La sfida BRICS all’Occidente e l’Europa grande assente (romanoprodi.it)

Articolo di Romano Prodi su Il Messaggero 
del 26 ottobre 2024

A Kazan, la città sacra al popolo russo che si trova tra Mosca e gli Urali, è terminato il vertice dei Brics: un gruppo di paesi che originariamente comprendeva, come dice l’acronimo, Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa. Un gruppo a cui si sono aggiunti e si stanno aggiungendo tanti altri paesi, fra i quali Etiopia ed Egitto e alla cui porta si sta affacciando, insieme a Indonesia e Messico, persino la Turchia, che pure è membro della NATO.

Tutti insieme raggiungono il 45% della popolazione mondiale, oltre quattro volte quella dei G7, mentre il loro Prodotto Interno lordo si colloca intorno al 30% del totale mondiale, sostanzialmente simile a quello dei G7.

La presenza di tutti i maggiori responsabili politici di queste nazioni, da Putin a Xi Jinping, con la sola eccezione di Lula infortunato, ha creato grande attesa fra tutti gli osservatori, naturalmente divisi fra coloro che vedono nella grande diversità di natura e di interessi dei paesi partecipanti un limite invalicabile per il successo dei Brics allargati, e coloro che ne vedono invece l’embrione di una grande nuova alleanza di carattere mondiale.

Se guardiamo alle conclusioni concrete e al comunicato finale non vi sono certo novità eclatanti perché non si è concluso, e non si poteva concludere, nessun accordo immediatamente operativo fra paesi così eterogenei.

Tra India e Cina vi sono infatti tensioni non solo commerciali, ma anche territoriali, mentre Brasile e India non si oppongono agli Stati Uniti come, invece, vi si oppongono Cina e Russia.

E potremmo continuare constatando che l’India compera petrolio e armi dalla Russia mentre, nello stesso tempo, si schiera in un’alleanza militare con gli Stati Uniti, l’Australia e il Giappone, un’alleanza esplicitamente dedicata a contenere la Cina. Il che non è un problema di poco conto.

La Cina, infatti, gioca un ruolo dominante nel consesso dei Brics , dato che il suo PIL, da solo, pesa per il 60% del Prodotto Interno Lordo di tutti i paesi che oggi partecipano a questo grande consesso. Il rafforzamento del gruppo dei Brics comporta quindi automaticamente la crescita dell’influenza di Pechino su tutta l’economia e la politica del pianeta.

In questo contesto nessuno poteva illudersi che il vertice di Kazan cambiasse l’esistente ordine mondiale e nemmeno mettesse le basi per un futuro cambiamento.

Il vertice, tuttavia ha raggiunto alcuni obiettivi non certo trascurabili per i leader che vi erano presenti. In primo luogo, dato l’elevato e qualificato numero dei partecipanti e i numerosi incontri bilaterali dei quali è stato protagonista, Putin è riuscito, almeno in parte, a dimostrare di non essere solo e isolato di fronte agli Stati Uniti e ai suoi alleati occidentali, ma al contrario ha potuto mostrare di avere molti amici e molti paesi aperti al dialogo.

In questo suo disegno ha persino contato sulla presenza del Segretario Generale delle Nazioni Unite che, partecipando al vertice di Kazan, ha ovviamente provocato una risentita disapprovazione da parte dell’Ucraina.

In secondo luogo, le differenze che pur esistono fra i paesi presenti a Kazan non hanno impedito il consolidarsi di un condiviso malcontento nei confronti delle grandi istituzioni finanziarie internazionali, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, accusate di favorire gli interessi dell’Occidente contro tutti i paesi emergenti.

Su questo tema l’accordo è così ampio da rendere doverosa un’approfondita riflessione sulla necessità di riformare queste importantissime istituzioni per adeguarle ai grandi cambiamenti della politica e dell’economia mondiale.

Ovviamente a Kazan non è nata, come qualche paese partecipante sperava, la moneta dei Brics da contrapporre al dollaro, oggi e ancora per molto tempo dominante, ma si è cominciato ad operare per creare un sistema dei pagamenti internazionali alternativo a quello esistente interamente controllato dagli americani.

Sembrerebbe un problema puramente tecnico, ma questo sistema (chiamato Swift) è stato l’unico strumento veramente efficace per potere applicare le sanzioni nei confronti dei paesi, delle banche e delle imprese che hanno rapporti finanziari con la Russia. A questo si è aggiunta, anche se con scarsa possibilità di essere messa in atto in un tempo prevedibile, la proposta di creare a Mosca un grande mercato dei cereali capace di fare concorrenza a quello di Chicago.

A Kazan, quindi, non è cominciata nessuna concreta rivoluzione, ma con la convergenza di un grande numero di paesi e con la presenza dei leader politici di mezzo mondo, si è certamente accentuata la divisione fra l’Occidente e il resto del mondo. Naturalmente i maggiori frutti di quest’evoluzione non potrà che raccoglierli la Cina, che ha compiuto un ulteriore passo in avanti nella sua strategia di presentarsi come il grande protettore di tutto il sud del pianeta, dall’Asia all’Africa, fino all’America Latina.

