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La famiglia non ha risposto alle sollecitazioni
del Comune e dell’Ausl.
Come da regolamento è subentrato nella sezione chi seguiva in graduatoria.
Bambino non vaccinato perde il posto alla materna. E’ accaduto nuovamente in provincia, e sempre a Rimini. A causa del mancato rispetto dell’obbligo vaccinale è stata avviata la decadenza dall’iscrizione per un minore iscritto nelle scuole di infanzia comunali, spiegano dal municipio. Il posto verrà riassegnato seguendo la graduatoria.
“Il bene primario è la salute della comunità” sottolineano da Palazzo Garampi, mentre dall’opposizione, Matteo Angelini, consigliere di 3V, parla di “applicazione di una legge da Medioevo”. Se il bambino ha perso il diritto a un posto alla materna è perché c’è una legge regionale che pone l’obbligo delle vaccinazioni per poter accedere ai servizi scolastici. Nel caso della scuola per l’infanzia il mancato rispetto della norma toglie al bambino il diritto acquisito in precedenza in graduatoria.
Ma in questo caso a decidere non è il bambino, bensì i genitori che a lungo sono stati interpellati da Ausl Romagna e dallo stesso Comune di Rimini, non fornendo tuttavia documentazione a supporto della mancata vaccinazione. Andiamo con ordine. L’iter, in situazioni simili, viene avviato dall’Ausl che verifica come il bambino non sia stato vaccinato. La legge nazionale del 2017 ha esteso da 4 a 10 le vaccinazioni obbligatorie, e la legge regionale ha legato l’obbligo alla frequenza nelle scuole per l’infanzia.
Il bambino potrebbe anche avere ricevuto le prime vaccinazioni, ma non avere completato il percorso. In passato c’era stato un caso simile sempre nel Comune di Rimini, con un bimbo vaccinato solo in parte, con i genitori che non avevano di fatto voluto completare il percorso vaccinale nonostante le sollecitazioni e le richieste giunte dal Comune e Ausl.
In questo caso l’Ausl ha trasmesso all’amministrazione il mancato rispetto della certificazione sanitaria richiesta per legge. La procedura seguita dall’Ausl non è immediata. Trascorrono mesi tra il primo avviso inviato alla famiglia, la successiva risposta, l’eventuale appuntamento che potrebbe non essere stato rispettato demandando ad un altro periodo la vaccinazione, e così via.
Un percorso che a un certo punto arriva alla fine con l’Ausl che trasmette il tutto al Comune per la decadenza del diritto a occupare un posto alla materna. L’amministrazione non si limita a inviare la ‘disdetta’. “Più volte è stata sollecitata la famiglia alla presentazione della certificazione o, in alternativa, la documentazione che attestasse una eventuale situazione di esonero o rinvio – spiegano dal municipio -. Scaduti i termini previsti dalla legge, ma anche quelli di una ulteriore flessibilità che viene concessa in decisioni come questa, si è proceduto con la formalizzazione delle procedure di decadimento dell’iscrizione e la conseguente messa a disponibilità del posto al primo posto risultato utile in graduatoria”.
In assenza di risposte il Comune ha infine stabilito, come previsto dalla norma, di far decadere il diritto della famiglia e assegnare il posto a un altro bimbo in attesa, regolarmente vaccinato.
Nel suo romanzo «La tregua», Primo Levi la descrive come «una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale», la sospensione del proprio destino in attesa di ricominciare una vita «normale». La tregua non risolve un conflitto, è solo un senso di requie e di speranza.
Ma quale speranza s’intravede nei negoziati fra Trump e Putin? Più che una tregua sembra una resa. In Italia viviamo in pace da 80 anni e forse non riconosciamo più il senso profondo di alcune parole: c’è una grande differenza fra tregua e resa. Resa significa cessazione di ogni resistenza di fronte al nemico, significa arrendersi, perdere qualcosa (la propria terra, la propria identità).
Parentesi nel conflitto o una speranza di cessate il fuoco?
