Il bagno di realismo della sinistra e il rischio di un armistizio sulla pelle degli ucraini (linkiesta.it)

di

Pax trumpiana

Dopo la sconfitta dei democratici americani, il timore è che nel Partito democratico italiano si rafforzi quel filone rossobruno che finora Schlein ha tenuto ai margini

L’epocale sconfitta dei Democratici americani è «una grande lezione», come dice Pina Picierno, che in teoria dovrebbe portare a forse qualche novità tra i progressisti europei.

La valanga trumpiana dovrebbe aprire gli occhi a molti, ma è probabile che produca anche il solito riflesso identitario vecchia maniera («dobbiamo essere più radicali», «al centro non si vince» e banalità simili), bypassando il nodo vero di una sinistra che non sa parlare più a popolazioni che nell’età della paura chiedono appunto sicurezza, in tutti i sensi, economica e fisica innanzi tutto.

Nel Partito democratico si attende che la segretaria Elly Schlein imposti una riflessione più approfondita delle prime parole espresse a botta calda («La vittoria di Trump è una brutta notizia. Chi oggi lo festeggia per ragioni di bandiera smetterà presto quando gli effetti di una nuova politica protezionistica colpiranno le imprese e in lavoratori in Europa e anche qui nel nostro Paese»).

Un primo serio ragionamento lo ha svolto Lia Quartapelle, esponente riformista, osservando che «da tempo la sinistra occidentale non vede i problemi scomodi (l’immigrazione, la microcriminalità, la sicurezza nazionale), non aggredisce le questioni economiche o la crisi del sistema di welfare. Quando la sinistra in Occidente vince, vince con personalità rassicuranti che offrono qualche cerotto. Quando mobilita, mobilita segmenti sempre più ridotti di elettorato usando l’identità e l’indignazione».

Ecco dunque che un tema come la sicurezza, sempre un po’ rimosso soprattutto se visto in connessione con la questione-immigrazione, potrebbe avere una sua centralità nella proposta complessiva (di governo) del partito di Elly Schlein. Sarebbe anche ora di abbandonare buonismi e genericità, regalando di fatto alla destra il compito di fare i conti con questa questione che nelle società occidentali è una priorità.

«La sicurezza è un tema decisivo, trasversale e sempre più sentito – dice Carlo Calenda – liquidarlo come argomento reazionario e razzista è una beata fesseria. Se diminuisce il benessere i cittadini hanno paura di dover dividere una torta sempre più piccola con più persone per di più di altre nazionalità».

Altro che evocare una «rivolta sociale» come improvvidamente ha fatto Maurizio Landini, qui si tratta di fare un bagno di realismo nel senso delle riforme partendo dalle domande vere dei cittadini. Non si tratta di inseguire la destra, quanto di competere con essa con progetti seri: «I repubblicani hanno avuto gioco facile – osserva Matteo Renzi – e la cosa che mi fa più rabbia è che questa destra, quanto di più lontano da me, ha saputo raccontare una storia e costretto gli altri a inseguirla».

Allo stesso modo, è possibile che la vittoria di Trump comporti qualche scompiglio in politica estera. Non a caso Lorenzo Guerini ha sentito il bisogno di dire subito la sua: sull’appoggio all’Ucraina non si arretra di un millimetro. La pace? Certo, ma «con l’Ucraina in piedi»: altro che resa!

Il presidente del Copasir ed ex ministro della Difesa si rende benissimo conto che con Donald Trump alla Casa Bianca, Kyjiv rischia di essere usata come primo boccone da consumare assieme a Vladimir Putin, tanto per cementare una diarchia reazionaria alla guida del mondo. E forse Guerini paventa anche un possibile ripiegamento opportunistico appunto in sintonia con il presidente americani da parte di Giorgia Meloni.

Insomma, il rischio di un otto settembre sulla pelle del popolo ucraino è molto forte, tutti a casa, la Russia si pappi pure il Donbas e la Crimea e chi si è visto si è visto. Il nuovo ordine mondiale passa dunque per la strage dei principi, come già è avvenuto molte volte proprio sul suolo europeo.

Guerini forse avverte che, anche per fronteggiare il pacifismo trumpiano di Giuseppe Conte, il gruppo dirigente schleiniano del Pd potrebbe mollare la sua posizione filo-ucraina, peraltro non esente da varie titubanze evidenziate in tante occasioni.

