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Memorie dei dannati della terra (carmillaonline.com)

di Alexik

“Là, dov’era più umido
fecero un fosso enorme
e nella roccia scavarono
nicchie e le sbarrarono
alzarono poi garitte e torrioni
e ci misero dei soldati, a guardia
ci fecero indossare la casacca
e ci chiamarono delinquenti
infine
vollero sbarrare il cielo

non ci riuscirono del tutto
altissimi
guardiamo i gabbiani che volano”.

(Sante  Notarnicola, Galera. Favignana 1 
Giugno 1973)

[Sono giunti da poco in libreria, rieditati da Pgreco, “La nostalgia e la memoria” e “Liberi dal silenzio” * di Sante Notarnicola. Contengono poesie e testi adornati dai disegni di Stefania Venturini e Marco Perrone, ed una lunga intervista rilasciata nel 1992 dall’autore a Radio Sherwood.]

Si dice che la poesia riesca a volte a pronunciare parole universali, valide in ogni tempo.
Succede ai versi di Sante Notarnicola, composti prevalentemente nel corso di una prigionia durata 21 anni – dal 1967 al 1988.
Versi che si rivelano ancor oggi necessari, e resteranno tali fino a quando l’ultimo carcere rimarrà in piedi.

Per quanto nelle galere sia cambiata la composizione del corpo prigioniero e i suoi livelli di combattività e di coscienza, per quanto siano state perfezionate e differenziate le forme del controllo, le sbarre restano fondamentalmente ancora le stesse.

Stessa è la reazione dell’umano alla negazione dell’aria e dei colori, e di tutto quel mondo esterno fatto di vastità di spazi, luoghi e persone amate.
Uguale è la violenza subita, la tensione e la rabbia, l’arroganza e l’arbitrio.
Uguale è l’apatia delle ore immobili, la tenerezza ai colloqui e il desiderio.

“Concreta è l’assenza del gesto, e del sorriso”. Per resistere bisogna imparare a ricostruirli nel sogno, nell’immaginazione, nei ricordi e nella speranza.
La poetica di Sante è un addestramento al carcere, ti insegna come l’istituzione totale può colpirti nella tua dimensione intima, e dove potrai trovar la forza per reagire … leggi tutto

C’era una volta il bar (rivistastudio.com)

di Davide Coppo

Innovazioni politiche, culturali ed economiche 
sono spesso nate intorno a un tavolino. 

Elogio di un luogo che ci manca.

Sono le cinque del mattino al bar Maxim’s, uno dei club più in voga di Bucarest. Davanti a una schiera di bottiglie di champagne, il trentenne Georges Simenon inizia a parlare con un uomo seduto vicino a lui. Non scorre, a quell’ora, soltanto vino francese, ma whisky e altri superalcolici, eppure l’atmosfera non è quella che ci si potrebbe immaginare dopo una notte di eccessi: anzi, si respira «un clima piacevolmente rilassato», in cui Simenon individua artisti, un magistrato ed esperto di diritto internazionale, un dotto rumeno, un ex ministro.

È una scena descritta con più dettagli in Europa 33, una raccolta di reportage di viaggio scritti da Simenon dal Belgio a Istanbul in un anno cruciale per il mondo, in cui lo scrittore misura il polso al continente in equilibrio precario tra le due guerre. Non è un episodio fondamentale, ma apre una finestra su un mondo – quello dei caffè, dei bar, dei ristoranti e dei club – che per oltre un secolo è stato il laboratorio in cui si progettavano le innovazioni politiche, culturali, economiche e sociali dell’Europa.

Si potrebbe arrivare a dire che l’Occidente stesso, per come lo conosciamo, è nato nei bar, intorno a tavolini con sopra un bicchiere di vino, oppure di whisky, o una tazza o tazzina di tè e di caffè, negli orari più diurni. In un certo senso è quello che fa il saggio A Rich Brew: How Cafés Created Modern Jewish Culture di Shachar Pinsker, un professore ed esperto di cultura ebraica della University of Michigan, un testo del 2018 molto ben recensito e vincitore di diversi premi. Pinsker riconduce ai bar non soltanto la “moderna cultura ebraica” del titolo, ma la nascita delle democrazie europee. «La democrazia non fu costruita nelle strade», ha scritto Adam Gopnik commentando il libro sul New Yorker, «bensì tra i piattini». Perché i caffè? In breve: perché i caffè, nel Diciannovesimo secolo, erano tra i pochi posti in cui ci si poteva riunire comodamente ed evitando gli occhi panottici dello Stato.

E quindi discutere, lamentarsi, e all’occorrenza cospirare. Pochi luoghi, ad esempio, furono importanti per la vita politica e culturale europea quanto il Café Central di Vienna, inaugurato nel 1876, culla del Positivismo, che accolse ai suoi tavolini rotondi, tra gli altri, Theodor Herzl e Adolf Hitler, Josif Bros Tito e Vladimir Lenin. A proposito di storia e cospirazioni, c’è un aneddoto piuttosto famoso legato al Café Central: pochi anni prima della Prima guerra mondiale, si trovarono a discutere Viktor Adler, deputato socialdemocratico austriaco, e l’importante Leopold von Berchtold, ministro degli Esteri austroungarico.

