Riace, cittadinanza onoraria postuma ad Habashy Rashed Hassan Arafa. Lucano: «Un eroe tradito dalla disumanità politica» (ildubbio.news)

In Calabria

Il sindaco ricorda la tragedia del giovane egiziano, simbolo delle difficoltà legate all’accoglienza e ai diritti umani in Italia

Un nome, una storia e una tragedia che diventa simbolo.

Il Consiglio comunale di Riace ha conferito la cittadinanza onoraria ad Habashy Rashed Hassan Arafa, morto il 21 marzo scorso, pochi giorni dopo la sua scarcerazione per gravi motivi di salute.

A comunicarlo è stato il sindaco Mimmo Lucano, che in un lungo post ha ripercorso la vicenda del giovane egiziano, condannato come scafista, detenuto per oltre quattro anni nel carcere di Arghillà, e morto con un tumore al pancreas in fase terminale.

Una storia che Lucano non esita a definire emblematica della deriva dell’accoglienza e dei diritti umani in Italia: «Habashy era arrivato in Calabria in cerca di speranza. Invece ha trovato due guardie bigotte. È stato accusato di essere lo scafista, arrestato preventivamente e dimenticato in carcere, dove si è ammalato fino a morire. Solo quando il suo corpo non ha più retto, lo Stato ha deciso di scarcerarlo. Per farlo morire fuori dalle sue mura».

Il conferimento della cittadinanza onoraria è avvenuto alla presenza di Luca Casarini e di padre Mattia Ferrari, figure da anni impegnate nel soccorso ai migranti nel Mediterraneo. «È un atto di riconoscimento, ma anche di accusa verso chi ha spento la sua passione per la vita con spregevole indifferenza», ha aggiunto Lucano. «Habashy ha vissuto i suoi ultimi giorni a Riace, accolto nel Villaggio Globale. La sua porta era sempre aperta, i bambini entravano e uscivano giocando, ricordandoci che anche lui è stato, fino alla fine, un essere umano».

Chi era Habashy

Il 19 ottobre 2021 Habashy sbarca a Roccella Jonica su un’imbarcazione carica di migranti. Viene arrestato con l’accusa di essere uno degli scafisti. Condannato in via definitiva, ha scontato la pena nel carcere di Arghillà, a Reggio Calabria. Solo nel gennaio 2025, a poche settimane dal fine pena, gli viene diagnosticato un tumore al pancreas al quarto stadio. A febbraio la magistratura certifica la sua incompatibilità con la detenzione e ne dispone la scarcerazione.

Lucano lo accoglie a Riace, dove trascorre i suoi ultimi giorni, circondato dall’affetto della comunità. Muore il 21 marzo, meno di un mese dopo essere uscito di prigione.

Una riflessione amara

La vicenda di Habashy solleva ancora una volta interrogativi profondi sulla gestione del fenomeno migratorio in Italia, sulla detenzione dei presunti scafisti e sull’applicazione dell’articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione, inasprito dal decreto “Cutro”.

«Davvero possiamo credere che chi arriva accovacciato in una carretta del mare sia il responsabile dell’organizzazione del viaggio?», si chiede Lucano. «Quanti migranti sono stati condannati senza nemmeno poter essere ascoltati nella loro lingua, senza possibilità di appello?».

Con la cittadinanza onoraria postuma, Riace non dimentica Habashy. E al tempo stesso rivendica una visione diversa, fondata sull’accoglienza, la dignità e il rispetto dei diritti umani.

Trump e le ombre cinesi (corriere.it)

di Federico Fubini

Non solo tariffe

Da quando Donald Trump è tornato alla presidenza, anche il sito della Casa Bianca si è trasfigurato.

Non presenta più il lavoro di un’istituzione, officia il culto di una persona. La pagina web si apre su una foto gigantesca di Trump e un annuncio a lettere cubitali: «America is back», l’America è tornata. Sotto, una sola promessa: «Ogni singolo giorno lotterò per voi con tutto il fiato che ho in corpo. Non riposerò finché non vi avrò dato l’America forte, sicura e prospera che meritate. Questa sarà veramente l’età dell’oro» per la nazione.

L’ idea di fondo è che il presidente costruirà una «Fortezza America» basata su un’«economia della produzione», indipendente nella manifattura di tutto ciò che è indispensabile. È la visione di un’autarchia americana. Per realizzarla, in poco più di due mesi la Casa Bianca ha deciso o minacciato dazi sul commercio di beni per oltre 1.900 miliardi di dollari: due terzi delle importazioni materiali degli Stati Uniti, che sono di gran lunga il più vasto mercato al mondo.

Se non è un cigno nero, è uno choc paragonabile all’aggressione all’Ucraina del 2022. Ora si aspetta il «Giorno della Liberazione» (mercoledì prossimo), in cui dovrebbero essere precisati i contorni di un’altra ondata di dazi «reciproci» contro l’Unione europea e vari altri Paesi; quindi, dopo acciaio e alluminio, si studiano barriere su rame, legname, farmaceutica e persino una tassa all’attracco delle navi fabbricate in Cina.

