I passeggeri dei mezzi pubblici sì hanno diritto alla rivolta (corriere.it)

di Ferruccio de Bortoli
FRAMMENTI
Nella sola città di Milano, nel 2024 siamo già a dodici giornate di sciopero, di cui 9 nazionali. Ovvero la metà di un mese lavorativo. Ma i milioni di pendolari sono lavoratori anch’essi, con i loro diritti

Un altro venerdì della vergogna per il trasporto pubblico. Giorni fa il segretario della Cgil, Maurizio Landini, ha detto che vi sono oggi in Italia tutti gli ingredienti – a partire dalla perdita di potere d’acquisto dei salari e degli stipendi – per giustificare una rivolta sociale. Frase, a dir poco, infelice.

Ma chi avrebbe veramente diritto di rivoltarsi è il passeggero e viaggiatore vittima di ripetuti scioperi che ormai non hanno più fasce di garanzie.

Nella sola città di Milano, nel 2024 siamo già a dodici giornate di astensione, di cui 9 nazionali. Ovvero la metà di un mese lavorativo. E immagino che oggi (spero di essere smentito) nessun leader sindacale avrà una parola di solidarietà nei confronti di milioni di pendolari. Sono lavoratori anch’essi, con i loro diritti.

Nei giorni scorsi vi è stato un grave attentato a un controllore, al quale va tutta la nostra solidarietà. La questione sicurezza dei dipendenti delle aziende di trasporto è grave e ineludibile. Ma perché uno sciopero per condannare il gesto criminale di chi non ha pagato il biglietto ha penalizzato milioni di viaggiatori che il biglietto lo pagano regolarmente?

Vi è poi l’enorme e inaccettabile potere di piccole sigle sindacali, con pochi iscritti, di proclamare direttamente un’astensione dal lavoro, magari con poche adesioni, ma in grado di seminare incertezze e caos. Questo diritto dovrebbe essere lasciato solo alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, che hanno firmato i contratti nazionali.

Le altre accettino di sottoporre la proposta di sciopero a un referendum preventivo. Così tanto per tutelare un po’ di più i diritti dei passeggeri che nella giornata di oggi sono stati semplicemente cancellati. Come se fosse normale, inevitabile.

(Getty Images)

150.000 posti di lavoro in Germania minacciati con Trump vincente (bild.de)

di Lena Campanaro, Nils Heisterhagen

Gli esperti economici avvertono

Come i presidenti avrebbero un impatto sui portafogli dei cittadini tedeschi.

Azioni

► Trump: I mercati azionari potrebbero gioire in un primo momento. Il motivo: Trump vuole una riduzione delle imposte sulle società, il che significa maggiori profitti per gli azionisti. Il capo economista di Commerzbank, il dottor Jörg Krämer (58 anni), ha dichiarato a BILD: “Anche i proprietari tedeschi di azioni statunitensi ne trarrebbero beneficio”.

A lungo termine, tuttavia, gli svantaggi superano gli svantaggi: i dazi di Trump probabilmente provocheranno contro-dazi. “Questo potrebbe indebolire la divisione internazionale del lavoro e persino innescare una guerra commerciale”. Anche le aziende e gli azionisti tedeschi ne risentirebbero.

Una vittoria di Trump potrebbe inizialmente dare una spinta ai mercati azionari, ma avere conseguenze negative a lungo termine

(Una vittoria di Trump potrebbe inizialmente dare una spinta ai mercati azionari, ma avere conseguenze negative a lungo termine Foto: AP)

Harris: Per il democratico, è il contrario: prevede un aumento delle tasse sulle società, che inizialmente potrebbe deprimere i prezzi delle azioni. A lungo termine, tuttavia, Krämer si aspetta “più stabilità”, poiché Harris non inizieranno una guerra commerciale con noi.

Lavoro

Trump: L’IW di Colonia ha calcolato cosa significherebbero per noi i piani tariffari di Trump: se aumentasse i dazi sui prodotti europei fino al 20% e Bruxelles rispondesse con contromisure, il prodotto interno lordo della Germania potrebbe ridursi di ben 180 miliardi di euro entro il 2028.

Si tratterebbe di una media di 2170 euro in meno in ogni portafoglio. Peggio ancora, la Germania è minacciata di una perdita fino a 151.000 posti di lavoro.

