Scoperti al centro (corriere.it)

di Paolo Mieli

Spiegava ieri Marco Imarisio su queste pagine 
quanto siano stati determinanti, per l’elezione 
di Marco Bucci a governatore della Liguria, i 
voti provenienti da Imperia. 

Imperia è feudo di Claudio Scajola già ministro berlusconiano del centrodestra ma prima ancora esponente della Dc.

Partito dello scudo crociato che in questa parte della regione fu fondato, nel secondo dopoguerra, dal padre di Scajola, Ferdinando. Scajola era stato tutt’altro che un simpatizzante di Giovanni Toti. Ma, nel momento del bisogno, è corso in aiuto al suo successore. Come insegnavano i comandamenti di Piazza del Gesù (che fu a Roma la sede nazionale della Democrazia cristiana).

Mentre Scajola mobilitava i suoi a sostegno di Bucci, sul fronte opposto Andrea Orlando veniva costretto — da Giuseppe Conte con l’assenso non entusiasta dei vertici del Pd — ad epurare le proprie liste da esponenti renziani, accusati di aver collaborato, nella stagione che si è appena chiusa, con Bucci sindaco di Genova.

Ma che ora lo avevano lasciato ed erano tornati a sinistra. Cose che capitano in politica: qualche anno fa capitò anche a Conte e ai grillini di lasciare Matteo Salvini (in realtà era stato lui a lasciarli) per unirsi in matrimonio con Nicola Zingaretti.

M a se non è considerata una colpa passare dall’abbraccio con Salvini a quello con Zingaretti, che genere di reato è quello di mollare Bucci per Orlando? Il fatto è un altro. L’ex democristiano ed ex presidente del Consiglio Matteo Renzi è tenuto nel conto di una bestia nera da Conte e da una fetta di dirigenti del partito del quale, pure, fu segretario.

Dirigenti che, all’epoca in cui lui era al timone, uscirono dal Partito democratico e fondarono un gruppo che, elezioni dopo elezioni, conquistò una quantità di voti non dissimile da quella di cui dispone oggi Renzi. Sostengono, Conte e quei reduci, che solo a sentire il nome di Renzi molti elettori scappano e pochi se ne aggiungono. Esibiscono a riprova di ciò sondaggi, accompagnati da studi politologici e racconti di manifestazioni antirenziane alle feste dell’«Unità».

Lungi da noi voler prendere le difese di Renzi. Può darsi che Conte e i revenants di «Articolo Uno» abbiano ragione. Ma allora non si capisce come mai essi stessi abbiano accettato che rappresentanti di quel «demone!» compaiano nelle liste Pd presentate alle elezioni regionali in Umbria ed Emilia. Elezioni che si terranno non tra anni ma tra una ventina di giorni.

La storia della sinistra che deriva dal Pci è piena di mostrificazioni del genere. Moltissime hanno avuto come bersaglio i socialisti. Ma la più celebre fu quella che riguardò Lev Trotzki (per carità: nessun paragone con Renzi) elevato da Stalin a simbolo di ogni male. E da lui fatto uccidere in Messico: nel 1940, con un colpo di piccone alla nuca.

La mostrificazione durò poi ben più a lungo della sua eliminazione fisica. Oltre anche alla morte di Stalin (1953) e alla denuncia di Chruscev dei crimini del terribile georgiano (1956). Tant’è che, quando l’uccisore di Trotzki, Ramón Mercader, si recò nel 1961 a Mosca, fu accolto da Chruscev con tutti gli onori. E persino Pietro Ingrao, grande eretico della storia del Pci, raccontava divertito d’essere stato negli anni Sessanta accusato di trotzkismo.

In piccolo — molto, molto più piccolo — la storia si ripete con Renzi. Parte degli attuali dirigenti «riformisti» del Pd (ridotti ormai a sparuta minoranza), ad ogni manifestazione di fedeltà ai valori dell’atlantismo o a quelli dell’economia di mercato, sono costretti a difendersi dall’accusa di «cripto renzismo».