È tutto così novecentesco: materiali e manufatti che costituiscono l’infrastruttura di un’economia industriale e di una società tradizionale. Trump resta imprevedibile e ondivago, ma il suo obiettivo di fondo sembra essere un taglio netto alle catene fisiche del valore che tengono l’America legata al resto del mondo.

Le vuole rimpatriare in nome di un’economia simile a quelle di un tempo, quando ogni prodotto si faceva dall’inizio alla fine in un unico Paese. Così ad esempio il presidente tassa le componenti auto (un import da quasi 90 miliardi di dollari l’anno) e non solo il bene finito, in modo da spingere General Motors, Ford e Stellantis a rimpatriare filiere oggi estese in Messico, Canada o altrove.

All’annuncio, le case auto di Detroit sono cadute in Borsa; del resto tutta Wall Street da settimane dà segni di malessere, così come ne danno il dollaro stesso o le famiglie americane che temono l’inflazione innescata dai dazi. Ma il presidente, in apparenza, non se ne cura. O se ne cura solo a volte e solo in parte. Per lo più dimostra (per ora) un’indifferenza ai segnali di stress dell’economia e dei mercati che è nuova, rispetto al suo primo mandato.

Perché lo fa? Ufficialmente vuole ridare dignità e buoni posti di lavoro all’«uomo dimenticato», l’americano medio umiliato dalle delocalizzazioni verso la Cina. Lo stesso JD Vance, il vicepresidente, è notoriamente figlio di una comunità devastata dalla crisi industriale.

Un’occhiata più attenta suggerisce però che questa spiegazione non basti. Già oggi l’America è vicina alla piena occupazione, eppure l’industria assorbe appena l’8% della manodopera attiva anche se il numero degli addetti manifatturieri è salito negli ultimi 15 anni dopo i crolli precedenti. In sostanza un’America autarchica non avrebbe abbastanza persone per le sue fabbriche, specie ora che gli stranieri sono deportati e scoraggiati in ogni modo.

Dietro le azioni di Trump sembra esserci piuttosto l’ossessione cinese sua e delle élite americane di questi anni. Oggi la Cina produce il 20% degli ingredienti farmaceutici, più di metà dei mercantili, delle tecnologie verdi o del ferro del mondo. Nelle auto la sua capacità è superiore alla domanda globale, fa il 95% dei container, ha il 77% del cobalto e nel complesso assicura un terzo della produzione industriale del pianeta.

L’America trumpiana ha tutta l’aria di volersi preparare alla sfida strategica del prossimo decennio con la potenza emergente. E vuole farsi trovare all’appuntamento forte di un’autonomia che la liberi dalle dipendenze e le permetta di basarsi sulle sue forze sole fisiche: acciaio, rame, navi, farmaci, auto.

Ma ha senso? Lo si potesse chiedere a Vladimir Putin, nella sua intelligenza criminale il dittatore direbbe che per lui la rottura fra Washington e Bruxelles vale più della conquista dell’Ucraina. Perché indebolisce l’America, non solo l’Europa. Poi ci sono quei 5.000 miliardi di dollari di titoli del Tesoro americano, fra nuovo deficit e rinnovo del vecchio debito, che l’amministrazione deve piazzare ogni anno agli investitori di tutto il mondo per evitare tensioni.

Trump vuole tagliare i ponti con il resto del mondo, ma gli Stati Uniti da esso dipendono finanziariamente, mentre il loro potere di persuasione dipende anche dal legame con l’Europa sul piano dei valori. Così il presidente fa esplodere le contraddizioni americane, invece di liberarsene in un giorno solo.

Quanto si diverte J.D. Vance in Groenlandia? (spiegel.de)

di Philipp Wittrock

Esteri

Oggi parliamo della fase calda dei negoziati della coalizione nero-rossa, del viaggio del vicepresidente degli Stati Uniti in Groenlandia e della guerra culturale di Donald Trump contro le università liberali.

Negoziati da un miliardo di euro tra i neri e i rossi
La qualità prima della velocità: con questo requisito, Friedrich Merz vuole alleggerire un po’ la pressione. In realtà, il futuro cancelliere voleva che il suo nuovo governo si insediasse entro Pasqua, cioè in tre settimane buone.
Ma non è più così preciso con il programma. Probabilmente è meglio così.
Negoziatori Friedrich Merz, Lars Klingbeil, Markus Söder, Saskia Esken(Negoziatori Friedrich Merz, Lars Klingbeil, Markus Söder, Saskia Esken Foto: Ralf Hirschberger / AFP)
Perché i negoziatori nero-rossi hanno ancora una strada rocciosa davanti a loro. Da oggi il gruppo dirigente, composto da 19 membri, intende riunire i risultati dei singoli gruppi di lavoro specialistici e chiarire i principali punti controversi che rimangono. Ce ne sono parecchi: l’immigrazione, le tasse, le pensioni, l’energia.
  • Leggete qui ciò su cui l’Unione e la SPD hanno già concordato.