Adler intendeva mettere in guardia il conte von Berchtold: una grande guerra continentale, diceva, avrebbe favorito una pericolosa rivoluzione in Russia … leggi tutto

GERUSALEMME È OVUNQUE. UNA CONVERSAZIONE SULL’INVISIBILE (minimaetmoralia.it)

di Andrea Cafarella

Quando abbiamo cominciato a scrivere questa 
conversazione era da qualche mese in circolazione 
un’ottima traduzione del libro di culto 
Il cibo degli Déi (Piano B, 2019) di uno dei 
più importanti divulgatori della psichedelia, 
Terence McKenna. 

Un testo essenziale quando parliamo di sostanze in grado di alterare la nostra percezione del mondo, quindi, inevitabilmente, un documento molto utile all’interno del più grande discorso relativo agli altri stati di coscienza, e agli altri mondi. Ovverosia al viaggio che è possibile compiere verso questi altrove ancora sconosciuti.

«Il mondo che percepiamo è una piccola frazione del mondo che possiamo percepire, che è una piccola frazione del mondo percepibile» questa è una delle frasi topiche di McKenna, segnalata già nell’introduzione, per intenderci.

È sfogliando le prime pagine di questo libro che mi sono imbattuto per la prima volta nel nome di Federico di Vita – che ne ha curato proprio l’introduzione. Mi ha subito affascinato l’indomabile lucidità e la chiarezza di sguardo che di Vita ha saputo mantenere nel descrivere un personaggio a dir poco controverso, le cui storie suscitano una meraviglia ambigua, poiché sembrano assurde. Eppure, niente hanno a che vedere con la finzione narrativa.

Scopro poi che Federico di Vita stava curando un volume (La scommessa psichedelicaQuodlibet, 2020) scritto a più mani, che si sarebbe occupato del Rinascimento psichedelico. Inizio quindi a mandargli una serie di domande, chiedendogli esplicitamente di prendersi del tempo – il giusto tempo – per rispondere a ognuna di esse. Il risultato è una conversazione durata mesi, nata senza uno scopo preciso, costruita nel tempo, con lentezza, mentre il nostro rapporto andava consolidandosi.

Nel frattempo: il libro che stava curando è stato pubblicato, è nato un podcast chiamato Illuminismo psichedelico e moltissime altre cose sono successe.

Noi abbiamo continuato questo vero e proprio botta e risposta, nel quale tentiamo di ragionare sul significato di certi concetti inesplicabili, rievocando gli accadimenti di questi mesi e i testi che ci hanno accompagnato, indagando le esperienze di vita e forse anche – speriamo – perdendoci nei pensieri, fino a non sapere più dove eravamo diretti né dove siamo adesso … leggi tutto

Olympe de Gouges, un’antenata da riscoprire per le lotte delle donne (globalist.it)

di Luana Alagna Dottoressa di ricerca in Studi Politici, Università  di Palermo

La Liberté ou la mort. Il progetto politico e 
giuridico di Olympe de Gouges è il titolo del 
volume appena pubblicato da Annamaria Loche, 

filosofa politica e studiosa che ha dedicato importanti lavori a Rousseau e alle origini storiche del femminismo.
Il libro, contenuto nella collana “Prassi sociale e teoria giuridica” diretta da Thomas Casadei e Gianfrancesco Zanetti presso Mucchi editore (Modena, 2021, pp. 153), è dedicato ad una voce vibrante del XVIII secolo come quella di Olympe de Gouges che, insieme a Mary Wollstonecraft, ha lanciato e fondato la sfida femminista contro la codificazione del silenzio di un genere.

Le parole che compongono il titolo, un’espressione contenuta in una delle opere di de Gouges Le Prélat, definiscono la figura di Olympe, ricongiungendone l’ispirazione ideale di una vita alla sua tragica morte, avvenuta per mezzo delle stesse lame di ghigliottina con cui il Terrore voleva porre fine all’Assolutismo.

Loche consegna alla letteratura esistente un prezioso contributo sulla figura di Olympe de Gouges, indagando sull’acume e sulla profondità di una riflessione la cui originalità è intessuta nella trama costituita dal contesto in cui vede la luce, dalla personalità della scrittrice e drammaturga e dalle sue opere di cui la più nota è la Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne (1791), opportunamente raccolta, in traduzione in italiana, in appendice al volume.

In quest’opera de Gouges declina al femminile le parole che compongono il titolo della carta simbolo della Rivoluzione francese perché, come argomenta l’autrice, «considera il termine homme ingannevole», utilizzato «con il preciso, e probabilmente consapevole, scopo non dichiarato di escludere le donne dal godimento dei diritti civili e politici».

L’aspetto prettamente linguistico – che ancora oggi, tuttavia, a tre secoli dall’inizio delle rivendicazioni femministe, esprime dinamiche concettuali e quindi pratiche politiche e relazioni di potere ispirate da retaggi patriarcali altrettanto mistificatori e fuorvianti – si intreccia e si fonde con il nodo cruciale delle istanze di de Gouges, ossia la richiesta per le donne di eguaglianza dei diritti «di natura e di cittadinanza di cui gli uomini si sono impadroniti grazie alla rivoluzione» … leggi tutto