Azione: "Postura istituzionale scorretta, ora
non faccia favoritismi".
Ma lui difende il collettivo: “Realtà importante, al di là del tema dei muri”.
Quella suLàbasè una discussione giuridica o politica? Il confine si perde continuamente, in questi giorni, dopo cheil Tar ha semplicemente annullato l’assegnazione degli spazi di Vicolo Bolognetti al collettivo, si intrecciano dichiarazioni che a volte hanno poco a che fare con il punto della questione. “Un piano economico finanziario talmente carente che non poteva essere passibile di apprezzamento”, hanno scritto i giudici amministrativi. Mentre il Comune di punti, per quel piano, gliene aveva dati 9 su 10.
Tutto da rifare, e dalle varie risposte che sta dando il sindaco Matteo Lepore tutto lascia pensare che sì, forse un ricorso al Consiglio di Stato ci sarà, ma che più probabilmente ci si sta già muovendo per trovare una nuova casa al ‘municipio sociale’. Con tempi molto dilatati, nelle intenzioni di Palazzo d’Accursio. Ma c’è una sentenza del Tar da ottemperare, e forse troppo tempo non c’è per dibattere una soluzione.
Ieri sul tema è intervenuto Marco Lisei: “Làbas ha trasformato vicolo Bolognetti, ex sede di Quartiere avuta in premio da Virginio Merola, in una proprietà privata, una vera e propria zona franca – ha attaccato il senatore di FdI –, nella quale entri se sei gradito”.
Molti componenti del Pd “lottarono contro questa scelta” e proprio da lì nacque il ricorso promosso anche da Otello Ciavatti. Ora, restituire l’immobile a quelle associazioni “sarebbe un ottimo modo di ricordare Ciavatti e le sue battaglie. Mi auguro che il sindaco non ricorra, rispetti la sentenza del Tar e collabori con le istituzioni”. Lisei ha citato anche l’ex caserma Masini, “da cui Làbas è stata sfrattata e sulla quale il Comune ha avuto gli usi temporanei, dove auspichiamo prevalga il progetto più utile ai residenti”.
Proprio Lepore ieri ha annunciato ai cronisti di aver finalmente “letto” la sentenza del Tar, e ha confermato che il Comune sul punto prende tempo, il dossier passa in mano all’assessore al Patrimonio, Raffaele Laudani. Non solo, Lepore ha anche preso la palla al balzo per attaccare il comitato contro l’ampliamento delle Scuole Besta: “Ho deciso che sarà l’assessore Laudani a curare la questione, assieme all’avvocatura di Stato, si deciderà quindi se fare o meno appello – ha sottolineato –. È una questione di diversi anni fa (quattro anni, non un’eternità, ndr), e afferisce ai punteggi dati da una commissione tecnica ai partecipanti. L’esperienza di Làbas è preziosa e va salvaguardata, sono spazi frequentati da migliaia di ragazzi, vedremo come portarla avanti, il tema va al di là delle dispute sui muri. Làbas cambierà casa? Presto per dirlo”.
Il collettivo ha diffuso un video dove si è detto pronto a “disobbedire”. Lepore, a domanda su questo, ha scelto di attaccare il viceministro ai Trasporti, Galeazzo Bignami: “Forse hanno visto i video di Bignami che va a braccetto con Xm24. La politica dovrebbe smetterla di scimmiottarsi e dovrebbe pensare al bene della comunità”. E se Làbas occupasse Vicolo Bolognetti? “Non hanno bisogno di occupare niente. Gli unici che stanno occupando sono al parco Don Bosco, sostenuti dal centrodestra”, ha aggiunto Lepore.
Critica sull’atteggiamento di Lepore riguardo Làbas è Azione. “Le sentenze si rispettano e le leggi si applicano. Lepore ne prenda atto e faccia autocritica su una scelta sbagliata ed illegittima – ha affermato la sezione bolognese –. La decisione del Tar meriterebbe una riflessione più seria della reazione imbarazzata da parte dell’amministrazione comunale. E’ legittima la volontà del Comune di ricorrere al Consiglio di Stato, ma derubricare la vicenda come ‘poco urgente per il sindaco’, è poco serio per la postura istituzionale che dovrebbe tenere il sindaco”.
