deve ritornare nel lessico condiviso l’idea che non si è antisemiti se si critica e rifiuta una politica israeliana lesiva dei diritti fondamentali. Fatto oggi riconosciuto da tutti nel mondo.
Da queste poche premesse può iniziare la leggibilità dei giornali, un’impresa per molti di noi quasi impossibile da tre anni: perché è l’ABC, dal quale possiamo partire per dividerci a destra e a sinistra, quando è davvero necessario coltivare il conflitto per raggiungere il bene comune e non una vittoria elettorale.
di
La trasmissione di Giletti manderà in onda l'inchiesta.
Il settore subisce pochi controlli e necessita da tempo di riforme. Si aspetta la replica di Landini, invitato in tv
Una relazione esplosiva del 2016. Un testo inviato al Senato che illuminava il mondo dei patronati all’estero. E denunciava diffusi casi di malcostume: «Pratiche con mandato di patrocinio irregolare o prive di mandato di patrocinio o con documentazione mancante o insufficiente».
Sono passati otto anni e poco o nulla sarebbe cambiato. Il programma di Massimo Gilett, Lo stato delle cose, va a New York al patronato Inca della Cgil e si imbatte in ventaglio di anomale che verranno raccontate nella puntata in onda domani sera, alle 21.20.
Alessio Lasta, l’autore dell’inchiesta, documenta sprechi, farraginosità e pasticci, in un clima generale di controlli inadeguati. È un elemento intuitivo: è più difficile tenere sotto controllo i dossier che vengono confezionati negli Usa o a Buenos Aires, dove vivono importantissime comunità di nostri connazionali, rispetto a quelli lavorati a Alessandria o Latina.
È esattamente il problema sottolineato, fra allarmi e alert, nel documento approvato dal Comitato per le questioni degli italiani all’estero e inviato a suo tempo a Palazzo Madama. «Gli elementi emersi – si legge in quelle pagine disponibili sul sito di Palazzo Madama – suggeriscono di prendere in considerazione la necessità di approfondire i risultati della presente indagine e ci inducono a ritenere urgente e non rinviabile la costituzione, in collaborazione con la Commissione lavoro, di un Comitato ristretto volto alla elaborazione di una proposta legislativa di riforma dei patronati».
Che cosa è accaduto da allora? La risposta sconcertante, è una sola: nulla. La possibile riforma langue in qualche cassetto e ogni tentativo di razionalizzare e migliorare il servizio offerto dai patronati nei cinque continenti e fallito o è stato insabbiato.
Forse, per sciatteria. Forse, per dimenticanza. Forse, perché il sistema va bene così. Anche se dovrebbe essere svecchiato e reso più trasparente, con prevedibile riduzione dei costi a carico del contribuente.
E invece no, si va avanti così, o almeno questo salta fuori dall’inchiesta che verrà trasmessa domani sera e commentata da Giletti.
Il meccanismo è semplice: più pratiche trattate portano punti al patronato che le svolge e i punti garantiscono l’aumento dei finanziamenti. Si tratta di contributi sempre erogati correttamente? L’indagine ruota in sostanza intorno a questa domanda, riprendendo le sempre attuali osservazioni elaborate dal Comitato otto anni fa. Fra l’altro, il Comitato mette in evidenza una criticità, talvolta un trucco, per aumentare i compensi degli operatori: la cosiddetta «doppia statisticazione» delle pratiche, per esempio per avere la pensione.
Un tizio va al patronato prima di chiudere la propria vita lavorativa, così da approfondire la propria situazione; poi magari torna, dopo qualche anno, per un aggiornamento e viene conteggiato due volte, giusto modificando qualche dato. In questo modo le cifre vengono gonfiate e gli importi si fanno più consistenti.
Tutto questo può anche essere il frutto della disattenzione, ma il fatto preoccupante, sull’altro versante, è la scarsità dei controlli che dovrebbero essere molto più capillari e non sono certo favoriti – almeno negli anni presi in esame dal comitato – dalla mancata digitalizzazione e dalla presenza di apparati ancora cartacei. Troppo poche ispezioni.
Ma quelle avvenute hanno portato spesso ad una revisione al ribasso dei punteggi ottenuti dai patronati. «Solamente negli anni e nelle sedi – osserva la relazione – dove c’è stata un’ispezione c’è stata una riduzione, a volte consistente, del punteggio». Un malfunzionamento scoperchiato nel 2016 ma tutto, o quasi, è rimasto come allora.
Anche all’Inca della Cgil di New York (una delle 99 sedi del patronato presenti in 26 Paesi) sono affiorate presunte irregolarità e opacità. Si aspetta la replica di Maurizio Landini che è stato invitato da Giletti in studio.
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Tutte le condanne di Marco Travaglio
Maurizio Belpietro, La Verità e le condanne – Diario
Procedimenti giudiziari per Pietro Senaldi
Le conseguenze del trumpismo
Come dice l’ex consigliere di Putin, il capo della Casa Bianca e quello del Cremlino si intendono «come capi di clan mafiosi rivali».
Ma la seconda vittima della vittoria di Trump, dopo l’Ucraina, rischia di essere proprio l’Europa, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette
A nemmeno due giorni dall’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca – ma chi l’avrebbe mai detto – la notizia sulle prime pagine di tutti i giornali è la riapertura del dialogo con Vladimir Putin, ovviamente sulla pelle degli ucraini. Sulle ragioni profonde della loro intesa, per una volta, mi pare si possa dare credito alla versione russa, e in particolare a Sergej Markov, direttore dell’Istituto di Ricerche Politiche di Mosca ed ex consigliere di Putin, che a Repubblica la spiega così: «Da uomini forti, Trump e Putin si rispettano.
Si rispettano come i condottieri di eserciti in guerra o come capi di clan mafiosi rivali». Personalmente, propenderei più per il secondo paragone, ma non esagererei con la rivalità. Al massimo, un po’ di invidia (da parte di Trump, ovviamente).
Sempre su Repubblica, giusto nella pagina accanto, Timothy Garton Ash scrive: «La prima vittima del secondo mandato di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti sarà probabilmente l’Ucraina. Gli unici che possono evitare questo disastro siamo noi europei». Il guaio è che la seconda vittima della vittoria di Trump rischia di essere proprio l’Europa.
Emmanuel Macron ha reagito al risultato americano affermando che avrebbe lavorato con il cancelliere Olaf Scholz per un’Europa «più unita, più forte, più sovrana». Ma come ricorda Garton Ash la Francia ha ormai un governo debole e instabile, che «di fatto dipende per la sua sopravvivenza politica dalla populista Marine Le Pen, amica di Putin», mentre il governo Scholz è entrato in crisi poche ore dopo l’elezione di Trump, lasciando «il potere centrale europeo in un limbo pre e post elettorale (lungo potenzialmente mesi)».
Data la gravità della situazione, forse possiamo permetterci almeno il lusso della verità. Se nel 2014, davanti alla prima aggressione russa dell’Ucraina, la reazione degli Stati Uniti di Barack Obama e dell’Unione europea fosse stata più adeguata e consapevole, probabilmente non saremmo arrivati a questo punto.
Dove potremo scivolare se Trump darà seguito alle idee fatte circolare negli ultimi tempi – lasciare alla Russia i territori conquistati e garantirgli persino la “neutralità” dell’Ucraina, cioè la sua impossibilità di difendersi da nuove aggressioni – è davvero difficile prevederlo. Ma è facilissimo pronosticare che non sarà un futuro di pace e prosperità, né per gli ucraini, né per noi europei.