E poi c’è soprattutto la domanda: chi dovrebbe pagare per questo? L’allentamento del freno all’indebitamento e il fondo speciale offrono un po’ di respiro. Ma le liste dei desideri dei gruppi di lavoro sono così lunghe che farebbero saltare in aria il tesoro dello Stato se tutto fosse attuato.

Dai pasti gratuiti all’asilo nido all’edilizia sociale fino agli sgravi fiscali: secondo le informazioni dello Spiegel, le proposte dei politici specializzati per i prossimi quattro anni ammontano a circa 500 miliardi di euro. E questo nonostante il Ministero delle Finanze abbia già individuato un gap di oltre 100 miliardi per la nuova legislatura.600 miliardi di euro non possono essere raccolti così. Merz, Klingbeil e Co. dovranno stabilire delle priorità e annullare molti desideri.

Goffa provocazioneA quanto pare J.D. Vance si è trovato piuttosto divertente quando ha annunciato in un video questa settimana che avrebbe accompagnato sua moglie Usha nel suo viaggio in Groenlandia oggi. C’era così tanta eccitazione per il viaggio di sua moglie che non avrebbe dovuto “divertirsi da sola”.Haha, una provocazione così goffa è davvero divertente, vero?

Consolato degli Stati Uniti a Nuuk(Consolato degli Stati Uniti a Nuuk Foto: Juliette Pavy / AFP)

È solo un peccato che l’intero viaggio sia ora piuttosto imbarazzante per i Vances. A quanto pare, i pianificatori di viaggio del governo americano non hanno trovato nessun groenlandese che voglia offrirsi per una messa in scena con gli ospiti non invitati. Il capo di Vance, Donald Trump, che è disperato per annettere il territorio danese semi-autonomo, avrebbe certamente voluto vantarsi: Guardate, ci amano!Ma non c’era amore, solo avversione.
E le immagini delle proteste anti-americane sono state preferite da evitare a Washington. Quindi: nessuna visita alla gente del posto, nessuna visita a siti storici, nessuna gara di slitte trainate da cani, come era stato pianificato. Invece, questo venerdì andranno solo dai soldati statunitensi nell’isolata base spaziale di Pituffik, nella parte occidentale dell’isola gigante.Intanto, a 1500 chilometri di distanza, nella capitale Nuuk, si formerà il nuovo governo della Groenlandia.
Quattro partiti su cinque in parlamento, secondo i media locali, vogliono unire le forze in una coalizione. Uno dei loro obiettivi: resistere insieme alla pressione degli Stati Uniti.

Studenti in preda alla paura

Dopo tutto quello che è già successo, gli studenti stranieri negli Stati Uniti dovrebbero prendere sul serio l’avvertimento di Marco Rubio. Chiunque si trovi in America con un visto per studenti e causi disordini avrà il visto revocato, ha dichiarato il Segretario di Stato di Donald Trump. 300 visti sono già stati confiscati, forse di più. “Ogni volta che trovo uno di questi pazzi, gli tolgo il visto”.

Protesta contro l'arresto di una dottoranda turca(Protesta contro l’arresto di una dottoranda turca Foto: Taylor Coester / EPA)

Per l’amministrazione Trump, pazzi e piantagrane sono attualmente tutti coloro che considera attivisti filo-palestinesi. Questa settimana, funzionari del Dipartimento della Sicurezza Interna in abiti civili scuri hanno circondato per strada una studentessa turca laureata alla Tufts University, vicino a Boston, e l’hanno arrestata per presunta propaganda per Hamas.
Di questo accusato è anche Mahmoud Khalil della Columbia University, che si trova in carcere nonostante la carta verde. Un indiano è stato arrestato alla Georgetown University, dove si dice anche che abbia diffuso l’odio islamista contro gli ebrei.
Per quanto è noto, non sono ancora stati accusati di reati penali.La campagna fa parte della guerra culturale di Trump contro i centri di conoscenza liberali che odia. Non solo gli studenti sono intimiditi, ma anche le università stesse sono messe sotto pressione. Coloro che non sono in fila devono aspettarsi di perdere milioni di sussidi.
  • Leggi qui  come Trump sta prendendo di mira le università d’élite

La cosa brutta è che il calcolo di Trump ha funzionato finora. I funzionari delle università d’élite rimangono in silenzio, facendo concessioni perché minacciati di “misure coercitive” se “non adempiono ai loro obblighi di proteggere gli studenti ebrei nei campus”. Infatti, scrive il mio collega Claus Hecking, che scrive da Boston per lo Spiegel, Trump e i suoi non si preoccupano dell’antisemitismo, ma di qualcosa di più fondamentale: “Vogliono il controllo ideologico sul settore dell’istruzione”.

Per impedire al presidente di avere successo, qualcosa deve accadere urgentemente. Le università devono ribellarsi, insieme, dice Claus: “Solo se si alleano e offrono una resistenza collettiva hanno una possibilità”.