E, reato dei reati, d’aver preso parte al «golpe» che portò al governo Mario Draghi. Al più — se proprio si vuol volgere lo sguardo al centro — contiani e reduci di «Articolo Uno» concedono che sia offerta qualche poltroncina agli amici di Carlo Calenda e di Emma Bonino.

Fin qui Elly Schlein è stata al gioco. Sotto la sua guida il partito vola (è accaduto anche due giorni fa). Forse anche solo per il fatto che non assomiglia in nulla a chi l’ha preceduta. Ma attorno al Pd si va facendo il deserto. Non a sinistra dove il partito di Fratoianni e Bonelli — in tutto e per tutto sovrapponibile ai Cinque stelle, con una storia alle spalle, però, di maggiore linearità — va crescendo di elezione in elezione.

Il problema è alla destra di Schlein, dove il patrimonio degli ex democristiani e dei cosiddetti partiti laici è andato disperso. A sinistra non ci sono gli Scajola. Ogni tanto Goffredo Bettini propone di dedicare all’«operazione Lazzaro», cioè all’impresa di resuscitare il «centro», qualche personalità del passato: Paolo Gentiloni, Francesco Rutelli. Ma loro con gentilezza lasciano cadere l’invito. Chissà se qualcuno al Nazareno si è accorto che lasciare alla destra l’intero spazio del centro è rischioso?

A volte, come si è visto, nelle elezioni a turno unico, un pugno di voti può fare la differenza. E le elezioni politiche sono a turno unico.

Perché la Cina non rinuncerà a un modello economico fallimentare (foreignaffairs.com)

di 

Pechino potrebbe vedere guadagni a breve termine, 
ma ignora il rischio di sofferenze a lungo termine

Alla fine di settembre, dopo mesi di mancato raggiungimento degli obiettivi di crescita post-pandemia, il governo cinese ha iniziato a lanciare un’ampia serie di misure di stimolo economico.

Finora, questi hanno incluso il sostegno del mercato azionario, l’allentamento della politica monetaria, la ricapitalizzazione delle grandi banche statali e alcuni stimoli fiscali limitati.

L’importo totale e le specifiche dello stimolo fiscale saranno rivelati dopo le elezioni statunitensi, dopo la riunione del Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo all’inizio di novembre, ma il vice ministro delle Finanze Liao Min lo ha descritto come “su larga scala”.

Svelando queste misure, Pechino ha finalmente riconosciuto ciò che il popolo cinese e il mondo sanno da tempo: l’economia cinese è in guai seri. Il “sogno cinese” – la visione del presidente cinese Xi Jinping di raddoppiare le dimensioni dell’economia entro il 2035 e raggiungere una prosperità su larga scala – sta scivolando via. Ma lo stimolo funzionerà?

La sfida economica più urgente per la Cina a breve termine è la debole domanda interna, trainata dalla mancanza di fiducia dei consumatori. Quando i consumatori cinesi si rifiutano di spendere, accumulano liquidità, creando un eccesso di risparmio che, insieme all’eccesso di investimenti del governo in industrie politicamente favorite, aggrava il problema strutturale più grave a lungo termine della Cina: l’eccesso di capacità industriale.

Come ho sostenuto su Foreign Affairs ad agosto, le dinamiche che si rafforzano a vicenda tra il calo della domanda interna e l’eccesso di capacità industriale formano un circolo vizioso economico da cui la Cina deve uscire per evitare la stagnazione. La leadership cinese afferma che l’ultimo stimolo ha lo scopo di stimolare i consumi.

Escludendo in gran parte l’assistenza diretta alle famiglie come parte dei suoi piani di stimolo, tuttavia, il governo ha dimostrato di essere ancora aggrappato al suo vecchio copione economico di investimenti diretti dallo Stato.

Al centro del problema della domanda cinese c’è una crisi di fiducia derivante dalle ansie dei cinesi comuni riguardo alla loro situazione economica e al loro futuro.

