Antisemitismo, magistratura, migranti, vaccini e guerre: giornalismo divorato dalla logica del nemico (unita.it)

di Massimo Donini

Il lessico giornalistico

La stampa filogovernativa deve saper governare le strumentalizzazioni e i conflitti ingaggiati anche da rappresentanti delle istituzioni, che dovrebbero invece essere il luogo della mediazione.

C’è una grande responsabilità dell’informazione nella tutela di diritti fondamentali

Sono diversi i contesti della democrazia populista, di quella maggioritaria e della democrazia costituzionale. Tutti e tre coinvolti dal tema che affrontiamo. Il termine democrazia populista è qui utilizzato in senso neutro, secondo la scienza della politica, non in quello negativo che utilizziamo parlando invece del populismo penale o di quello giudiziario come religione di massa. Sono due profili collegati ma distinti (cfr. sul primo Donini, Populismo e ragione pubblica, Mucchi, 2019; sul secondo Id., Populismo penale e ruolo del giurista, Sistema penale 7.9.2020).

Infatti, il contesto del giornalismo in generale, anche di sinistra, è obiettivamente quello della democrazia populista in una accezione che vede l’estensione dei temi della Costituzione, della tecnica del diritto e dei diritti, nello spazio pubblico di destinatari potenzialmente molto allargati, preparando un discorso evocabile anche in un eventuale talk show.

È populista il discorso sui diritti non solo (negativamente) se si appella alla maggioranza o alla sua rappresentatività nella figura del leader, impiegando argomenti per una massa di ascoltatori-lettori plaudenti a brevi inputs assertivi fondati su emotività ed effetti speciali, abbacinati mediante una sacralizzazione maggioritaria del potere; ma è populista anche (più positivamente) il messaggio che ha come interlocutrice quella stessa platea, alla quale vengono invece esibiti altri argomenti di contrasto che veicolano i valori dei diritti costituzionali e sovralegislativi: creando così lo spazio dialettico per un populismo non meramente maggioritario all’interno di quest’ultimo.

Il che è oggi reso più comprensibile a tutti per il fatto che la maggioranza politico-elettorale è numericamente una minoranza, e non può certo vantare basi sacrali di legittimazione.

Ciò premesso, il giornalismo costituisce in modo direi naturale il background, la base culturale e lessicale di tutti e tre quei livelli, se si vuole che anche la democrazia costituzionale raggiunga l’estensione di quella maggioritaria e di quella populista nello spazio pubblico.

Per il resto, mi limito a definire maggioritaria la democrazia basata sul consenso, più che sui vincoli giusrazionali e normativi imposti al Parlamento da fonti sovralegislative; costituzionale la democrazia che si richiama ai vincoli alla stessa legislazione, a ciò che è sottratto a decisioni puramente maggioritarie e trova deposito nei testi costituzionali ed equiparati, pertanto anche dell’Unione europea e di fonti sovranazionali; mentre è populista la democrazia che muove dalla crisi di rappresentatività delle democrazie nel mondo e si appella direttamente al consenso non solo elettorale, ma anche esterno alle competizioni politiche formali, per orientare l’opinione pubblica attraverso strumenti e veicoli di comunicazione estranei alle discipline scientifiche o accademiche, o lessicalmente da quelle divergenti, ma capaci di catturare attenzione e partecipazione di soggetti che sono o potranno diventare elettori o anche soltanto sostenitori di una parte politica. La parte metodologica di questa riflessione finisce qui. Affrontiamo ora quella dei contenuti.

Il primo punto riguarda il senso della politica come luogo del bene pubblico, della ricerca di un bene comune, non della perenne lotta tra amici e nemici. La logica amico-nemico come “essenza” della politica, notoriamente descritta in un famoso scritto di Carl Schmitt, può affascinare sul piano descrittivo, ma non deve diventare una pratica deontologica dell’azione.