È infatti molto probabile che nel Pd e in generale nella sinistra si rafforzi quel filone rossobruno che finora Schlein ha saputo tenere ai margini, ma che dopo la vittoria di Trump ritiene di sentirsi in sintonia con la Storia, una corrente di pensiero che paradossalmente affida proprio al campione mondiale della destra il compito di portare la pace dopo il bellicismo dei Democratici.

Diversi esponenti soprattutto di scuola comunista la pensano così, anche se per decenza non lo dicono apertamente. Siamo solo alle prime battute ma il dibattito, che sarà ovviamente condizionato dai risultati in Umbria e Emilia-Romagna, è destinato ad aprirsi, con quali conseguenze adesso è impossibile dire. Ma certo è che intorno al Pd tutto sta cambiando.

Il disinteresse di Donald Trump per l’Africa (internazionale.it)

di

Geopolitica

Pensando al primo mandato di Donald Trump e all’Africa, la prima cosa che torna alla mente è la sua uscita sui “shithole countries”, paesi di merda.

Era l’11 gennaio 2018 e alla Casa Bianca Trump stava parlando di un nuovo pacchetto sull’immigrazione con alcuni senatori. In particolare si discuteva della proposta di garantire protezione a immigrati provenienti da Haiti, El Salvador e vari paesi africani. A quel punto Trump era sbottato: “Perché lasciamo che tutte quelle persone provenienti da paesi di merda vengano qui?”.

Pochi mesi prima Trump aveva ordinato il molto discusso travel ban (divieto di viaggiare, nei fatti un divieto di soggiornare negli Stati Uniti per un lungo periodo) ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana (tra cui Somalia e Libia), divieto che successivamente era stato esteso a chi veniva da Nigeria, Sudan, Tanzania ed Eritrea. Una volta Trump ha detto anche che i nigeriani, una volta arrivati negli Stati Uniti, “non se ne sarebbero più tornati nelle loro capanne” in Africa.

In quegli anni Trump si è interessato poco al continente – di cui non sembra avere una conoscenza approfondita, almeno a giudicare dalle sue dichiarazioni – e non ha mai compiuto una visita ufficiale in un paese africano. Anche il suo segretario di stato, Mike Pompeo, c’è andato solo due volte, in Senegal e in Etiopia.

Il presidente Joe Biden negli ultimi quattro anni non ha fatto di meglio: ha rimandato a dicembre, a fine mandato, la sua prima visita nel continente e ha scelto di recarsi in un paese, l’Angola, che non è esattamente un esempio democratico (però da lì passa una ferrovia molto strategica per gli Stati Uniti). La sua vice Kamala Harris, candidata sconfitta alle ultime elezioni, invece, c’è stata e ha scelto delle democrazie: Ghana, Tanzania e Zambia.

Reazioni contenute

Dopo la vittoria di Trump i leader di molti paesi africani – tra cui quelli di Sudafrica, Nigeria, Etiopia e Repubblica Democratica del Congo – gli hanno fatto le congratulazioni di rito. Ma il ritorno alla presidenza degli Stati Uniti suscita anche preoccupazioni, come testimoniato dal fatto che la moneta sudafricana, il rand, ha perso il 3 per cento del suo valore subito dopo l’annuncio dei vincitori delle presidenziali statunitensi.

Il timore, scrive il sito sudafricano Daily Maverick, è che con un senato controllato dal Partito repubblicano, si mettano in discussione gli accordi commerciali preferenziali con alcuni paesi africani (per esempio, quelli previsti dal trattato Agoa) o gli aiuti statunitensi al continente, cosa che avrebbe ripercussioni enormi.

L’Africa riceve la maggior parte degli aiuti esteri dagli Stati Uniti, che nell’ultimo anno affermano di aver versato 3,7 miliardi di dollari. Ma dall’America arrivano anche altri tipi di sostegno: il 7 novembre è stato annunciato inoltre che il 6 novembre gli Stati Uniti e la Somalia hanno firmato un accordo che formalizza la cancellazione di 1,14 miliardi di debiti accumulati dal paese africano verso Washington, una mossa che dovrebbe aiutare Mogadiscio a risollevarsi dagli strascichi della guerra civile.