Se Trump dovesse effettivamente introdurre le tariffe, sarebbe “un problema per la Germania come paese esportatore”, ha detto Krämer. L'”industria automobilistica già malconcia” ne risentirebbe in modo particolare.

Martin Moryson (Chief Economist Europe presso l’asset manager DWS) a BILD: “Anche se i dazi non arriveranno come precedentemente annunciato, sconvolgeranno gli investimenti. Le aziende attendono le loro decisioni di investimento fino a quando non avranno chiarezza. Questo può richiedere molto tempo con Trump, fino a quattro anni”.

"L'elezione di Harris non significa che la Germania possa stare a guardare", dice l'economista Krämer

(“L’elezione di Harris non significa che la Germania possa stare a guardare”, dice l’economista Krämer Foto: KENT NISHIMURA/Getty Images via AFP)

► Harris: Uno studio della Fondazione Hans Böckler avverte che se continuerà il corso del suo predecessore Joe Biden (81), potrebbe mettere a dura prova anche il mercato del lavoro tedesco. Questo perché gli Stati Uniti stanno attirando industrie ad alta intensità energetica nel paese con sussidi giganteschi.

Lo scenario peggiore: le aziende migrano. Krämer a BILD: “Questa distorsione della concorrenza rimane, non puoi ingannare te stesso”.

Quale futuro per i tuoi soldi?

Nel complesso, gli economisti di Harris si aspettano “deficit più bassi, inflazione e tassi di interesse più bassi”. L’economista Max Krahe del Future Department Institute ha detto a BILD: “Quindi i rendimenti dei risparmi rimarranno come sono ora, ma i mutui non diventeranno più costosi”.

Con Trump, d’altra parte, potrebbero esserci “deficit più alti, più crescita, più inflazione e tassi di interesse più alti”. Quest’ultimo potrebbe estendersi all’Europa, rendendo i mutui più costosi ma allo stesso tempo aumentando il rendimento dei risparmi, secondo Krahe.

Risultato

Il verdetto del capo economista di Commerzbank Krämer: “Harris sarebbe meglio per la Germania di Trump. Ma con lei non c’è il sole”.

Il disinteresse di Donald Trump per l’Africa (internazionale.it)

di

Geopolitica

Pensando al primo mandato di Donald Trump e all’Africa, la prima cosa che torna alla mente è la sua uscita sui “shithole countries”, paesi di merda.

Era l’11 gennaio 2018 e alla Casa Bianca Trump stava parlando di un nuovo pacchetto sull’immigrazione con alcuni senatori. In particolare si discuteva della proposta di garantire protezione a immigrati provenienti da Haiti, El Salvador e vari paesi africani. A quel punto Trump era sbottato: “Perché lasciamo che tutte quelle persone provenienti da paesi di merda vengano qui?”.

Pochi mesi prima Trump aveva ordinato il molto discusso travel ban (divieto di viaggiare, nei fatti un divieto di soggiornare negli Stati Uniti per un lungo periodo) ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana (tra cui Somalia e Libia), divieto che successivamente era stato esteso a chi veniva da Nigeria, Sudan, Tanzania ed Eritrea. Una volta Trump ha detto anche che i nigeriani, una volta arrivati negli Stati Uniti, “non se ne sarebbero più tornati nelle loro capanne” in Africa.

In quegli anni Trump si è interessato poco al continente – di cui non sembra avere una conoscenza approfondita, almeno a giudicare dalle sue dichiarazioni – e non ha mai compiuto una visita ufficiale in un paese africano. Anche il suo segretario di stato, Mike Pompeo, c’è andato solo due volte, in Senegal e in Etiopia.

Il presidente Joe Biden negli ultimi quattro anni non ha fatto di meglio: ha rimandato a dicembre, a fine mandato, la sua prima visita nel continente e ha scelto di recarsi in un paese, l’Angola, che non è esattamente un esempio democratico (però da lì passa una ferrovia molto strategica per gli Stati Uniti). La sua vice Kamala Harris, candidata sconfitta alle ultime elezioni, invece, c’è stata e ha scelto delle democrazie: Ghana, Tanzania e Zambia.