Anche la sua quotidiana emersione nei discorsi e nel vissuto della leader di Governo appare spesso una pratica subìta e sofferta, ma non certo espressione di una visione cristiana (v. Tommaso D’Aquino, J. Maritain e il bene comune, esteso alle moltitudini, e non solo ai cives), e neppure istituzionale (v. il costituzionalismo moderno) della politica, che è terreno di protezione dei diritti universali e non solo di cittadinanza.

L’esaltazione, oggi sempre ricorrente, del sistema maggioritario come luogo della perenne contrapposizione tra poli, se diventasse l’adesione a una filosofia à la Schmitt, dovrebbe essere solo per questo rifiutata. Non può connotare un governo, che è organo anche co-legislativo che coopera con il Parlamento in questa funzione istituzionale.

Anche una concezione marxista o gramsciana della politica, anche la lotta di classe, o la lotta tout court, depurata di declinazioni penalmente rilevanti, non può costituire oggi la base deontologica di un’azione governativa: le istituzioni sono sempre di mediazione, non di lotta, essendo sottoposte a bilanciamenti giurisdizionali. La lotta appartiene alle parti sociali e dunque anche ai partiti, non alle istituzioni che i partiti non occupano (o non dovrebbero occupare). E tale è il diritto costituzionale, una istituzione gestita da organi giurisdizionali, che si impone a tutti solo a queste condizioni.

Ciò premesso, deve appartenere al lessico comune del giornalismo l’idea che la Costituzione non può diventare terreno di scontro (o di progetto di riforma) meramente maggioritario: la maggioranza politica – oggi tutte le maggioranze sono diventate numericamente minoranze, come detto, depotenziando radicalmente l’idea vetero-populista di incarnare il popolo o qualche vox dei – interpreta giustamente un mandato, ma si esprime in istituzioni quali luogo della mediazione e del dialogo tra le parti, non rappresentando unilateralmente una sola parte di quelle in conflitto.

Questa cultura deve diventare patrimonio anche della destra, ma prima ancora del giornalismo che non ne sia per vocazione il controcanto, perché è identitario della sua corretta collocazione istituzionale e del suo contributo costruttivo alla costruzione del dialogo.

La questione dello scontro tra politica (sempre il Governo, in questo momento) e magistratura è un corollario di quanto appena detto. Non si è mai visto che ministri o capi del governo iniziassero un conflitto generalizzato contro singoli atti giurisdizionali che non fanno altro che ripetere la standard view di centinaia di provvedimenti analoghi sul possibile contrasto tra un atto legislativo e il diritto dell’Ue, chiedendo una decisione della Cgue attraverso un rinvio pregiudiziale ex art. 267 Tfue e che lo facessero attraverso una personalizzazione polemica contro singoli magistrati.

Hai visto mai? È la regola, è normale quel ricorso, non è né di sinistra né di destra. E non diventa di sinistra perché nella situazione concreta l’istituzione governativa ha prodotto la legge a sostegno di una sua politica. È sempre così quando si chiede una sentenza alla Corte di giustizia: la personalizzazione delle leggi appartiene alla logica amico-nemico e la sua appropriazione da parte di alcuni partiti schierati (o eventualmente di qualche componente della magistratura) contro gli altri rispecchia una patologia di sistema. Il giornalismo deve sapere governare queste strumentalizzazioni, offrendo una diversa cultura delle istituzioni. Lo chiediamo ai giornalisti filogovernativi. È una mission del giornalismo.

Quanto è successo nella vicenda dell’abrogazione del falso in bilancio (orientata contro i processi, più che contro gli illeciti) e ora nelle reazioni innescate dalla questione Albania, può essere descritto correttamente solo distinguendo tra una democrazia costituzionale e maggioritaria e una democrazia populista.

Anche un quotidiano come il Corriere della sera comincia a percepire che l’azione di governo contro la magistratura “comunista”, ora che quell’azione trova l’opposizione critica anche dell’avvocatura, appare divenuta una strategia e non una risposta comprensibile a una patologia dei giudici (M. Franco“Se lo scontro sulla giustizia diventa una strategia”, 5.11.24, p. 21).