Tornando in Sudafrica, dal punto di vista delle relazioni tra Pretoria e Washington, potrebbero esserci attriti visto che il Sudafrica fa parte dei Brics ed cerca di mantenere buoni rapporti con Russia e Cina.

Allo stesso tempo, è il paese d’origine del miliardario Elon Musk, un importante sostenitore di Trump nella sua ultima campagna, che già in passato aveva promosso teorie complottiste come quelle del genocidio dei bianchi sudafricani (questo articolo di Eve Fairbanks su The Dial spiega bene il rapporto distorto di Musk con il paese in cui è nato).

Ma il rischio più temuto è un braccio di ferro tra Stati Uniti e Cina, che potrebbe avere conseguenze importanti sia in Sudafrica sia nel resto del continente.

Allargando lo sguardo, ci si può chiedere anche come si contrapporrà la nuova amministrazione Trump alla Russia in Africa, che nel suo primo mandato non aveva ancora una presenza visibile nel Sahel e in altri paesi del continente. Offrirà più aiuti militari ai paesi minacciati dalle insurrezioni jihadiste che si sono rivolti al Cremlino, per contrastare l’avanzata russa nel continente? O lascerà fare?

Per il momento è difficile fare previsioni. Come ha detto l’analista liberiano W Gyude Moore alla Bbc, “Trump è sempre poco ortodosso in tutto ciò che fa. Quindi bisogna prepararsi a essere aperti a cose nuove, non necessariamente buone, ma di certo diverse”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

Il grande equivoco delle materie non-Lep (lavoce.info)

di  e 

Quattro regioni hanno chiesto maggiore autonomia 
su materie non-Lep, quelle che secondo la legge 
non dovrebbero ledere l’eguaglianza dei diritti 
civili e sociali. 

Pur nella totale mancanza di trasparenza del processo, alcuni esempi mostrano il contrario.

La trasparenza che manca sulle richieste di autonomia

Il processo di attuazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, innescato dalla legge 86/2024, la cosiddetta “autonomia differenziata”, avanza nell’opacità più assoluta. Persino alcuni ministri della Repubblica appaiono stupiti quando scoprono che materie di loro competenza, ad esempio la protezione civile o il commercio con l’estero, vengono ora richieste da alcune regioni.

Eppure, era ben noto che con l’entrata in vigore il 13 luglio scorso della legge 86/2024, le regioni avrebbero avuto la possibilità di iniziare immediatamente il negoziato con il governo per arrivare a una intesa sulle nove materie non-Lep, quelle cioè per le quali non è prevista la definizione di un livello essenziale delle prestazioni (Lep) che – come vuole la Costituzione – lo stato deve garantire in tutti i territori. Sappiamo, perché lo ha dichiarato lo stesso ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli, al Consiglio dei ministri, che già il 25 luglio quattro regioni – Lombardia, Veneto, Liguria e Piemonte – hanno presentato richieste di maggior autonomia in queste materie.

Non c’è traccia però dei documenti relativi né sui siti istituzionali delle regioni né tantomeno sul sito del ministero per gli Affari regionali e le autonomie. Solo nel caso del Veneto, e solo perché il presidente ha dovuto riferirne al suo Consiglio regionale il 15 ottobre, qualche riferimento più preciso a un documento con le richieste della regione è stato fatto.

Si viene così a sapere che, per esempio, il Veneto ha chiesto funzioni su tutte le materie non Lep, la Lombardia su otto, Liguria e Piemonte su sei. Continuiamo però a non sapere con esattezza quali funzioni all’interno di quali materie sono state richieste da quali regioni.

In attesa fiduciosa che, per una banale ragione di trasparenza democratica, le regioni o il ministro si decidano a pubblicare i documenti relativi, quello che si sa sul processo di devoluzione in corso è comunque sufficiente a sollecitare qualche riflessione su un aspetto finora poco discusso, ma cruciale nel dibattito sull’autonomia differenziata. Si tratta del rapporto tra materie Lep e non Lep e dall’assoluta indipendenza tra i due gruppi di materie ipotizzata nella legge 86/2024. Proviamo a spiegare perché si tratta di un punto importante.

