L’inversione vittima-carnefice è la risorsa antiebraica per eccellenza (ilfoglio.it)

di ADRIANO SOFRI

PICCOLA POSTA

Peggio dei Nazisti. Non esistono altri nomi per definire l’infamia di Hamas? La gara dell’epiteto è un errore

Vorrei dire una cosa dura da ascoltare. Il Führer del nazismo, nel Mein Kampf, scrisse: “I posteri, esaminando il nostro operato, non solo lo capiranno ma lo troveranno giusto e lo loderanno”. Ancora quando tutto era perduto, i nazisti continuavano a commettere i loro crimini e a cancellarne le tracce: i contemporanei non erano maturi per capire, ma i posteri sarebbero stati loro grati per aver pulito la terra dai giudei.

Non è successo, se non in infime frange, la feccia delle società contemporanee, e comunque non ancora. Ma una enorme rivalsa del nazismo, sia pure in una forma oscenamente rovesciata, si sta compiendo. Non c’è attore dei conflitti e delle vere guerre di oggi che non chiami nazista il proprio nemico. Perfino in una crisi estranea, all’origine, alla contesa politica, come quella della pandemia di Covid, minoranze paranoiche e vanesie via via più rumorose arrivarono a sfilare con la stella gialla – e con le uniformi dei campi e i falsi tatuaggi sul braccio! – accostando l’obbligo vaccinale allo sterminio.

Il trionfo arrivò con l’invasione russa, sbandierata come una replica eroica della Grande guerra patriottica contro il nazifascismo, per la “denazificazione” dell’Ucraina. E una minoranza, ora molto più numerosa e rumorosa, della “sinistra” (nome che non potrà mai più scriversi senza virgolette) non esitò a ripudiare la solidarietà all’aggredito, a vedere nell’aggressore una qualche continuità con un passato rivoluzionario – della rivoluzione che si sbrigò a mangiare i propri figli, mentre divorava quelli degli altri – e a ignorarne la natura criminale.

E a credere “nazista” il paese aggredito, così da promuovere la propria viltà a fermezza antifascista. Un facile meccanismo retorico induceva i difensori ucraini e i loro alleati a ritorcere l’ingiuria su Putin e i suoi accoliti: un paio di baffetti da incollare sotto il naso del nemico sono sempre disponibili. C’erano dall’una e dall’altra parte del fronte bande e individui sedotti dalla mitologia nazista e dai suoi emblemi, così come se ne trovano purtroppo dappertutto, a casa nostra in misura almeno equivalente.

Era e rimane la via facile della propaganda, e però, più significativamente, l’indizio di una incapacità di chiamare le cose col loro nome, e di mostrarle ripugnanti quanto sono senza bisogno di ricorrere alla soffitta degli orrori. E di comprometterne, oltretutto, “l’unicità”, e se non altro la singolarità. Archiviata la categoria di “totalitarismo”, che era stata ricca di illuminazioni, ma a sua volta aveva preteso di esaurire le distinzioni tra fenomeni diversi e spesso opposti – opposti sia per la diversità che per la gelosa affinità – come il nazifascismo e il comunismo dispotico e lo stalinismo.

Ora la nuova guerra esplosa nel vicino oriente e suscitata dall’immondo assalto di migliaia di miliziani di Hamas a cittadini israeliani (e non solo), bambini, donne, vecchi, ragazze e ragazzi, e uomini, del tutto inermi e indifesi, e molti di loro amanti della convivenza e della pace, ha fatto ripartire la giostra dell’epiteto. (La smania del rincaro fa ora moltiplicare espressioni come “peggio dei nazisti”!).

I capi israeliani, a cominciare dal malaugurato Netanyahu, hanno cercato nel magazzino precedenti che si avvicinassero alla ferita mortale che Israele aveva sofferto: l’Isis, il più immediato, ma soprattutto quello incomparabile del nazismo. Era inevitabile che in un paese sorto per riconoscere agli ebrei sopravvissuti al genocidio la decisione di vivere sicuri in un proprio stato e di difenderlo strenuamente con le armi, che ancora ospita un numero commovente di quei superstiti (e qualcuna di loro è stata trascinata ostaggio nei sotterranei di Gaza) il ricordo della persecuzione si facesse travolgente.

Ma dichiarazioni come quella: “La nostra è una guerra di denazificazione di Gaza”, pronunciate da Netanyahu e soci, sono un grave errore, tanto più quando suonano come un’eco degli slogan di Putin, il quale intanto sta ricevendo gli emissari di Hamas. Non esistono altre parole, altri nomi, per dire l’infamia di Hamas (e non “di Gaza”)? Hamas non fa schifo abbastanza di suo, senza quell’assimilazione? 