Ma resa ha un significato ancora più vertiginoso quando diventa resa dei conti, il momento in cui ognuno dovrebbe affrontare le proprie responsabilità. L’odio di Trump per l’Europa rischia di rompere un’alleanza che non è solo militare o economica, ma espressione di una lunga visione condivisa della Storia e del mondo.
È la rinuncia incondizionata ai valori dell’Occidente, al rispetto dei diritti umani e delle libertà civili, allo stato di diritto, alla sovranità nazionale, alle democrazie liberali.
Per non dare tregua ai vili, quegli europei consapevoli di non essere «patetici parassiti» devono scongiurare con fermezza la resa.
A comunicarlo è stato il sindaco Mimmo Lucano, che in un lungo post ha ripercorso la vicenda del giovane egiziano, condannato come scafista, detenuto per oltre quattro anni nel carcere di Arghillà, e morto con un tumore al pancreas in fase terminale.
Una storia che Lucano non esita a definire emblematica della deriva dell’accoglienza e dei diritti umani in Italia: «Habashy era arrivato in Calabria in cerca di speranza. Invece ha trovato due guardie bigotte. È stato accusato di essere lo scafista, arrestato preventivamente e dimenticato in carcere, dove si è ammalato fino a morire. Solo quando il suo corpo non ha più retto, lo Stato ha deciso di scarcerarlo. Per farlo morire fuori dalle sue mura».
Il conferimento della cittadinanza onoraria è avvenuto alla presenza di Luca Casarini e di padre Mattia Ferrari, figure da anni impegnate nel soccorso ai migranti nel Mediterraneo. «È un atto di riconoscimento, ma anche di accusa verso chi ha spento la sua passione per la vita con spregevole indifferenza», ha aggiunto Lucano. «Habashy ha vissuto i suoi ultimi giorni a Riace, accolto nel Villaggio Globale. La sua porta era sempre aperta, i bambini entravano e uscivano giocando, ricordandoci che anche lui è stato, fino alla fine, un essere umano».
Chi era Habashy
Il 19 ottobre 2021 Habashy sbarca a Roccella Jonica su un’imbarcazione carica di migranti. Viene arrestato con l’accusa di essere uno degli scafisti. Condannato in via definitiva, ha scontato la pena nel carcere di Arghillà, a Reggio Calabria. Solo nel gennaio 2025, a poche settimane dal fine pena, gli viene diagnosticato un tumore al pancreas al quarto stadio. A febbraio la magistratura certifica la sua incompatibilità con la detenzione e ne dispone la scarcerazione.
Lucano lo accoglie a Riace, dove trascorre i suoi ultimi giorni, circondato dall’affetto della comunità. Muore il 21 marzo, meno di un mese dopo essere uscito di prigione.
Una riflessione amara
La vicenda di Habashy solleva ancora una volta interrogativi profondi sulla gestione del fenomeno migratorio in Italia, sulla detenzione dei presunti scafisti e sull’applicazione dell’articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione, inasprito dal decreto “Cutro”.
«Davvero possiamo credere che chi arriva accovacciato in una carretta del mare sia il responsabile dell’organizzazione del viaggio?», si chiede Lucano. «Quanti migranti sono stati condannati senza nemmeno poter essere ascoltati nella loro lingua, senza possibilità di appello?».
Con la cittadinanza onoraria postuma, Riace non dimentica Habashy. E al tempo stesso rivendica una visione diversa, fondata sull’accoglienza, la dignità e il rispetto dei diritti umani.
Da quando Donald Trump è tornato alla presidenza, anche il sito della Casa Bianca si è trasfigurato.
Non presenta più il lavoro di un’istituzione, officia il culto di una persona. La pagina web si apre su una foto gigantesca di Trump e un annuncio a lettere cubitali: «America is back», l’America è tornata. Sotto, una sola promessa: «Ogni singolo giorno lotterò per voi con tutto il fiato che ho in corpo. Non riposerò finché non vi avrò dato l’America forte, sicura e prospera che meritate. Questa sarà veramente l’età dell’oro» per la nazione.