Lep e non-Lep

L’intera architettura della legge 86/2024 si regge sulla suddivisione delle 23 materie enumerate nel comma 3 dell’articolo 117 della Costituzione (e che coprono quasi tutto lo spettro dell’intervento pubblico) in materie Lep e materie non-Lep. Su queste ultime, con l’entrata in vigore della legge, le regioni possono chiedere subito maggiore autonomia (come hanno fatto appunto le quattro regioni). Sulle altre, invece, la richiesta non può essere avanzata finché i Lep relativi non siano stati definiti e quantificati in termini finanziari.

Dietro la dicotomia c’è l’idea che i Lep devono proteggere i diritti essenziali dei cittadini. Le regioni non possono richiedere funzioni nelle materie Lep finché non si sa quali siano i livelli essenziali delle prestazioni e come debbano essere finanziati, perché altrimenti la devoluzione potrebbe minare l’eguaglianza che deve essere garantita in tutti i territori in tema di diritti civili e sociali. Un rischio che il legislatore ha escluso a priori per le materie non-Lep.

La classificazione tra materie Lep e non-Lep è stata svolta da un Comitato per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Clep), presieduto da Sabino Cassese.

La logica adottata dal Clep per distinguere i due gruppi si fonda sull’idea che vi siano materie per le quali vi è un legame diretto con la tutela di un diritto civile e sociale e quelle per le quali il legame non è immediato. Ipotizzando che la classificazione conseguente sia stata correttamente effettuata, è chiaro che la distinzione regge sul piano concettuale solo se si può introdurre una cesura netta tra i due gruppi di materie, per cui assegnare una funzione a una regione in una materia non-Lep non influenza il godimento dei diritti sociali dei cittadini in una materia Lep.

Altrimenti, la distinzione è spuria e prima di devolvere a una regione una funzione in una materia non-Lep si dovrebbe tener conto dei possibili effetti che la devoluzione ha sulle materie Lep. Come stanno allora le cose? Un paio di esempi aiutano a chiarire la questione.

Due esempi

Una cosa che sappiamo con sicurezza (perché lo ha annunciato lo stesso ministro Roberto Calderoli è che Veneto, Lombardia, Liguria e Piemonte hanno richiesto la materia “protezione civile”, cioè personale, funzioni, materiali, risorse ma anche autonomia nella regolamentazione e negli standard di servizio. Tuttavia, la protezione civile può essere funzionale a garantire materie Lep e se la devoluzione interferisce con questo processo si crea potenzialmente un problema molto serio.

Ad esempio, durante la pandemia da Covid-19, la protezione civile ha svolto un ruolo fondamentale nell’organizzazione dei servizi in funzione anti-pandemica, con in cima alla catena di comando lo stesso presidente del Consiglio dei ministri. Sarebbe stato possibile ottenere lo stesso servizio da un insieme di protezioni civili regionali, ciascuna delle quali risponde a un diverso organo politico, quale la regione? Sarà possibile farlo in futuro, con una nuova (possibile) pandemia?

Il punto importante da sottolineare qui è che, anche se si accetta che la protezione civile sia una materia non-Lep, dunque devolvibile alle regioni, la sua regionalizzazione potrebbe influenzare la capacità di offrire in modo uniforme sul territorio nazionale i servizi relativi alla “tutela della salute”, una materia invece chiaramente Lep. Allo stesso modo, potrebbe influire sulla tutela del territorio, anch’essa una materia Lep.

Leggi anche:  Quali sono i pericoli dell’autonomia differenziata

Più in generale, se la struttura organizzativa e di incentivi della protezione civile differisce da una regione all’altra, senza che siano introdotti e rispettati standard nazionali, nel caso di una emergenza, alcune regioni potrebbero non essere in grado di garantire l’organizzazione dei soccorsi, con ovvi effetti anche sul piano sanitario o di altre materie coperte dai Lep.

Che non si tratti solo di fisime teoriche, lo dimostra l’alluvione nell’area di Valencia, dove la protezione civile è regionalizzata, e dove si sono verificati ritardi nell’organizzazione dei soccorsi e rimpalli di responsabilità tra il governo centrale e quello regionale.

Il secondo esempio fa riferimento alla materia“Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, definita non-Lep dal Comitato Cassese. Pare certo che in questa materia almeno una regione si prepari a chiedere autonomia legislativa e amministrativa sul tributo speciale in materia di rifiuti, con la facoltà di definire i soggetti passivi, l’importo del tributo, le eventuali detrazioni o deduzioni e così via.