Anche qui gli appigli pseudostorici non mancano, e la fotografia del gran muftì di Gerusalemme Amin al Husseini che esorta nel novembre del 1941 il suo amico Hitler a completare lo sterminio degli ebrei per preservarne la Palestina è subito a portata di mano. (Qualche anno fa il solito Netanyahu spinse il suo zelo fino a dichiarare che era stato Husseini a persuadere allo sterminio Hitler, che voleva solo cacciare gli ebrei dalla Germania – e fu deriso dagli storici, gli israeliani per primi). Le infamie di oggi non sono la prosecuzione di quelle dell’altroieri.

Ma il punto più importante è un altro: nella guerra (chiamiamola così, anche questa) della propaganda, l’espediente dell’inversione vittima-carnefice è per eccellenza la risorsa antiebraica. Pressoché “naturalmente”, dal momento che gli ebrei sono stati la vittima per antonomasia, e Israele esiste affinché smettessero di esserloÈ questo che illude qualcuno di essere “antisionista” piuttosto che antisemita. Il sionismo storico e le sue tante componenti non c’entrano, né quel dissenso dal sionismo che era costitutivo di altre combattività ebraiche, come quella gloriosa del Bund che abbiamo conosciuto con Marek Edelman e che Wlodek Goldkorn racconta.

La metamorfosi dell’ebreo vittima in persecutore nazista è l’immagine centrale dell’antisemitismo di oggi – no, non di oggi, dalla fine degli anni 60 e dei 70 del secolo scorso almeno, ma oggi irrefrenata. Solo gli imbecilli (i soliti, quelli già del “socialismo degli imbecilli”) sono oggi dottamente antisemiti, si leggono i Protocolli e la monnezza circostante, calcolano quanti patrimoni e quanti premi Nobel detengono gli ebrei in proporzione e così via.

Alla massa arriva tutt’al più uno stereotipo personale, che il loro dio glielo conservi, come George Soros (dopo il 7 ottobre, pur di dargli ancora addosso da destra – destra senza virgolette, è il suo vantaggio – l’hanno denunciato come finanziatore di palestinesi). Alla massa, quella delle manifestazioni, bastano appunto i baffetti su una faccia israeliana, la svastica sulla stella di David. ISRAEL-SS. La vista della carneficina di Gaza fa il resto, e avanza. E’ così che i manifestanti del mondo, addolorati e scandalizzati dalla distruzione di Gaza come lo sono io, si sentono autorizzati ad auspicare una “Palestina libera dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo)”, cioè Israele cancellata dalla carta geografica, in nome di un generoso empito antinazista.

C’è un libro, uscito nel 2013, di due storici, Arturo Marzano e Guri Schwarz, “Attentato alla sinagoga. Roma, 9 ottobre 1982”, Viella ed. Lo raccomando per molte ragioni, e in particolare per la ricostruzione meticolosa del formarsi e dell’avanzare nel linguaggio politico italiano di quell’inversione retorica, gli israeliani (e gli ebrei) nuovi nazisti. Ma ve ne parlo la prossima volta. 

Quei silenzi di troppo a sinistra (corriere.it)

di Paolo Mieli

Gli sfregi agli ebrei

Si è tenuta a Parigi una manifestazione contro l’antisemitismo all’indomani di quella londinese a favore dei palestinesi e delle dichiarazioni del presidente iraniano Ebrahim Raisi al summit dei Paesi musulmani in Arabia Saudita («Baciamo le mani di Hamas»). Il raduno all’Esplanade des Invalides ideato da Gérard Larcher e Yaël Braun-Pivet ha avuto un insperato e inaspettato successo. Era però assente un pezzo non irrilevante della sinistra francese.

Il presidente Emmanuel Macron che all’indomani dell’attacco del 7 ottobre era corso in Israele per proporre un’alleanza mondiale contro Hamas come quella contro l’Isis, negli ultimi giorni si è mostrato più sensibile alle sorti dei civili di Gaza e ha preso le distanze dall’adunata di Larcher e Braun-Pivet. Per non essere costretto, s’è giustificato, a sfilare al fianco di Marine Le Pen che prontamente invece aveva dato la propria adesione. Dando prova, Macron, di aver conservato intatta la disinvoltura che all’inizio della guerra d’Ucraina gli consentiva di svolazzare tra Mosca e Kiev annunciando «svolte» che coincidevano prevalentemente con suoi mutamenti d’umore.

Per fortuna — a vantaggio della sinistra superstite — erano presenti l’ex presidente della Repubblica François Hollande, l’attuale premier Élisabeth Borne e gli ex Bernard Cazeneuve e Manuel Valls (in prima fila). Dietro di loro l’ecologista Marine Tondelier, il socialista Olivier Faure e persino il comunista Fabien Roussel, fischiatissimi in quanto appartenenti all’alleanza guid ata da Jean-Luc Mélenchon.