L’ idea di fondo è che il presidente costruirà una «Fortezza America» basata su un’«economia della produzione», indipendente nella manifattura di tutto ciò che è indispensabile. È la visione di un’autarchia americana. Per realizzarla, in poco più di due mesi la Casa Bianca ha deciso o minacciato dazi sul commercio di beni per oltre 1.900 miliardi di dollari: due terzi delle importazioni materiali degli Stati Uniti, che sono di gran lunga il più vasto mercato al mondo.
Se non è un cigno nero, è uno choc paragonabile all’aggressione all’Ucraina del 2022. Ora si aspetta il «Giorno della Liberazione» (mercoledì prossimo), in cui dovrebbero essere precisati i contorni di un’altra ondata di dazi «reciproci» contro l’Unione europea e vari altri Paesi; quindi, dopo acciaio e alluminio, si studiano barriere su rame, legname, farmaceutica e persino una tassa all’attracco delle navi fabbricate in Cina.
È tutto così novecentesco: materiali e manufatti che costituiscono l’infrastruttura di un’economia industriale e di una società tradizionale. Trump resta imprevedibile e ondivago, ma il suo obiettivo di fondo sembra essere un taglio netto alle catene fisiche del valore che tengono l’America legata al resto del mondo.
Le vuole rimpatriare in nome di un’economia simile a quelle di un tempo, quando ogni prodotto si faceva dall’inizio alla fine in un unico Paese. Così ad esempio il presidente tassa le componenti auto (un import da quasi 90 miliardi di dollari l’anno) e non solo il bene finito, in modo da spingere General Motors, Ford e Stellantis a rimpatriare filiere oggi estese in Messico, Canada o altrove.
All’annuncio, le case auto di Detroit sono cadute in Borsa; del resto tutta Wall Street da settimane dà segni di malessere, così come ne danno il dollaro stesso o le famiglie americane che temono l’inflazione innescata dai dazi. Ma il presidente, in apparenza, non se ne cura. O se ne cura solo a volte e solo in parte. Per lo più dimostra (per ora) un’indifferenza ai segnali di stress dell’economia e dei mercati che è nuova, rispetto al suo primo mandato.
Perché lo fa? Ufficialmente vuole ridare dignità e buoni posti di lavoro all’«uomo dimenticato», l’americano medio umiliato dalle delocalizzazioni verso la Cina. Lo stesso JD Vance, il vicepresidente, è notoriamente figlio di una comunità devastata dalla crisi industriale.
Un’occhiata più attenta suggerisce però che questa spiegazione non basti. Già oggi l’America è vicina alla piena occupazione, eppure l’industria assorbe appena l’8% della manodopera attiva anche se il numero degli addetti manifatturieri è salito negli ultimi 15 anni dopo i crolli precedenti. In sostanza un’America autarchica non avrebbe abbastanza persone per le sue fabbriche, specie ora che gli stranieri sono deportati e scoraggiati in ogni modo.
Dietro le azioni di Trump sembra esserci piuttosto l’ossessione cinese sua e delle élite americane di questi anni. Oggi la Cina produce il 20% degli ingredienti farmaceutici, più di metà dei mercantili, delle tecnologie verdi o del ferro del mondo. Nelle auto la sua capacità è superiore alla domanda globale, fa il 95% dei container, ha il 77% del cobalto e nel complesso assicura un terzo della produzione industriale del pianeta.
L’America trumpiana ha tutta l’aria di volersi preparare alla sfida strategica del prossimo decennio con la potenza emergente. E vuole farsi trovare all’appuntamento forte di un’autonomia che la liberi dalle dipendenze e le permetta di basarsi sulle sue forze sole fisiche: acciaio, rame, navi, farmaci, auto.
Ma ha senso? Lo si potesse chiedere a Vladimir Putin, nella sua intelligenza criminale il dittatore direbbe che per lui la rottura fra Washington e Bruxelles vale più della conquista dell’Ucraina. Perché indebolisce l’America, non solo l’Europa. Poi ci sono quei 5.000 miliardi di dollari di titoli del Tesoro americano, fra nuovo deficit e rinnovo del vecchio debito, che l’amministrazione deve piazzare ogni anno agli investitori di tutto il mondo per evitare tensioni.