Lo stesso vale per l’interminabile querelle sulla separazione delle carriere, che non deve costruire una immagine della magistratura come nemico delle istituzioni. I giornali vendono polemiche perché non fanno cultura. Tutti esperti di tutto, la democrazia penale ha divorato le competenze, in nome di una gestione populistica del consenso, che non è amico di quella verità che il giornalismo deve difendere.

Al lessico condiviso, invece, deve appartenere la distinzione tra le conseguenze politiche di un provvedimento, e la base normativa che lo sostiene legittimamente. Il sindacato politico delle decisioni arroventa il clima in modo strumentale, facendo della magistratura il possibile terreno di simonie politiche: uno dei peccati più gravi è quello di vendere la Giustizia a un prezzario stabilito fuori di essa e capace di desacralizzare tutto il suo contesto.

È vero che in una visione laica la giustizia può essere, fin dalla base costitutiva dello Stato, dal patto sociale, contrattualizzata. Ma quando la Giustizia è solo ormai merce di scambio delle logiche bellicose dei partiti armati l’un contro l’altro, anche la designazione di giudici costituzionali può diventare commercio e la lettura delle loro decisioni ossequio ai loro mandanti.

Sarebbe la fine del diritto costituzionale e di quel poco o tanto di sacrale che la Carta fondamentale, anche la lex e soprattutto il ius, deve e può conservare solo in un quadro super partes. Il giornalismo ha il dovere di preservare questi fondamentali.

Il retroterra culturale diffuso, invece, che ha cominciato a vacillare con il Covid e l’intolleranza per ogni riserva critica su vaccini, gestione delle informazioni e limitazioni dei diritti fondamentali, è esploso in una chiamata collettiva al consenso e all’intolleranza con le guerre nelle quali siamo coinvolti direttamente.

La logica del nemico ha prevalso su tutto. Abbandonando quella dei diritti fondamentali. Qui ci avviciniamo al nocciolo di tutto il discorso. Sono grandi le responsabilità del giornalismo. Bellicisti e realisti vs. pacifisti e idealisti, è una battaglia persa per i secondi. Ma c’è un tema che supera ogni contrapposizione, che avvince ogni azione politica, partitica e statale.

La tutela dei diritti fondamentali, base del costituzionalismo e del diritto dell’Occidente, è un vincolo per la politica internazionale. Ci deve essere passione nel suo sostegno, non tiepidezza.

Alcuni di noi hanno rievocato Kant e il saggio Per la pace perpetua quale momento topico dell’idea di una giurisdizione universale, oggi base della Corte dell’Aia. Non è una panpenalizzazione della politica. È una prevenzione generale contro la logica dello sterminio e non solo del genocidio, reato difficile sempre preso a pretesto per buttare tutto alle ortiche, quando ce ne sono moltissimi altri di crimini contro l’umanità. Al lessico comune deve appartenere il rispetto e la passione per la protezione delle moltitudini, e non solo delle cittadinanze quale limite al diritto di guerra attraverso il diritto umanitario.

E infine, but not least, una questione millenaria relativa alle prassi politiche israeliane (una storia di stermini, dal tempo degli Assiri in poi). Da quando, negli anni ’70 del Novecento, si è diffusa l’idea che dire antisraeliano doveva significare antisemita, i linguaggi e le menti si sono confusi.

È divenuto un verbo occidentale, ma dopo il 7 ottobre 2023 e la guerra illimitata di Netanyahu non è più possibile mantenere quel precetto dell’intolleranza. Deve ritornare nel lessico condiviso l’idea che non si è antisemiti se si critica e rifiuta una politica israeliana lesiva dei diritti fondamentali. Fatto oggi riconosciuto da tutti nel mondo.

Da queste poche premesse può iniziare la leggibilità dei giornali, un’impresa per molti di noi quasi impossibile da tre anni: perché è l’ABC, dal quale possiamo partire per dividerci a destra e a sinistra, quando è davvero necessario coltivare il conflitto per raggiungere il bene comune e non una vittoria elettorale.