I l quale Mélenchon, trascinandosi dietro pressoché l’intera gauche, ha abbracciato come è noto — sempre sotto le insegne palestinesi — la causa islamica. Senza preclusioni nei confronti degli islamici più radicali.

Secondo il filosofo Pascal Bruckner l’estrema sinistra francese è oggi «antisemita» né più né meno che l’estrema destra. Un fenomeno non sconosciuto nella storia francese. Ai tempi del caso Dreyfus, Jules Guesde arrivò alla rottura con Paul Lafargue — assieme al quale vent’anni prima (1882) aveva fondato il Partito operaio — perché, pur considerando il «capitano ebreo» innocente, riteneva che la campagna a suo favore fosse impropria per chi si era assegnato il compito di battersi contro la borghesia. Considerava Dreyfus una persona che aveva goduto «di una ricchezza prodotta dal furto operato sugli operai sfruttati dalla sua famiglia». Una famiglia di israeliti. E Marc Lazar ha ricordato come negli Anni Trenta il Partito comunista francese teneva discorsi antisemiti contro il socialista Léon Blum.

Ma a quei tempi, prima metà del Novecento, gli stendardi dell’odio contro gli ebrei erano ben saldi nelle mani della destra. Adesso è diverso. Per agganciare le «minoranze» islamiche, in tutti i Paesi d’Europa l’asta di quelle bandiere è impugnata da mani di sinistra e i gruppi dirigenti mostrano qualche incertezza nel contrastare questo fenomeno. Mentre la destra, pur con una sospetta rapidità, si è spostata di campo, a difesa degli ebrei, contro ogni manifestazione di giudeofobia.

Il che crea dappertutto, anche qui in Italia, qualche imbarazzo. Tre donne (la prima ex internata ad Auschwitz, le altre due, esponenti della comunità ebraica) hanno messo in evidenza il fastidio provocato da alcuni atteggiamenti di quella che è — presumibilmente, in linea generale — la loro parte politica. Edith Bruck ha dichiarato che i fatti dell’ultimo mese le hanno fatto cambiare idea circa la sensibilità della sinistra in tema di antisemitismo. Anche per quel che concerne la riflessione sui migranti.

Noemi Di Segni ha messo in evidenza quanto sia ancora diffusa nel campo progressista un’indiscriminata ostilità nei confronti di Israele. E, a seguito di questa constatazione, s’è presa in sovrappiù qualche ruvida rampogna. Ruth Dureghello ha ricordato come già ai tempi della guerra del Libano (1982) s’innescò un equivoco «processo di colpevolizzazione di tutto il popolo ebraico». Dopodiché nel corso di un raduno della Cgil fu deposta una bara davanti alla Sinagoga di Roma e, trascorsi pochi giorni, un commando palestinese uccise, nello stesso posto, un bambino di due anni: Stefano Gaj Taché.

Un delitto «di cui peraltro non sono mai stati individuati i responsabili», sottolinea Dureghello ponendo indirettamente qualche interrogativo sulle modalità e la solerzia con cui furono condotte le indagini. Non che Bruck, Di Segni e Dureghello intendessero dire che qualcuno a sinistra si è, un mese fa, sottratto all’immediato dovere di pronunciare parole di condanna nei confronti dell’ecatombe del 7 ottobre. Figuriamoci.

Ma forse si aspettavano che il tema venisse successivamente approfondito in modi più circostanziati. Soprattutto quando a quel lutto in Europa s’è accompagnata una moltiplicazione di aggressione a cittadini ebrei, svastiche sui muri, oltraggi a sinagoghe e cimiteri israelitici. Sfregi a ebrei. Non a israeliani in un qualche rapporto con Netanyahu. Gente che non aveva nessuna relazione con bombardamenti e missili su Gaza. Ebrei. Solo ebrei. Nient’altro che ebrei.

In Germania, Olaf Scholz, ma ancor più il vicecancelliere Robert Habeck e la ministra degli Esteri Annalena Baerbock, questo genere di riflessioni e di distinzioni le hanno fatte. Eccome. In Gran Bretagna il leader laburista Keir Starmer si è spinto addirittura a denunciare l’ambiguità contenuta in alcuni appelli per il «cessate il fuoco» a Gaza. Da noi meno. Molto meno.

Una qualche sensibilità ha suggerito a Elly Schlein di evitare che la «sua» manifestazione di sabato scorso fosse caratterizzata dallo sventolio di bandiere palestinesi e da slogan che invitavano a «liberare la Palestina dal fiume Giordano alle rive del mare» (il modo corrente di chiedere la distruzione dello Stato di Israele). Il che, conoscendo parte dei gruppi dirigenti (occulti o palesi) selezionati dalla sinistra italiana negli ultimi decenni, è già qualcosa di ardimentoso da parte della giovane leader.