Trump vuole tagliare i ponti con il resto del mondo, ma gli Stati Uniti da esso dipendono finanziariamente, mentre il loro potere di persuasione dipende anche dal legame con l’Europa sul piano dei valori. Così il presidente fa esplodere le contraddizioni americane, invece di liberarsene in un giorno solo.
Le ultime settimane sono state movimentate e
allarmanti per l'Ucraina e i suoi alleati europei.
Per prima cosa hanno saputo che il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha trascorso 90 minuti al telefono con il suo omologo russo, Vladimir Putin. In un colpo solo, Trump ha messo a soqquadro i tre anni in cui il suo predecessore, Joe Biden, aveva cercato di isolare la Russia dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina.
Lo stesso giorno, il 12 febbraio, in un incontro di alti funzionari a Bruxelles il neo-segretario alla Difesa Pete Hegseth ha dichiarato che l’Europa non sarebbe più stata l’obiettivo principale della politica di sicurezza degli Stati Uniti e che l’Ucraina non avrebbe potuto sperare di riconquistare il territorio occupato illegalmente dalla Russia dal 2014, né di entrare a far parte della NATO.
Hegseth ha aggiunto che non solo gli Stati Uniti non avrebbero contribuito a nessuna forza di pace in Ucraina, ma che qualsiasi operazione di pace europea non sarebbe avvenuta sotto la protezione dell’articolo 5 della NATO.
Poi è arrivata ladichiarazionedel vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance,alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, secondo cui era l’Europa, e non la Russia o la Cina, la principale minaccia alla sicurezza, il “nemico interno” che promuoveva pratiche antidemocratiche e cercava di limitare la libertà di parola.
La scorsa settimana, un team statunitense guidato dal segretario di Stato, Marco Rubio, si èriunito con i suoi omologhi russi, guidati dal ministro degli Esteri Sergei Lavrov, per discutere dei negoziati di pace. L’Ucraina non era rappresentata, enemmeno l’Europa. In seguito, forse prendendo spunto da Hegseth, Lavrov ha dichiarato che la Russia non accetterà alcuna forza di pace europea in Ucraina – accordo o meno.
Nel frattempo, Trump ha utilizzato la sua piattaforma mediatica TruthSocial perripeteregli argomenti preferiti del Cremlino. L’Ucraina è responsabile della guerra, ha detto, definendo il Presidente Volodymyr Zelensky un “dittatore” che ha annullato le elezioni e la cui popolarità presso il suo stesso popolo è scesa al 4%. Inrealtà è del 57%, almeno 10 punti in più del tasso di approvazione di Trumpnegli Stati Uniti.
Trump ha anche deriso la preoccupazione di Zelensky per l’esclusione del suo paese dai colloqui di Riyad, dicendo ai giornalisti: “Oggi ho sentito dire: ‘Oh, non siamo stati invitati’. Ma siete stati lì per tre anni… Non avreste mai dovuto iniziare. Avreste potuto fare un accordo”.
Questo ci riporta al comunicato di Istanbul, redatto alla fine di marzo 2022 dopo i primi colloqui di pace tra Russia e Ucraina ad Adalia, in Turchia. Alcunicommentatori statunitensi hanno suggerito che l’Ucraina ora starebbe meglio, se allora avesse firmato un accordo.
Il comunicato di Istanbul
Quanto accaduto a Istanbul e quanto la Russia e l’Ucraina fossero vicine a un accordo è stato oggetto di un acceso dibattito.Alcuni sostengono che l’accordo fosse vicino, altri smentiscono questa versione dei fatti.
Secondo quanto riportato, l’Ucraina avrebbe accettato una serie di concessioni, tra cui la futura neutralità e la rinuncia alla candidatura per l’ingresso nella NATO. La Russia, a sua volta, avrebbe accettatol’adesione dell’Ucraina all’UE. Questa concessione, per inciso, è ancora sul tavolo.
Ma non sono mancati i punti critici, soprattutto per quanto riguarda le dimensioni delle forze armate ucraine dopo l’accordo – Kyiv avrebbe voluto 250 mila soldati, il Cremlino solo 85 mila – e itipi di armi che l’Ucraina avrebbe mantenuto nel proprio arsenale.