Nel 2017, l’anno in cui Xi ha iniziato il suo secondo mandato e ha rafforzato la sua presa sull’economia, le famiglie urbane stavano godendo dei frutti di decenni di forte crescita, con il reddito disponibile che raddoppiava circa ogni otto anni. Per le giovani famiglie di oggi, quei giorni felici sono finiti. Entro il 2024, il reddito medio disponibile era aumentato solo del 50% dal 2017, un drastico rallentamento rispetto all’era precedente, e la tempistica per raddoppiarlo di nuovo si è allungata a circa 15 anni.

Questo rallentamento significa un passaggio dalle aspettative un tempo incrollabili di opportunità economiche a una nuova realtà caratterizzata da una crescita moderata e da pressioni crescenti. Invertire l’attuale traiettoria della Cina richiederebbe a dir poco una macchina del tempo, e i piani di stimolo in discussione non forniscono il tipo di sostegno finanziario a livello familiare necessario per ripristinare la fiducia nel futuro della Cina.

GUAI IRRISOLTI

Le recenti misure di stimolo di Pechino sembrano mirare principalmente a ripristinare la fiducia tra l’élite imprenditoriale del paese. La People’s Bank of China sta adottando una strategia simile all’approccio di quantitative easing della Federal Reserve, concentrandosi sui prezzi degli asset finanziari nella speranza di generare un effetto ricchezza che si ripercuote sull’economia in generale.

La PBOC ha stabilito due meccanismi, entrambi progettati per iniettare liquidità nei mercati e sostenere i prezzi degli asset finanziari più rischiosi come azioni, obbligazioni societarie e fondi negoziati in borsa. Il primo è un programma governativo da 70 miliardi di dollari che consente agli investitori istituzionali – principalmente i broker statali e le compagnie assicurative note come “squadra nazionale” – di acquistare attività finanziarie rischiose e successivamente scambiarle con titoli di Stato di alta qualità.

Queste obbligazioni possono quindi essere ricostituite come garanzia per prestiti bancari, garantendo di fatto al team nazionale l’accesso a finanziamenti economici della banca centrale per acquisire attività e sostenere i prezzi. La PBOC ha implementato un programma simile nel 2015 per stabilizzare il mercato azionario dopo che i prezzi sono scesi di oltre il 40% in pochi mesi.

Il secondo meccanismo è un programma di rifinanziamento da 42 miliardi di dollari progettato per estendere i prestiti alle società quotate in borsa, consentendo loro di utilizzare i proventi per riacquistare le loro azioni sul mercato azionario, funzionando essenzialmente come un dividendo che aumenta i rendimenti per gli azionisti. I funzionari cinesi sperano che ciò fornisca carburante continuo per un rally del mercato azionario; da metà settembre i prezzi delle azioni sono aumentati di circa il 25 per cento.

Nonostante questi sforzi, è improbabile che il quantitative easing della PBOC con caratteristiche cinesi risolva i problemi economici più ampi della Cina, perché fa relativamente poco per stimolare la domanda effettiva dei consumatori. Tra i limitati sostegni diretti alle famiglie vi sono le nuove normative che consentono ai mutuatari di rifinanziare i loro mutui, consentendo loro di beneficiare di una recente riduzione di mezzo punto percentuale del tasso di riferimento sui mutui ipotecari.

Si prevede che questo cambiamento farà risparmiare a circa 50 milioni di famiglie, per un totale di circa 21 miliardi di dollari all’anno, in pagamenti di interessi più bassi.

Inoltre, le autorità locali hanno ridotto l’acconto richiesto per l’acquisto di una seconda casa come parte degli sforzi per eliminare l’inventario in eccesso dal mercato e fornire un sostegno ai prezzi delle case. Dato che l’edilizia abitativa rappresenta circa il 70% del patrimonio delle famiglie cinesi e che i mutui rappresentano circa il 75% del debito delle famiglie, qualsiasi misura volta a stabilizzare i prezzi delle case e a diminuire i costi di finanziamento è probabile che rafforzi i bilanci delle famiglie.

Stabilire un livello minimo sotto i prezzi delle case è un primo passo fondamentale per ripristinare la fiducia dei consumatori cinesi nelle loro prospettive finanziarie a lungo termine.