Il diavolo sta nei dettagli ma, di nuovo, pare evidente che decisioni autonome di una regione in questo contesto potrebbero essere in contrasto con la legislazione nazionale o europea sulla materia “Valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, cioè la protezione dell’ambiente, che è invece secondo il Clep una materia Lep.

La decisione sugli importi da pagare nel caso in cui si utilizzino discariche o impianti di incenerimento obsoleti, ovviamente, influenza il livello di inquinamento del territorio, su cui il Clep ha invece richiesto che ci siano standard, uniformi a livello nazionale, da rispettare.

I due esempi (se ne potrebbero fare anche molti altri) suggeriscono che la distinzione tra materie Lep e non-Lep, su cui si regge tutto il percorso di devoluzione immaginato dalla legge 86/2024, sia nei fatti molto fragile e non regga alla prova dei fatti. Esistono ovvie complementarità tra materie definite Lep e non-Lep.

Ma se le materie non-Lep influenzano il rispetto dei Lep in altri campi, come si può separare l’attribuzione delle prime dalle seconde? Il rischio del pasticcio istituzionale, del rimpallo di responsabilità e della montagna dei ricorsi alla Corte costituzionale è dietro l’angolo.

Forse conviene ripensarci, finché si è in tempo.

Tre brani di Leon Wieseltier da conservare su Musk, l’America e l’occidente (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

Dalla conversazione con Paola Peduzzi, il giudizio sul miliardario: “Elon Musk è forse l’uomo più spregevole della terra, è il primo supercattivo della vita reale”. Sull’occidente, è la “nostra way of life a essere sotto attacco”

Della lunga conversazione di Paola Peduzzi con il prescritto Leon Wieseltier, vorrei preservare, a futura memoria, tre brani. Il primo su Elon Musk, che ormai mi sembra il più smagliante esemplare dell’Uomo nuovo. Le multinazionali avevano surclassato gli Stati, Musk ha surclassato le multinazionali.

Donald Trump è il suo proxy-man alla Casa Bianca. (Mi scuso, vedo sul dizionario Oxford che, a parte l’app windows, Proxy-man ha una sola ricorrenza letteraria, nel 1696: ma mi piace). In un solo dettaglio dissento dal ritratto che Wieseltier fa di Musk: dice che non è affatto idiota. Forse non lo è, ma certo lo è. Ecco dunque:

“Elon Musk è forse l’uomo più spregevole della terra, è il primo supercattivo della vita reale. E’ un uomo senza inibizioni e con una quantità esorbitante di potere, rappresenta il vero pericolo di una concentrazione estrema di denaro in un unico individuo, e dico ‘concentrazione estrema’ perché non ho nulla contro le persone ricche, ma Elon Musk pensa, e lo dice lui stesso, che le regole politiche, le regole etiche, le lezioni della storia per lui non valgono. Il danno che farà alla società americana eccede di molto i benefici dei suoi dannati razzi nello spazio. Musk è davvero un villain, un supercattivo, che non ha precedenti: è un nuovo fenomeno nella storia del male”.

Il secondo brano che trascrivo è questo: “L’occidente non capisce che non potrà godersi l’ordine liberale – e con godersi non intendo un cappuccino in un bar in una bella piazza, ma i suoi benefici e i suoi diritti – senza la volontà di mettere il proprio potere a protezione del proprio modo di vivere, perché è questa nostra way of life a essere sotto attacco”.

In questo caso, più che concordare con l’assunto, con cui pure concordo, ne estraggo, senza limitazioni, la definizione della vita universale per la quale vale la pena di dare la vita: un cappuccino in un bar in una bella piazza.

Il terzo e ultimo brano: “Gli americani votano nell’ignoranza, come se il voto fosse l’espressione di un’emozione e non di un ragionamento informato, come se il diritto di voto fosse l’unica cosa che conta nel voto”. Il voto è, nello sgretolamento dell’idea e delle pratiche della democrazia (fino al cuore, il cappuccino e la piazza) l’ultimo filo cui appigliarsi, mentre manipolazioni e brogli ne svuotano il senso, e perfino l’astensione rinuncia a motivarsi.

Il diritto di voto che diventa l’unica cosa che conta nel voto, dunque nella rinuncia a votare senza nemmeno porsi più il problema.