C’erano anche questioni relative al territorio ucraino occupato dalla Russia, in particolare la Crimea, che si prevedeva di risolvere nell’arco di 15 anni, con la Russia che nel frattempo avrebbe occupato la penisola. Un’altra richiesta del Cremlino era che Zelensky si dimettesse da Presidente e che il suo posto fosse preso dal politico filorusso Viktor Medvedchuk.
I negoziati sono proseguiti fino all’aprile 2022, per poi interrompersi quando sono state denunciate atrocità russe a Bucha, una città che le truppe ucraine avevano riconquistato nell’ambito della controffensiva di primavera. Ma il fatto è che un accordo non è mai stato veramente vicino.
L’ex primo ministro britannico, Boris Johnson, si è preso molte critiche per le notizie secondo cui avrebbe esortato Zelensky a non accettare l’accordo. Ma non c’è mai stata una possibilità realistica che questo accordo fosse accettabile per l’Ucraina. Un’Ucraina neutrale con una capacità militare ridotta non avrebbe modo di difendersi da eventuali aggressioni future.
Se l’Ucraina avesse fatto un accordo basato sul comunicato di Istanbul, avrebbe essenzialmente portato il paese a diventare una provincia virtuale della Russia – guidata da un governo filorusso e impossibilitata a cercare alleanze con i paesi occidentali. Per quanto riguarda l’adesione all’UE, è stata l’opposizione del Cremlino all’impegno di Kyiv con l’UE nel 2013 a provocare le proteste di Euromaidan e a portare all’annessione della Crimea da parte della Russia l’anno successivo.
Cosa aspettarsi
La firma del comunicato di Istanbul da parte di Kyiv avrebbe potuto fermare rapidamente la guerra e le uccisioni. Ma il Cremlino ha ripetutamente dimostrato di non essere affidabile sul rispetto degli accordi, basti pensare al modo in cui ha ripetutamente violato quelli di Minsk del 2015, che tentavano di porre fine alle ostilità nell’Ucraina orientale.
Inoltre, un accordo che premia l’aggressione russa acconsentendo alla presa del territorio e richiedendo la neutralità della vittima minerebbe la sicurezza globale e incoraggerebbe altri interventi illegali in politica estera.
Se l’amministrazione Trump porta avanti un progetto di un accordo di pace equo, allo stato attuale lo sta nascondendo bene. Invece, i leader europei sono stati di fronte al fatto di dover finanziare la difesa continua dell’Ucraina, affrontando al contempo un ritiro degli Stati Uniti dalle garanzie di sicurezza per l’Europa.
Oppure, come ha scritto il mio collega dell’Università di Bath Patrick Bury su X, l’Europa sarà costretta ad accettare alcune conseguenze piuttosto terribili.
L’Europa sta affrontando una crisi alla quale avrebbe potuto prepararsi dopo l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022. Con il ritorno di Trump al potere, il rapporto tra Stati Uniti ed Europa appare sempre più lacerato. Ma la stessa Europa è fortemente divisa su come affrontare la crisi.
La Gran Bretagna e la Francia hanno inizialmente parlato di fornire truppe di pace in Ucraina, ma la Germania si è rifiutata di aderire a questo piano. Sia Emmanuel Macron che Keir Starmer hanno poi ripensato all’idea, anche se il Primo Ministro britannico sembrerebbe orientato a un piano per una “forza di monitoraggio” di 30 mila uomini lontano dalla linea del cessate il fuoco.
Il Cremlino reagisce ai segnali. Mentre si stava chiaramente preparando per l’invasione alla fine del 2021, la dichiarazione di Joe Biden che non avrebbe inviato truppe per difendere l’Ucraina ha mostrato i limiti del coinvolgimento degli Stati Uniti. Il messaggio che l’Europa è pronta a inviare ora delle forze di pace in Ucraina rappresenterebbe un forte segnale a Putin – e all’amministrazione Trump – sull’intenzione di fare sul serio.
Questo articolo è una traduzione dell’originale pubblicato in inglese su The Conversation con licenza Creative Commons.