Ad oggi, i principali responsabili politici cinesi sono stati notevolmente riluttanti a discutere anche solo di trasferimenti diretti di denaro ai consumatori ordinari. Ciò è probabilmente dovuto alla limitata esperienza politica del governo in questo settore e alla diffidenza da parte dei funzionari economici di Pechino nel segnalare qualsiasi cambiamento di politica senza una direzione esplicita da parte di Xi.

Eppure l’infrastruttura finanziaria cinese è ben preparata per facilitare uno stimolo diretto alle famiglie. La maggior parte delle buste paga e delle prestazioni di sicurezza sociale sono già collegate ai conti di deposito presso le banche commerciali statali, rendendo le ricariche dei saldi operativamente semplici.

A MODO MIO O IN AUTOSTRADA

Xi non è contrario a brusche inversioni di politica, come dimostrato dal suo improvviso abbandono della politica “zero COVID” alla fine del 2022 e dalle sue iniziative economiche mutevoli durante il suo mandato. Eppure una costante della sua leadership è stata la sua avversione per l’elemosina in denaro, che, ha suggerito, potrebbe consolidare uno stato sociale.

Ha messo in guardia i membri del partito dal “cadere nella trappola del ‘welfarismo’ che nutre i pigri”. La retorica di Xi non dovrebbe essere interpretata erroneamente come l’approvazione di un’ideologia di robusto individualismo in Cina. Piuttosto, il suo approccio dall’alto verso il basso alla governance privilegia l’unità ideologica rispetto alle concessioni populiste e favorisce gli investimenti guidati dallo Stato rispetto al sostegno fiscale individuale.

Xi ha chiarito che la sua priorità assoluta è trasformare la Cina in una superpotenza globale autosufficiente. Mira a essere il leader che si lascia definitivamente alle spalle il “secolo di umiliazione” della Cina, un riferimento alla lunga era in cui la Cina percepiva la sottomissione alle potenze occidentali.

In questo contesto, l’attuale obiettivo di crescita del PIL del governo di circa il 5% e il pacchetto di stimolo che ha annunciato per contribuire a raggiungerlo sono solo mezzi per raggiungere un fine. Al contrario, uno stimolo diretto alle singole famiglie sposterebbe il potere d’acquisto dal governo ai consumatori, lasciando potenzialmente meno risorse per le grandi ambizioni di Xi e dandogli meno controllo sulla direzione generale del paese.

Gli annunci del governo in merito al pacchetto di stimolo hanno deliberatamente enfatizzato la retorica sui sostanziali cambiamenti politici volti ad aumentare i consumi. Questo approccio è in linea con l’obiettivo di Xi di aumentare la fiducia nell’economia senza distogliere risorse dal perseguimento dell’autosufficienza cinese.

Il capitale iniettato nel sistema finanziario per sostenere i prezzi delle azioni e stabilizzare le banche sarà probabilmente reindirizzato verso le stesse industrie strategiche che dovrebbero consentire alla Cina di scavalcare gli Stati Uniti in tecnologia e capacità militari.

Il pacchetto di stimolo di Xi non affronta i problemi strutturali più profondi della Cina.

Il sistema “dell’intera nazione” per gli investimenti tecnologici garantisce che tutti i grandi bacini di capitale possano essere mobilitati per ottenere scoperte in aree critiche come l’intelligenza artificiale, i semiconduttori e i motori aeronautici.

A differenza di un vero e proprio pacchetto di stimolo per i consumi, l’attuale serie di misure sembra avere un secondo fine: rafforzare la capacità della Cina di superare l’Occidente economicamente e militarmente. Allo stato attuale, la direzione politica articolata nei dettagli del pacchetto di stimolo fornisce ai governi occidentali pochi incentivi a riconsiderare le barriere commerciali o ad allentare i controlli sulle esportazioni in Cina.

L’entità potenziale delle elargizioni di denaro alle famiglie è limitata dalla posizione finanziariamente tesa dei governi locali cinesi. Pechino si è impegnata ad aiutare offrendo swap del debito per rifinanziare il debito ad alto costo e a breve termine che grava su molte amministrazioni locali.