Chi sta con Làbas è invece Coalizione Civica: “Pur non entrando nel merito degli elementi tecnici di una lunga battaglia politica mascherata da battaglia giudiziaria, esprimiamo pieno sostegno a Làbas e alle associazioni che gestiscono Vicolo Bolognetti”.
Manuale per sopravvivere alla galera sotterranea peggio progettata del mondo, con consigli imperdibili sul prendere i treni adriatici anziché quelli per Roma e altre storie di vita vissuta
È il settembre del 2022. Sono a Bologna e devo andare a Brescia, con un Frecciarossa. Sono quindi al binario 18, uno dei quattro nella stazione sotterranea dell’alta velocità, un incubo per il quale l’aggettivo «kafkiano» non basta.
Ci sono arrivata con calma, sono lì che aspetto ma il treno non arriva. Tarda cinque minuti, poi dieci, poi quindici, poi dagli altoparlanti esce una voce che dice una cosa per la quale prima dei binari kafkiani al massimo si sbuffava e ora si bestemmiano gli dèi di tutte le religioni: il treno atteso al binario 18 è in arrivo al binario 1.
Se siete mai passati da quei sotterranei a questo punto starete tremando per il nervoso, se non ci siete mai passati è difficile spiegare, è difficile capire: non significa solo che devi cambiare binario, significa che devi cambiare codice postale.
Quella scena di un anno e mezzo fa ancora me la ricordo, perché improvvisamente mi resi conto che più che il treno per Brescia pareva quello per Lourdes. C’era uno col bastone, una con il passeggino, persino qualcuno col cane (unico del quale ho pensato: così impara).
Nessuno, tranne me, sapeva dove andare, ma io per fortuna non ho doti di leadership e quindi non mi sono offerta di guidarli. Anche perché io stessa, che da quei sotterranei sono passata decine se non centinaia di volte, quando arrivo alla terra di mezzo esito sempre.
La terra di mezzo è il piano tra la stazione sotterranea e quella vera, dove dovrebbero esserci i taxi (figuriamoci) e dovrebbe lasciarti chi ti dà un passaggio (e infatti il piano si chiama «kiss and ride», e se non è metafora perfettissima dell’imbecillità di questo secolo questa dicitura, non so proprio cosa).
Quando la scala mobile da sotto ti sputa nella terra di mezzo, cosa devi fare per arrivare alle altre scale, quelle che ti portano su? Attraversare? Tornare indietro? Dipende dalla scala che hai preso prima, mica ce n’è una sola. Insomma, se come me non hai il senso dell’orientamento è un problema. Se sei una col passeggino che passa dai sotterranei bolognesi ogni dieci anni, auguri.
Naturalmente tutti sanno che quello da sotto a su è un viaggio, e infatti quel treno per Brescia era lì fermo ad aspettarci, sapeva che come minimo ci avremmo messo dieci minuti, ma io mica sapevo se mi avrebbe aspettata, e quindi ho corso, sono arrivata quasi infartuata e urlando «io vi denuncio» come una pazza furiosa.
Lo steward di Trenitalia si è giocato la massima carta-cavalletta – a Firenze, mi ha spiegato, era morto un passeggero – e io sono crollata su una poltrona sulla quale sono rimasta inerte mentre il treno, fermo, aspettava l’arrivo di passeggini, invalidi, cani. Non è stato allora che mi sono chiesta per la prima volta «ma quindi i Frecciarossa possono arrivare anche su, ma quindi perché ci infelicitano facendoci andare giù», era un dettaglio che avevo già notato e approfondito, e l’esito degli studi fa di me la più preziosa amica che possa avere chi deve andare da Milano a Bologna.
La frase più utile contenuta nel mio armamentario dialettico è: «Prendi quello per Pescara». È la frase con cui, se non sono diffidenti, riesco a sedare le paure e le ipocondrie che accomunano tutti quelli che devono andare da Milano a Bologna. I diffidenti e i saperlalunghisti non mi credono, pensano che io faccia parte del grande complotto della stazione bolognese per stressarli.