L’ormai lunga tensione fra Cina e Stati Uniti si sta quindi ancora più trasformando, proprio come vuole la Cina, in una sfida fra l’Occidente e il resto del mondo, senza che vi sia in corso una qualsiasi azione di mediazione o di composizione. E’ purtroppo doveroso constatare che in tutto questo grande processo di cambiamento il ruolo dell’Europa è inesistente.

Anche a Kazan l’Europa non c’era.

Harris-Trump: l’economia Usa nei prossimi quattro anni (lavoce.info)

di 

Il 5 novembre l’America vota per eleggere il 
nuovo presidente. 

Nonostante tutto, l’andamento dell’economia continua a essere uno dei fattori che determinano le scelte dei cittadini. Vale allora la pena analizzare i programmi economici dei due candidati.

Quanto conta l’economia nel voto americano

Dopo un’estate ricca di colpi di scena, primo fra tutti il ritiro di Joe Biden sostituito da Kamala Harris, i candidati alla presidenza Usa hanno avuto l’opportunità di presentare i propri programmi economici durante il dibattito del 10 settembre, così come nei comizi e nelle interviste.

Nonostante persista la sensazione che il risultato delle elezioni, estremamente incerto, sarà influenzato più dalle “vibes” che dai dettagli dei programmi economici, l’economia è considerata la questione più importante per gli elettori americani.

Nei progetti dei due candidati sull’economia ci sono differenze notevoli, ma forse proprio per la vicinanza nei sondaggi, emergono alcune somiglianze. Prima su tutte la guerra commerciale alla Cina e l’aumento significativo del deficit, un tema di cui né Kamala Harris né Donald Trump sembrano preoccuparsi.

Tuttavia, per entrambi, la realizzazione della maggior parte delle promesse dipenderà dalla composizione del Congresso, ovvero se il partito del futuro presidente avrà o meno il controllo di Camera dei rappresentanti e Senato, che si rinnovano anch’essi il 5 novembre, totalmente la prima, in parte il secondo.

In ogni caso, il programma di Harris si può riassumere nella sua visione di promuovere una “Economia delle opportunità”, volta a garantire una crescita economica inclusiva e accessibile a tutti gli americani. Quello di Trump si rifà ai suoi slogan più conosciuti “Make America Great Again” e “Take America Back”, concentrandosi sulla protezione del paese sia da nemici interni (come tasse e regolamentazioni eccessive) sia da minacce esterne, principalmente gli immigrati e la Cina, attraverso dazi elevati e politiche commerciali aggressive.

I temi principali includono: tasse, dazi sulle importazioni, politica industriale, politiche anti-inflazione, regolamentazioni e ruolo delle agenzie federali, welfare e immigrazione. Li approfondiamo attraverso due articoli. Ci occupiamo qui delle proposte sui primi tre capitoli, per lasciare al secondo intervento l’analisi degli altri.

Le proposte sulle tasse

Kamala Harris: la vicepresidente ha delineato un approccio focalizzato sul sostegno alla classe media e ai lavoratori a basso reddito attraverso una serie di modifiche fiscali. Intende espandere i crediti d’imposta per i redditi da lavoro e offrire crediti fiscali generosi per le famiglie.

Per esempio, ne ha proposto uno di 25mila dollari per chi acquista la prima casa: è una misura controversa perché, se non accompagnata da un aumento delle costruzioni, potrebbe causare un aumento dei prezzi delle abitazioni. Sul fronte delle imposte sui più ricchi, Harris ha abbracciato il piano di Joe Biden di imporre una tassa del 25 per cento sulle plusvalenze non realizzate per i patrimoni netti superiori ai 100 milioni di dollari: è un provvedimento che mira a tassare l’incremento di valore degli asset prima che questi siano venduti.

La misura è stata criticata per la sua complessità, i problemi di liquidità e i potenziali effetti negativi sul comportamento degli investitori.

Come Trump, Harris vuole eliminare le imposte sui guadagni derivanti dalle mance, ma il suo piano prevede che questi introiti rimangano soggetti ai contributi previdenziali. Allo stesso tempo, Harris punta ad aumentare l’aliquota fiscale sulle società dal 21 al 28 per cento e ad alzare l’aliquota minima alternativa dal 15 al 21 per cento per le aziende che fatturano oltre un miliardo di dollari. Harris non prevede aumenti di tasse per chi guadagna meno di 400mila dollari all’anno.

Donald Trump: propone tagli fiscali per i redditi alti e le grandi imprese. Ha parlato di ridurre ulteriormente l’aliquota fiscale societaria, portandola dal 21 al 15 per cento per le aziende che producono negli Stati Uniti, una continuazione delle politiche della sua precedente amministrazione che includeva la legge fiscale del 2017, nota per aver introdotto tagli significativi alle imposte per le aziende e per i contribuenti più ricchi.