I bilanci locali sono stati schiacciati dalla riduzione delle entrate derivanti dalla vendita di terreni a causa della flessione del mercato immobiliare, dei costi sanitari pubblici residui legati alla pandemia e dell’aumento delle spese di assistenza sociale legate all’invecchiamento della popolazione. Per molti funzionari locali, il raggiungimento del progresso industriale e la garanzia della sicurezza della catena di approvvigionamento hanno la precedenza sullo stimolo della spesa dei consumatori.

Se Pechino dovesse perseguire pagamenti diretti in contanti alle famiglie, si troverebbe di fronte alla sfida di bypassare le autorità locali, che potrebbero dirottare una parte dei fondi. I trasferimenti diretti dal governo centrale alle casse locali rischiano una cattiva allocazione o addirittura un’appropriazione indebita, limitando l’efficacia pratica dei trasferimenti di reddito delle famiglie come stimolo. Senza una supervisione eccezionale, questi pagamenti potrebbero raggiungere le famiglie solo in piccole quantità, gocciolando come gocce da un rubinetto che perde.

UN GIOCO DI FIDUCIA DIVERSO

Il recente pacchetto di stimoli potrebbe effettivamente raggiungere gli obiettivi a breve termine di Pechino: un rally del mercato azionario con capacità di resistenza, un mercato immobiliare stabilizzato, un aumento temporaneo della fiducia dei consumatori e una crescita del PIL del cinque per cento per il 2024.

Tuttavia, non affronta i problemi strutturali più profondi della Cina ed è improbabile che spinga le famiglie a spendere di più a lungo termine. Il governo non sembra disposto a intraprendere le misure coraggiose necessarie, come il sostegno diretto al reddito delle famiglie, che potrebbero portare a un significativo riequilibrio economico.

Invece, gran parte degli ultimi stimoli sembrano volti a puntellare i punti più deboli dell’economia quel tanto che basta per segnalare che il partito non ha abbandonato il suo ruolo di buon amministratore dell’economia e rimane impegnato a sostenere la fine del contratto sociale cinese.

Senza una crescita del reddito più forte, le famiglie cinesi continueranno a risparmiare a tassi ostinatamente elevati. Anche se il recente stimolo si rivelerà sorprendentemente efficace, il declino demografico della Cina e le crescenti tensioni geopolitiche con l’Occidente suggeriscono che le prospettive economiche a lungo termine del paese rimarranno incerte.

Da quando sono iniziati i lockdown dell’era della pandemia, la classe media cinese ha sperimentato una persistente insicurezza economica, una percezione che potrebbe richiedere anni per essere scossa.

Negli ultimi quattro decenni, l’economia cinese ha vissuto forse il periodo di crescita più straordinario della storia umana. Nel 1981, oltre il 90% della popolazione cinese viveva in condizioni di povertà così gravi come nelle regioni meno sviluppate del mondo. Oggi, oltre la metà della popolazione appartiene alla classe media, con un tenore di vita paragonabile a quello di molte nazioni sviluppate.

Eppure, in un certo senso, i cinesi della classe media non si sono mai sentiti così poveri. La sensazione di essere in ritardo rispetto alla qualità della vita dei loro coetanei è aumentata e le opportunità per i loro figli di raggiungere la ricchezza e studiare all’estero sembrano più fuori portata.

Per la prima volta dopo le riforme economiche in Cina, molte famiglie temono che il domani potrebbe non essere migliore di oggi, non a causa di fallimenti personali, ma a causa di forze al di fuori del loro controllo. I giovani adulti che entrano nel mondo del lavoro si sentono impotenti e un numero crescente di loro si sente incapace di iniziare una carriera redditizia, con una disoccupazione giovanile che supera il 17%.