Reazioni contenute

Dopo la vittoria di Trump i leader di molti paesi africani – tra cui quelli di Sudafrica, Nigeria, Etiopia e Repubblica Democratica del Congo – gli hanno fatto le congratulazioni di rito. Ma il ritorno alla presidenza degli Stati Uniti suscita anche preoccupazioni, come testimoniato dal fatto che la moneta sudafricana, il rand, ha perso il 3 per cento del suo valore subito dopo l’annuncio dei vincitori delle presidenziali statunitensi.

Il timore, scrive il sito sudafricano Daily Maverick, è che con un senato controllato dal Partito repubblicano, si mettano in discussione gli accordi commerciali preferenziali con alcuni paesi africani (per esempio, quelli previsti dal trattato Agoa) o gli aiuti statunitensi al continente, cosa che avrebbe ripercussioni enormi.

L’Africa riceve la maggior parte degli aiuti esteri dagli Stati Uniti, che nell’ultimo anno affermano di aver versato 3,7 miliardi di dollari. Ma dall’America arrivano anche altri tipi di sostegno: il 7 novembre è stato annunciato inoltre che il 6 novembre gli Stati Uniti e la Somalia hanno firmato un accordo che formalizza la cancellazione di 1,14 miliardi di debiti accumulati dal paese africano verso Washington, una mossa che dovrebbe aiutare Mogadiscio a risollevarsi dagli strascichi della guerra civile.

Tornando in Sudafrica, dal punto di vista delle relazioni tra Pretoria e Washington, potrebbero esserci attriti visto che il Sudafrica fa parte dei Brics ed cerca di mantenere buoni rapporti con Russia e Cina.

Allo stesso tempo, è il paese d’origine del miliardario Elon Musk, un importante sostenitore di Trump nella sua ultima campagna, che già in passato aveva promosso teorie complottiste come quelle del genocidio dei bianchi sudafricani (questo articolo di Eve Fairbanks su The Dial spiega bene il rapporto distorto di Musk con il paese in cui è nato).

Ma il rischio più temuto è un braccio di ferro tra Stati Uniti e Cina, che potrebbe avere conseguenze importanti sia in Sudafrica sia nel resto del continente.

Allargando lo sguardo, ci si può chiedere anche come si contrapporrà la nuova amministrazione Trump alla Russia in Africa, che nel suo primo mandato non aveva ancora una presenza visibile nel Sahel e in altri paesi del continente. Offrirà più aiuti militari ai paesi minacciati dalle insurrezioni jihadiste che si sono rivolti al Cremlino, per contrastare l’avanzata russa nel continente? O lascerà fare?

Per il momento è difficile fare previsioni. Come ha detto l’analista liberiano W Gyude Moore alla Bbc, “Trump è sempre poco ortodosso in tutto ciò che fa. Quindi bisogna prepararsi a essere aperti a cose nuove, non necessariamente buone, ma di certo diverse”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

Un altro sciopero (corriere.it)

di Massimo Gramellini
IL CAFFÈ DI GRAMELLINI

Ha ragione de Bortoli: i primi che avrebbero diritto di rivoltarsi, in questo Paese, sono i milioni di cittadini costretti a subire gli effetti dei continui scioperi selvaggi del trasporto pubblico.

La logica dello sciopero è di infliggere un danno economico e di reputazione al datore di lavoro (in questo caso il governo), mentre così si finisce per rafforzarlo. So bene che in un mondo ideale dovrebbe scattare la solidarietà tra utenti e manifestanti, ma nel mondo reale (quello, per intenderci, dove vincono i Trump) ciascuno finisce per mettere davanti i propri interessi.

Puoi anche sentirti spiritualmente vicino al bigliettaio vessato e all’autista sottopagato, ma se poi lo sciopero selvaggio trasforma il tuo tragitto casa-lavoro in un’impresa epica, farai fatica a tifare per chi, pur dicendo in buona fede di voler creare un disagio a Salvini, nei fatti lo sta procurando a te.

Il diritto di sciopero è sacrosanto e intoccabile, però mi si conceda una provocazione: agli scioperanti non converrebbe affiancare forme di protesta più moderne e anche più furbe? Se ieri i mezzi pubblici avessero funzionato regolarmente ma gratuitamente, cioè se i manifestanti avessero aperto i tornelli ed evitato di controllare i biglietti, avrebbero ottenuto il loro scopo — danneggiare la controparte — senza inimicarsi la clientela.