Festival della Fotografia Etica, parla il direttore Prina (laragione.eu)

di Claudia Burgio

L’arte fotografica come arma del cambiamento. 
Le mostre a Lodi fino al 27 ottobre. 

Per il direttore Prina: “Una fotografia necessaria”

La parola guerra è tornata sulle nostre bocche e per questo “la fotografia è necessaria”, come ama definirla  Alberto Prina, direttore del Festival della Fotografia Etica che si terrà a Lodi tutti i week end fino al 27 ottobre. Una forma d’arte che (da sempre e per fortuna) obbliga a prendere contatto con la realtà e a non chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie. 843 i fotografi dei cinque continenti che hanno inviato oltre un migliaio di progetti. Sette i fotografi che si sono aggiudicati la vittoria, o la menzione speciale, nelle categorie che costituiscono il Premio.

“Gli scatti sono sempre un bilancio tra la componente estetica e quella etica, quest’ultima nelle nostre fotografie ha un peso molto importante – ci spiega Alberto Prina. – C’è bisogno di dare attenzione ai valori reali e concreti e di ragionare su di essi. L’elemento fondamentale di questi lavori è che rispecchiano la realtà che viviamo”.

Alcuni dei valori a cui Prina fa riferimento, trattati in questa edizione del Festival – giunto al suo quindicesimo anno – sono: la solidarietà, con il progetto di PizzAut del fotografo Leonello Bertolucci, che racconta la pizzeria rivoluzionaria fondata sull’inclusione, dove pizzaioli e camerieri sono giovani con autismo; il valore della pace, trattato dalla sezione “Uno Sguardo sul Mondo” – visitabile al Palazzo della Provincia – con la mostra “The War in Gaza Through the Eyes of its Photojournalists”, promossa dall’ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA); e ancora, il valore di un buon governo, investigato dagli scatti di Giles Clarke con il reportage “Haiti in Turmoil”, in cui viene raccontata la drammatica guerra civile che imperversa il Paese dal 2021.

“Noi crediamo che la fotografia sia lo strumento più potente su cui ispirarci – continua Prina. – Potente perché le fotografie creano emozioni. Senza emozioni non vi è coinvolgimento e senza coinvolgimento non vi è cambiamento”.

Per Prina si tratta di una “necessità”: di ragionare, di confrontarsi, di dialogare di fronte a delle foto che ci rimandano lo specchio della realtà che ci circonda.

Per il direttore, il Festival della Fotografia Etica è paragonabile ad una nave, dove il vento favorevole è la fotografia, ovvero i lavori dei fotoreporter: “Noi dobbiamo dire un immenso grazie a questi fotografi, perché sono loro con i loro lavoro sul campo a fare la vera fatica, con perseveranza e costanza”.

L’edizione del Festival quest’anno sarà arricchita da due importanti progetti: un podcast in collaborazione con Chora Media, che accompagnerà tutti e cinque i week end inaugurali dell’evento e poi la mostra ospitata nella Chiesa dell’Angelo per festeggiare i 15 anni del Festival, dove verranno esposte le 15 copertine che ne hanno fatto la storia. Inoltre, sarà possibile visitare l’unica tappa lombarda della mostra itinerante “World Press Photo”, il grande concorso internazionale di fotogiornalismo e fotografia documentaria più famoso al mondo che si svolge da quasi 70 anni, indetto dalla World Press Photo Foundation di Amsterdam.

Oltre 150 immagini, provenienti dai cinque continenti, che narrano storie straordinarie, attraverso i lavori realizzati per alcune delle più importanti testate internazionali come National Geographic, BBC, CNN, The New York Times, Le Monde, ed El Pais. Un’occasione preziosa per riflettere, accompagnati anche da visite guidate, incontri e dibattiti. Per non chiudere più gli occhi davanti a quello che ci circonda.