Le giovani famiglie devono affrontare una pressione incessante solo per mantenere il loro tenore di vita. Le visite ai templi buddisti sono aumentate di oltre il 300% l’anno scorso, suggerendo che sempre più persone si rivolgono alle superstizioni per avere fortuna per assicurarsi il proprio futuro. Sempre più spesso, molti cinesi sembrano riporre più fiducia nelle offerte del tempio o negli amuleti che nelle assicurazioni del partito di una prosperità comune.

La prossima amministrazione statunitense dovrà affrontare una Cina alle prese con un rallentamento della crescita economica, una classe media inquieta e un leader che sembra più impegnato a costruire un esercito di livello mondiale che una società prospera.

Questa complessa situazione richiede una strategia cinese che valuti realisticamente le capacità e i limiti di Xi, non solo le sue ambizioni. Sebbene i comuni cittadini cinesi possano avere un potere d’azione limitato, collettivamente possono esercitare una pressione economica su Pechino. Stringendo i loro portafogli e dando priorità ai risparmi, esprimono di fatto un silenzioso ma potente voto di sfiducia nella direzione del paese.

Se le condizioni economiche in Cina continuano a deteriorarsi, Xi potrebbe cambiare repentinariamente, forse ammorbidendo il suo antagonismo verso l’Occidente. Mentre osserva l’evolversi degli stimoli cinesi e la probabile incapacità di Pechino di risolvere i problemi economici di fondo del paese, Washington dovrebbe evitare di fissarsi così tanto sulla minaccia percepita dalla Cina da trascurare le potenziali opportunità di ridefinire le relazioni USA-Cina in futuro.

(Una vista del distretto finanziario di Pudong a Shanghai, Cina, settembre 2024 Tingshu Wang / Reuters)

La sfida BRICS all’Occidente e l’Europa grande assente (romanoprodi.it)

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 
del 26 ottobre 2024

A Kazan, la città sacra al popolo russo che si trova tra Mosca e gli Urali, è terminato il vertice dei Brics: un gruppo di paesi che originariamente comprendeva, come dice l’acronimo, Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Un gruppo a cui si sono aggiunti e si stanno aggiungendo tanti altri paesi, fra i quali Etiopia ed Egitto e alla cui porta si sta affacciando, insieme a Indonesia e Messico, persino la Turchia, che pure è membro della NATO.

Tutti insieme raggiungono il 45% della popolazione mondiale, oltre quattro volte quella dei G7, mentre il loro Prodotto Interno lordo si colloca intorno al 30% del totale mondiale, sostanzialmente simile a quello dei G7.

La presenza di tutti i maggiori responsabili politici di queste nazioni, da Putin a Xi Jinping, con la sola eccezione di Lula infortunato, ha creato grande attesa fra tutti gli osservatori, naturalmente divisi fra coloro che vedono nella grande diversità di natura e di interessi dei paesi partecipanti un limite invalicabile per il successo dei Brics allargati, e coloro che ne vedono invece l’embrione di una grande nuova alleanza di carattere mondiale.

Se guardiamo alle conclusioni concrete e al comunicato finale non vi sono certo novità eclatanti perché non si è concluso, e non si poteva concludere, nessun accordo immediatamente operativo fra paesi così eterogenei.

Tra India e Cina vi sono infatti tensioni non solo commerciali, ma anche territoriali, mentre Brasile e India non si oppongono agli Stati Uniti come, invece, vi si oppongono Cina e Russia.

E potremmo continuare constatando che l’India compera petrolio e armi dalla Russia mentre, nello stesso tempo, si schiera in un’alleanza militare con gli Stati Uniti, l’Australia e il Giappone, un’alleanza esplicitamente dedicata a contenere la Cina. Il che non è un problema di poco conto.

La Cina, infatti, gioca un ruolo dominante nel consesso dei Brics , dato che il suo PIL, da solo, pesa per il 60% del Prodotto Interno Lordo di tutti i paesi che oggi partecipano a questo grande consesso. Il rafforzamento del gruppo dei Brics comporta quindi automaticamente la crescita dell’influenza di Pechino su tutta l’economia e la politica del pianeta.

In questo contesto nessuno poteva illudersi che il vertice di Kazan cambiasse l’esistente ordine mondiale e nemmeno mettesse le basi per un futuro cambiamento.