Ci sarebbero stati strascichi legali? Sicuramente, e per qualche tempo, ma la storia insegna che ogni cambiamento comincia con un attrito e finisce con un accordo.

Il grande equivoco delle materie non-Lep (lavoce.info)

di  e 

Quattro regioni hanno chiesto maggiore autonomia 
su materie non-Lep, quelle che secondo la legge 
non dovrebbero ledere l’eguaglianza dei diritti 
civili e sociali. 

Pur nella totale mancanza di trasparenza del processo, alcuni esempi mostrano il contrario.

La trasparenza che manca sulle richieste di autonomia

Il processo di attuazione del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, innescato dalla legge 86/2024, la cosiddetta “autonomia differenziata”, avanza nell’opacità più assoluta. Persino alcuni ministri della Repubblica appaiono stupiti quando scoprono che materie di loro competenza, ad esempio la protezione civile o il commercio con l’estero, vengono ora richieste da alcune regioni.

Eppure, era ben noto che con l’entrata in vigore il 13 luglio scorso della legge 86/2024, le regioni avrebbero avuto la possibilità di iniziare immediatamente il negoziato con il governo per arrivare a una intesa sulle nove materie non-Lep, quelle cioè per le quali non è prevista la definizione di un livello essenziale delle prestazioni (Lep) che – come vuole la Costituzione – lo stato deve garantire in tutti i territori. Sappiamo, perché lo ha dichiarato lo stesso ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli, al Consiglio dei ministri, che già il 25 luglio quattro regioni – Lombardia, Veneto, Liguria e Piemonte – hanno presentato richieste di maggior autonomia in queste materie.

Non c’è traccia però dei documenti relativi né sui siti istituzionali delle regioni né tantomeno sul sito del ministero per gli Affari regionali e le autonomie. Solo nel caso del Veneto, e solo perché il presidente ha dovuto riferirne al suo Consiglio regionale il 15 ottobre, qualche riferimento più preciso a un documento con le richieste della regione è stato fatto.

Si viene così a sapere che, per esempio, il Veneto ha chiesto funzioni su tutte le materie non Lep, la Lombardia su otto, Liguria e Piemonte su sei. Continuiamo però a non sapere con esattezza quali funzioni all’interno di quali materie sono state richieste da quali regioni.

In attesa fiduciosa che, per una banale ragione di trasparenza democratica, le regioni o il ministro si decidano a pubblicare i documenti relativi, quello che si sa sul processo di devoluzione in corso è comunque sufficiente a sollecitare qualche riflessione su un aspetto finora poco discusso, ma cruciale nel dibattito sull’autonomia differenziata. Si tratta del rapporto tra materie Lep e non Lep e dall’assoluta indipendenza tra i due gruppi di materie ipotizzata nella legge 86/2024. Proviamo a spiegare perché si tratta di un punto importante.

Lep e non-Lep

L’intera architettura della legge 86/2024 si regge sulla suddivisione delle 23 materie enumerate nel comma 3 dell’articolo 117 della Costituzione (e che coprono quasi tutto lo spettro dell’intervento pubblico) in materie Lep e materie non-Lep. Su queste ultime, con l’entrata in vigore della legge, le regioni possono chiedere subito maggiore autonomia (come hanno fatto appunto le quattro regioni). Sulle altre, invece, la richiesta non può essere avanzata finché i Lep relativi non siano stati definiti e quantificati in termini finanziari.

Dietro la dicotomia c’è l’idea che i Lep devono proteggere i diritti essenziali dei cittadini. Le regioni non possono richiedere funzioni nelle materie Lep finché non si sa quali siano i livelli essenziali delle prestazioni e come debbano essere finanziati, perché altrimenti la devoluzione potrebbe minare l’eguaglianza che deve essere garantita in tutti i territori in tema di diritti civili e sociali. Un rischio che il legislatore ha escluso a priori per le materie non-Lep.

La classificazione tra materie Lep e non-Lep è stata svolta da un Comitato per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Clep), presieduto da Sabino Cassese.

La logica adottata dal Clep per distinguere i due gruppi si fonda sull’idea che vi siano materie per le quali vi è un legame diretto con la tutela di un diritto civile e sociale e quelle per le quali il legame non è immediato. Ipotizzando che la classificazione conseguente sia stata correttamente effettuata, è chiaro che la distinzione regge sul piano concettuale solo se si può introdurre una cesura netta tra i due gruppi di materie, per cui assegnare una funzione a una regione in una materia non-Lep non influenza il godimento dei diritti sociali dei cittadini in una materia Lep.

