di Mario Spada
La pandemia ha portato una vera separazione sociale e generazionale. Ma ha generato inediti episodi di collaborazione che possono portare a nuove comunità
Il distanziamento fisico imposto dal Covid-19, impropriamente chiamato distanziamento sociale, ha assunto con il tempo il suo reale significato di separazione sociale e generazionale, contrapponendo garantiti e precari, occupati e disoccupati, abili e disabili, vecchi e giovani, bambini e adulti.
La pandemia ha cancellato ogni ipocrisia linguistica: archiviata la parola “anziani”, i vecchi sono chiamati vecchi, sono apparsi deboli e vulnerabili, da chiudere in casa a tempo indeterminato secondo alcuni, vittime prescelte dal virus che ha imperversato nelle Residenze sanitarie assistenziali (RSA) e nelle case di riposo. “Questo vecchietto dove lo metto” cantava Domenico Modugno, quando la trasformazione industriale del Paese aveva smembrato la famiglia patriarcale contadina e fatto esplodere soprattutto nelle grandi aree urbane il problema della sopravvivenza e cura degli anziani.
Negli ultimi anni in Italia si è registrato il fenomeno della proliferazione delle badanti che non ha altra spiegazione se non quella che ognuno si deve arrangiare per conto proprio in assenza di un welfare efficace.
La pandemia ha svelato a tutti ciò che molti già sapevano: le RSA e le case di riposo non sono la soluzione ma il problema. Lo hanno capito da tempo alcuni Paesi come la Danimarca, che fin dal 1986 ha proibito la costruzione di nuovi istituti per anziani con la conseguenza che i posti letto si sono ridotti da 36.000 a 8.000 tra il 1996 e il 2010, mentre i posti letto in soluzioni abitative sono passati da 22.000 a 71.000.
Soluzioni abitative che si configurano in vario modo, dalla casa famiglia al condomino nel quale ciascuno vive nel suo piccolo appartamento e usufruisce di servizi comuni. Ma quasi sempre anche le nuove soluzioni abitative sono caratterizzate da una netta prevalenza di persone anziane escluse dalla vita reale … leggi tutto