Il vertice, tuttavia ha raggiunto alcuni obiettivi non certo trascurabili per i leader che vi erano presenti. In primo luogo, dato l’elevato e qualificato numero dei partecipanti e i numerosi incontri bilaterali dei quali è stato protagonista, Putin è riuscito, almeno in parte, a dimostrare di non essere solo e isolato di fronte agli Stati Uniti e ai suoi alleati occidentali, ma al contrario ha potuto mostrare di avere molti amici e molti paesi aperti al dialogo.

In questo suo disegno ha persino contato sulla presenza del Segretario Generale delle Nazioni Unite che, partecipando al vertice di Kazan, ha ovviamente provocato una risentita disapprovazione da parte dell’Ucraina.

In secondo luogo, le differenze che pur esistono fra i paesi presenti a Kazan non hanno impedito il consolidarsi di un condiviso malcontento nei confronti delle grandi istituzioni finanziarie internazionali, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, accusate di favorire gli interessi dell’Occidente contro tutti i paesi emergenti.

Su questo tema l’accordo è così ampio da rendere doverosa un’approfondita riflessione sulla necessità di riformare queste importantissime istituzioni per adeguarle ai grandi cambiamenti della politica e dell’economia mondiale.

Ovviamente a Kazan non è nata, come qualche paese partecipante sperava, la moneta dei Brics da contrapporre al dollaro, oggi e ancora per molto tempo dominante, ma si è cominciato ad operare per creare un sistema dei pagamenti internazionali alternativo a quello esistente interamente controllato dagli americani.

Sembrerebbe un problema puramente tecnico, ma questo sistema (chiamato Swift) è stato l’unico strumento veramente efficace per potere applicare le sanzioni nei confronti dei paesi, delle banche e delle imprese che hanno rapporti finanziari con la Russia. A questo si è aggiunta, anche se con scarsa possibilità di essere messa in atto in un tempo prevedibile, la proposta di creare a Mosca un grande mercato dei cereali capace di fare concorrenza a quello di Chicago.

A Kazan, quindi, non è cominciata nessuna concreta rivoluzione, ma con la convergenza di un grande numero di paesi e con la presenza dei leader politici di mezzo mondo, si è certamente accentuata la divisione fra l’Occidente e il resto del mondo. Naturalmente i maggiori frutti di quest’evoluzione non potrà che raccoglierli la Cina, che ha compiuto un ulteriore passo in avanti nella sua strategia di presentarsi come il grande protettore di tutto il sud del pianeta, dall’Asia all’Africa, fino all’America Latina.

L’ormai lunga tensione fra Cina e Stati Uniti si sta quindi ancora più trasformando, proprio come vuole la Cina, in una sfida fra l’Occidente e il resto del mondo, senza che vi sia in corso una qualsiasi azione di mediazione o di composizione. E’ purtroppo doveroso constatare che in tutto questo grande processo di cambiamento il ruolo dell’Europa è inesistente.

Anche a Kazan l’Europa non c’era.

Incremento Fondo sanitario. Meloni a Porta a Porta: “Sto a sbaglià tutti i conti”. Ecco perché il presidente del Consiglio ha ragione (quotidianosanita.it)

di Giovanni Rodriquez

Con uno stanziamento di 136,5 miliardi, nel 2025 
la spesa sanitaria sul Pil si dovrebbe intorno 
al 6,3%, al di sotto della media Ocse 
del 2022 (7%). 

Al netto del simpatico siparietto del presidente del Consiglio, calcolatrice alla mano e calcoli sbagliati, il dato fornito parla di un incremento di 391 euro di spesa pro capite tra il 2019 e il 2025.

Manca però il confronto col resto d’Europa. Anche non considerando gli incrementi degli altri Paesi, la spesa pro capite italiana si collocherebbe comunque sotto la media europea visto il gap di 873 dollari registrato dall’Ocse nel 2022

Per il 2025, grazie alla legge di Bilancio, ci saranno in tutto 136,5 miliardi per la sanità. A confermarlo nuovamente è il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ieri sera ospite di Porta a Porta su Rai Uno. Rispetto all’anno precedente, ricorda correttamente Meloni, ci sarà dunque un incremento del Fondo sanitario nazionale di circa 2,5 miliardi.