È la messa in discussione del principio di autorità che rovina questo secolo, e ciò che è valso in tempi di pandemia vale anche per le stazioni sotterranee: ho un dottorato in prendere i treni a Bologna, vuoi davvero metterti a discutere? Quel che coloro che hanno studiato la pratica meno di me non sanno è che ad arrivare sotto (e a partire da sotto) sono solo i treni che fanno la linea Milano-Roma. Quelli che da Bologna in giù fanno l’Adriatico, quelli arrivano a (e ripartono da) i binari normali. Non è solo una questione di non dover sprecare dieci minuti in più per raggiungere il binario o tentare di riemergerne.
La stazione sotterranea, essendo sotterranea, è sempre buia. Se arrivi, rischi di non accorgerti della fermata perché fuori c’è un buio indistinto, e a Bologna, stazione di transito, il treno si ferma solo tre minuti. Ho visto gente (e con gente intendo: io) rischiare di restare a bordo perché non aveva capito che era arrivata.
E, se anche non resti sul treno, scendi senza sapere che tempo faccia, se sia giorno o notte, con una sottile claustrofobia data dal non vedere il cielo: la stazione sotterranea è una galera. Ogni volta che arrivo a Bologna sul mio bravo Frecciarossa per l’Adriatico, fotografo il binario con sopra il cielo azzurro (se c’è una prova del cambiamento climatico, è che il cielo di Bologna è ormai indistinguibile da quello di Napoli).
Saperlalunghisti e diffidenti mi accusano di aver falsificato le prove, di essere andata a fare una foto su un binario a caso pur di convincerli della magia per la quale i miei treni non arrivano ai binari kafkiani. Gli altri, più razionali, prenotano il loro bravo treno scegliendo tra quelli che vanno a Pescara, a Lecce, ovunque ma non a Roma.
Non è un metodo perfetto – non posso salvarli tutti: chi viene da Roma è perduto – e infatti ogni giorno ho notizia di nuove vittime della stazione peggio progettata del mondo (assieme a quella di Pescara: l’anno scorso ho presentato un libro a un festival locale, e metà presentazione è stata utilizzata per chiedere al pubblico i trucchi per uscire dalla loro cazzo di stazione, visto che io ci avevo messo mezz’ora e mi sembrava concepita in modo persino più imbecille di quella di Bologna, che era tutto dire).
(Ma forse Bologna batte tutti perché la sala d’attesa Frecciarossa – in neolingua: lounge – è al binario 1. Tu stai comoda nella sala d’attesa, ma ti devi ricordare di uscirne in tempo per arrivare nei sotterranei dove non c’è neanche una panchina per sederti, quindi esci dieci minuti prima per essere sicura d’arrivare in tempo anche se inciampi, ma non venti minuti prima sennò poi ne passi almeno dieci in piedi. Ogni tanto chiedo, e mi dicono: eh, stanno pensando di spostarla. Pensateci un altro po’, amici di Trenitalia).
L’altra mattina un’amica che tornava a Milano da Bologna mi ha scritto furibonda. Il suo Frecciarossa (che veniva da Roma, perché a quell’ora non c’era nessuna linea adriatica che le potesse tornare utile) doveva essere al binario 18, ma era stato spostato al 17. Se, di nuovo, siete vergini di quell’inferno, sappiate che da una parte ci sono il 16 e il 17, e dall’altra il 18 e il 19. Hanno scale mobili separate, tu forestiera sai quale hai preso per scendere, ma se ti cambiano binario e devi frettolosamente risalire e non sei pratica: beh, auguri.
Quindi il primo messaggio d’ira funesta mi riferisce che ha preso il treno al volo, le stavano chiudendo le porte in faccia, perché non sapeva come andare dal 18 al 17, per la disperazione voleva attraversare i binari correndo, maledetti i ferrovieri tutti e i bolognesi tuttissimi.
L’ho consolata, e dopo un’ora mi si è nuovamente illuminato il telefono. Il treno era stato cambiato di binario di nuovo, ma lei non se n’era accorta, era salita sul Frecciarossa arrivato al 17 e si era seduta al suo posto senza controllare il numero del treno (parlo da uomo ferito: quando ti succede una volta di prendere il treno sbagliato, da lì in poi controlli ossessivamente i numeri dei treni; prima, no).