Trump vorrebbe anche eliminare la doppia imposizione fiscale per i cittadini americani che vivono all’estero e non tassare i benefici della social security (le pensioni). Come Harris, Trump ha proposto di eliminare le tasse sui guadagni che derivano dalle mance.

Nel programma è prevista pure la deducibilità fiscale dei pagamenti dei prestiti auto e l’eliminazione delle imposte sui guadagni da straordinari. Nelle intenzioni del candidato repubblicano, queste misure dovrebbero aumentare gli incentivi a investire e produrre.

Dazi sui beni importati

Donald Trump: sostiene l’introduzione di elevati dazi doganali che, nelle sue intenzioni, dovrebbero proteggere le industrie americane e incrementare le entrate fiscali.

Il suo piano prevede una tariffa del 10 per cento su tutti i beni importati e una del 60 per cento specifica per i prodotti provenienti dalla Cina. Trump afferma che queste misure costringeranno le altre nazioni a ricompensare gli Stati Uniti per il loro ruolo storico globale e prevede che i dazi generati possano ammontare a centinaia di miliardi di dollari.

Kamala Harris: critica l’approccio di Trump, descrivendolo come una tassa indiretta che pesa sulle famiglie americane. Ed è corretto perché le tariffe sui beni importati sono equivalenti a tasse, perché spesso si traducono in prezzi più alti pagati dai consumatori.

Eppure, Harris non ne ha escluso l’uso. Anche perché l’amministrazione Biden ha di recente imposto nuovi dazi (su acciaio e alluminio, così come su semiconduttori, veicoli elettrici, batterie e parti di pannelli solari), prolungandone alcuni già in vigore dalla precedente amministrazione Trump.

In particolare, i nuovi dazi su prodotti cinesi includono un’imposta del 100 per cento sui veicoli elettrici, del 25 per cento sulle batterie agli ioni di litio per veicoli elettrici e del 50 per cento sulle celle fotovoltaiche utilizzate nei pannelli solari. Harris ha confermato l’impegno a promuovere l’industria americana nei settori tecnologici avanzati, come i semiconduttori e l’energia pulita, combattendo le pratiche commerciali definite “ingiuste”, in particolare quelle provenienti dalla Cina, per proteggere i lavoratori statunitensi.

Politiche anti-inflazione

Kamala Harris: nonostante l’inflazione sia tornata intorno al 2 per cento e alcuni prezzi cruciali, come quello della benzina, siano a livelli pre-pandemia, resta tra gli americani la percezione che il costo della vita sia troppo elevato.

Lo riconosce la stessa Kamala Harris e per affrontare il problema, ha proposto una serie di misure a sostegno della classe media e delle piccole imprese, come crediti fiscali per le famiglie e gli acquirenti di prima casa, insieme all’asilo nido universale e al congedo familiare retribuito. Una parte rilevante (e controversa) della sua agenda riguarda il contrasto agli aumenti ingiustificati dei prezzi da parte delle aziende.

Inizialmente, Harris sembrava avere accennato a un controllo diretto sui prezzi, ma la misura è stata poi ridimensionata, trasformandosi in un divieto federale contro pratiche di “speculazione”, con l’obiettivo di proteggere i consumatori e le famiglie americane da rincari arbitrari, soprattutto durante le emergenze.

Donald Trump: la sua campagna si concentra sulle difficoltà economiche affrontate dagli americani sotto l’amministrazione Biden, con particolare enfasi sull’elevato costo della vita e sugli effetti dell’inflazione. Trump cita spesso l’aumento dei prezzi dei generi alimentari come prova dei fallimenti della gestione economica dell’attuale amministrazione.

La sua retorica mira a convincere gli elettori che un ritorno alle sue politiche economiche possa alleviare queste pressioni sui bilanci familiari. Eppure, molte delle proposte di Trump non contribuirebbero a mantenere bassi i prezzi, anzi rischierebbero di essere inflazionistiche. Prime fra tutte, le promesse di imporre pesanti dazi sulle importazioni, poiché le aziende importatrici trasferirebbero almeno in parte i rincari sui prezzi di vendita.

Anche le severe restrizioni sull’immigrazione proposte dal candidato repubblicano potrebbero accentuare l’inflazione, riducendo la disponibilità di manodopera in settori essenziali come l’agricoltura, l’edilizia e la sanità, spingendo così i datori di lavoro ad aumentare i salari per attrarre lavoratori.

Trump ha dichiarato che, se rieletto, vuole avere maggiore controllo sulla politica monetaria della Federal Reserve, riducendone l’indipendenza. Ha criticato in passato le decisioni del presidente della Fed, Jerome Powell, e ritiene che il presidente degli Stati Uniti dovrebbe avere voce in capitolo sulle scelte della banca centrale, per esempio l’impostazione dei tassi di interesse.

Questa posizione minerebbe il tradizionale assetto indipendente della Fed, rischiando di destabilizzare la fiducia dei mercati finanziari e compromettendo l’efficacia dell’istituzione nel gestire la politica economica del paese.