A questa cifra, ricordiamolo, si arriva sommando agli 1,3 miliardi stanziati dall’articolo 47 della manovra varata nei giorni scorsi dal Consiglio dei Ministri, l’importo già previsto dalla precedente manovra. La spesa sanitaria sul Pil si dovrebbe così come confermare, come annunciato dallo stesso governo, intorno al 6,3%.

Se, come spiega Meloni calcolatrice alla mano, rispetto al 2019 ci sono oggi 22 miliardi in più sul Fondo sanitario nazionale rispetto ai 114,7 miliardi del 2019, resta invece pressoché invariata la spesa sanitaria sul Pil che, sempre nel 2019, si attestava al 6,4%.

Considerando l’incidenza sul Pil, in base ai dati Ocse, la spesa sanitaria pubblica italiana è stata nel 2022 (ultimo anno di rilevamento) pari al 6,8%, superiore a quella del Portogallo (6,7%) e della Grecia (5,1%), ma inferiore di ben 4,1 punti percentuali rispetto a quella tedesca (10,9%), di 3,5 punti rispetto a quella francese (10,3%), di 2,5 punti rispetto al Regno Unito (9,3%), e inferiore di mezzo punto anche rispetto a quella spagnola (7,3%). L’Italia si collocava dunque al di sotto della media Ocse (7%).

Anche l’investimento relativo al 2025 di certo non è quindi l’importante investimento di rilancio del Ssn che si vuole far intendere. Il “record” di stanziamenti sbandierato dal Governo in questi giorni lascia il tempo che trova visto che negli ultimi quindici anni, tranne in due casi, tutti gli anni il Fondo sanitario è cresciuto segnando un nuovo “record” di stanziamenti rispetto all’anno precedente.

Il confronto di spesa 2019-2025 fatto da Meloni dovrebbe poi tenere conto di alcuni elementi chiave quali le spese sostenute per far fronte ad una pandemia globale, l’invecchiamento progressivo della popolazione con l’incremento della domanda di salute, gli accantonamenti per i rinnovi dei contratti del settore e, soprattutto, la crescita dell’inflazione che ha ridotto pesantemente il potere d’acquisto.

Passiamo poi al dato riguardante la spesa pubblica pro capite. Qui Meloni, sempre calcolatrice alla mano, ha provato a fare un calcolo confondendo i dati dei diversi anni: “Sto a sbaglià tutti i calcoli, dai. Ho fatto un casino!”. Al netto del simpatico siparietto, il dato fornito dal presidente del Consiglio parla di un incremento di 391 euro pro capite. Manca però il confronto col resto d’Europa. Facciamolo noi con i dati Ocse per contestualizzare questi dati.

La spesa sanitaria pubblica pro capite, a parità di potere d’acquisto, espressa in dollari statunitensi, l’unità di misura adottata dall’Ocse, in Italia nel 2019 era di 2629,24. Un dato ben inferiore rispetto ai 3479,87 del Regno Unito, ai 4314,28 della Francia e ai 5.389,89 della Germania.

Al 2022, ultimo rilevamento Ocse, la spesa sanitaria pro capite, a parità di potere d’acquisto, in Italia è stata di 3.255 dollari inferiore del 53% a quella della Germania (6.930), del 42% rispetto a quella della Francia (5.622) e del 27,3% rispetto al Regno Unito. Il gap della spesa sanitaria pubblica pro capite italiana, a parità di potere d’acquisto, era di 873 dollari nel 2022 rispetto alla media europea.

Pur tenendo conto degli incrementi di spesa attuati dal governo italiano, ed anche senza considerare quelli che riguardano gli altri Paesi europei, l’Italia continuerebbe comunque a confermasi ad un livello di spesa pro capite a parità di potere d’acquisto inferiore rispetto alla media europea.