La mia amica ora assai più furibonda di prima si era ritrovata alla stazione di Verona (e aveva rischiato l’arresto per i modi assai urbani con cui aveva notificato il proprio disappunto al controllore). Non le ho detto che se avesse preso un Frecciarossa che venisse da Lecce sarebbe partita con la luce del giorno e tutto questo non sarebbe successo, perché avevo paura che mi urlasse «vi denuncio» con l’isteria che avevo io su quel treno per Brescia. Ogni isteria da alta velocità bolognese è isterica a modo suo, ma gli esaurimenti nervosi da stazione sotterranea si somigliano tutti.
L’analisi dopo le accuse di Lepore al governo
di fomentare una "strategia della tensione"
nelle piazze.
“È vero che c’è chi soffia sul fuoco, sia da destra che da sinistra. Ma radicalizzare le posizioni è sbagliato”
Bologna, 4 marzo 2024 – “Le parole del sindaco? Dice una mezza verità che trasforma in una intera. Certo, c’è chi soffia sul fuoco, ma sia a destra che a sinistra, ed è pericoloso”.
Per il professor Paolo Pombeni, politologo, storico e direttore della rivista ‘Il Mulino’ le parole del primo cittadino Matteo Lepore che accusa il governo di incendiare le piazze attuando una “mirata strategia della tensione” attraverso dichiarazioni e atteggiamenti dei suoi esponenti sono in questo momento “tecnicamente sbagliate”.
Professor Pombeni, le piazze sono infiammate. Come ci siamo arrivati?
“Sono cicli che si ripetono. Da giovani abbiamo partecipato a cortei per il Vietnam, per esempio. Succede quando c’è questa immagine del piccolo e debole schiacciato dal più forte e violento di turno. Gaza è un dramma enorme, vero, che sta sconvolgendo tutti, ma ovviamente è tutto molto più complesso di così. Queste manifestazioni però vogliono schieramenti netti”.
Il sindaco Lepore ha attaccato il governo parlando di una chiara e mirata ‘Strategia della tensione’.
“Il sindaco, diciamo così, trasforma una mezza verità in una verità intera. La mezza verità è che c’è gente che ovviamente soffia sul fuoco, sia a sinistra ma soprattutto a destra. L’idea che bisogna stare dalla parte della polizia sempre e comunque, che non sbaglia mai, che sta tornando l’attacco alle istituzioni sono cose oggettivamente pericolose. Dall’altra parte a sinistra c’è stata una radicalizzazione sulla quale va spesa una parola: queste idee che ci sono fascisti dappertutto, che bisogna resistere, sono cose altrettanto pericolose. Quando accendi queste micce non sai a che falò vanno a dare fuoco”.
L’utilizzo di queste parole che evocano anche tempi bui non va nel senso di calmare le acque.
“No, non va in questo senso e tecnicamente in questo momento è sbagliato. Intendo che questa voglia di surriscaldare gli animi, per adesso, è ristretta a falangi di estrema sinistra. E speriamo resti così”.
Che differenza c’è fra questi movimenti e quanto accadde nel ’77?
“Sono stati anche quelli momenti ciclici che poi però sono rientrati e non hanno lasciato nulla dietro di sé, se non questa ritualità che vuole che ogni tanto si debba scendere in piazza e fare cose del genere”.
Fratelli d’Italia accusa il centrosinistra di ambiguità nei confronti delle frange estreme.
“Ho già in parte risposto. Ma un teatrino delle maschere dalle quali una politica seria dovrebbe stare lontana, perché la riduce a un affare fra radicalizzati e la politica perde, perché la gente a quel punto si ritrae. La sinistra dovrebbe ricordarsi che è più facile che in questi casi vinca la destra”.