Altrimenti, la distinzione è spuria e prima di devolvere a una regione una funzione in una materia non-Lep si dovrebbe tener conto dei possibili effetti che la devoluzione ha sulle materie Lep. Come stanno allora le cose? Un paio di esempi aiutano a chiarire la questione.

Due esempi

Una cosa che sappiamo con sicurezza (perché lo ha annunciato lo stesso ministro Roberto Calderoli è che Veneto, Lombardia, Liguria e Piemonte hanno richiesto la materia “protezione civile”, cioè personale, funzioni, materiali, risorse ma anche autonomia nella regolamentazione e negli standard di servizio. Tuttavia, la protezione civile può essere funzionale a garantire materie Lep e se la devoluzione interferisce con questo processo si crea potenzialmente un problema molto serio.

Ad esempio, durante la pandemia da Covid-19, la protezione civile ha svolto un ruolo fondamentale nell’organizzazione dei servizi in funzione anti-pandemica, con in cima alla catena di comando lo stesso presidente del Consiglio dei ministri. Sarebbe stato possibile ottenere lo stesso servizio da un insieme di protezioni civili regionali, ciascuna delle quali risponde a un diverso organo politico, quale la regione? Sarà possibile farlo in futuro, con una nuova (possibile) pandemia?

Il punto importante da sottolineare qui è che, anche se si accetta che la protezione civile sia una materia non-Lep, dunque devolvibile alle regioni, la sua regionalizzazione potrebbe influenzare la capacità di offrire in modo uniforme sul territorio nazionale i servizi relativi alla “tutela della salute”, una materia invece chiaramente Lep. Allo stesso modo, potrebbe influire sulla tutela del territorio, anch’essa una materia Lep.

Leggi anche:  Quali sono i pericoli dell’autonomia differenziata

Più in generale, se la struttura organizzativa e di incentivi della protezione civile differisce da una regione all’altra, senza che siano introdotti e rispettati standard nazionali, nel caso di una emergenza, alcune regioni potrebbero non essere in grado di garantire l’organizzazione dei soccorsi, con ovvi effetti anche sul piano sanitario o di altre materie coperte dai Lep.

Che non si tratti solo di fisime teoriche, lo dimostra l’alluvione nell’area di Valencia, dove la protezione civile è regionalizzata, e dove si sono verificati ritardi nell’organizzazione dei soccorsi e rimpalli di responsabilità tra il governo centrale e quello regionale.

Il secondo esempio fa riferimento alla materia“Coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, definita non-Lep dal Comitato Cassese. Pare certo che in questa materia almeno una regione si prepari a chiedere autonomia legislativa e amministrativa sul tributo speciale in materia di rifiuti, con la facoltà di definire i soggetti passivi, l’importo del tributo, le eventuali detrazioni o deduzioni e così via.

Il diavolo sta nei dettagli ma, di nuovo, pare evidente che decisioni autonome di una regione in questo contesto potrebbero essere in contrasto con la legislazione nazionale o europea sulla materia “Valorizzazione dei beni culturali e ambientali”, cioè la protezione dell’ambiente, che è invece secondo il Clep una materia Lep.

La decisione sugli importi da pagare nel caso in cui si utilizzino discariche o impianti di incenerimento obsoleti, ovviamente, influenza il livello di inquinamento del territorio, su cui il Clep ha invece richiesto che ci siano standard, uniformi a livello nazionale, da rispettare.

I due esempi (se ne potrebbero fare anche molti altri) suggeriscono che la distinzione tra materie Lep e non-Lep, su cui si regge tutto il percorso di devoluzione immaginato dalla legge 86/2024, sia nei fatti molto fragile e non regga alla prova dei fatti. Esistono ovvie complementarità tra materie definite Lep e non-Lep.

Ma se le materie non-Lep influenzano il rispetto dei Lep in altri campi, come si può separare l’attribuzione delle prime dalle seconde? Il rischio del pasticcio istituzionale, del rimpallo di responsabilità e della montagna dei ricorsi alla Corte costituzionale è dietro l’angolo.

Forse conviene ripensarci, finché si è in tempo.