Il disappunto dopo i primi giorni di controlli
sulle strade:
«Cittadini disorientati, la segnaletica non è sempre chiara. Ma è difficile farsi multare: tutti sanno dove siamo»
Vista dalla strada, o almeno dalla prospettiva di chi le regole le deve fare rispettare, la Città 30 perde parte del potere salvifico che le viene attribuito e mette in evidenza tutto quello che «negli ultimi 15-20 anni non è stato fatto sul tema della sicurezza stradale a Bologna». A raccontare questi primi giorni di controlli e prove dal vivo è una vigilessa del corpo di Polizia locale del Comune di Bologna.
Come stanno andando questi primi giorni di controlli?
«Lavoriamo sul campo ogni giorno con sei pattuglie. E visti gli organici ridotti di cui disponiamo non si può fare di più. I dieci nuovi agenti che arriveranno quest’anno non bastano neanche a sostituire chi va in pensione».
Che giudizio si sente di dare?
«In realtà prima della Città 30 i controlli sulla velocità non erano così capillari. Sinceramente fatico a capire che senso abbia farli ora, più o meno sulle stesse strade. La gente tra l’altro lo sa in anticipo dove ci mettiamo, perché qualcuno fa uscire i nostri posizionamenti».
Ha un’idea di chi sia?
«Sinceramente no».
Qual è la sua valutazione, da professionista, del provvedimento?
«Mi lascia perplessa. Un conto era mantenere i 30 all’ora entro le mura, anche perché in centro ci sono strade in cui a malapena fai i 20. Però ad esempio, anche nei pressi delle scuole, sarebbe bastato mettere qualche dosso in più per garantire più sicurezza ai pedoni e ai ciclisti».
Che riscontri ha dalla gente che fermate?
«Spesso sono disorientati anche perché parliamo di un provvedimento che si applica a macchia di leopardo. Inoltre non è sempre chiara la segnaletica: in alcune strade il limite è a 40, poi diventa a 30 col dosso e magari intersechi una strada a 50. Sorrido quando sento il sindaco che dice che non bisogna guardare il contachilometri, ma vedere se ci siamo noi a controllare col telelaser in strada».
Non sembra così convinta della Città 30. Perché?
«Negli ultimi 15-20 anni la politica ha sempre parlato di sicurezza, intesa come lotta alla microcriminalità, ma si è dimenticata della sicurezza stradale. I controlli della velocità sono sempre stati pochi, perché eravamo richiesti per altri servizi. Ora si passa dal nulla a un controllo isterico. I telelaser c’erano anche prima, solo che non venivano utilizzati».
Negli anni siete stati impiegati molto come corpo a supporto delle altre forze dell’ordine.
«È vero, ma noi non siamo una polizia, per trattamento economico, per preparazione e per dotazioni. I nostri compiti dovrebbero essere altri».
I contrari alla Città 30 lamentano i pochi controlli su biciclette e monopattini. È vero?
«Negli ultimi anni sono stati poco controllati, ma anche perché per loro è facile divincolarsi e sfuggire. I velocipedi li abbiamo in dotazione solo per servizi di controllo come quelli sul Lungoreno, ma sono anche mezzi obsoleti, acquistati ai tempi di Cofferati. Recentemente ne sono stati presi coi freni a disco, ma sono fermi in magazzino e i pochi elettrici che ci sono, nessuno li usa».
Eppure in questi giorni avete fatto poche multe agli automobilisti.
«Tutti sanno dove siamo e gli Infovelox a 200 metri ti permettono di rallentare prima del telelaser. È difficile farsi multare».
Come si uscirà dalle polemiche?
«Penso che alla fine il sindaco rivedrà alcune zone e farà qualche passo indietro. Certo si sarebbe potuto aspettare la realizzazione almeno dei tram prima di mettere in campo la Città 30».
La decisione del comune di Bologna di adottare il limite di 30 chilometri orari in gran parte della città è un esempio di come molto spesso si definiscono le politiche pubbliche in Italia. Mancano dati per valutare se si tratta della scelta migliore.
La scelta di Bologna
Dallo scorso luglio, nella maggior parte delle strade di Bologna vige un nuovo limite di velocità fissato a 30 chilometri orari, rispetto ai 50 chilometri all’ora prevalenti prima della riforma. Dal 16 gennaio il piano è ufficialmente attivo e sono scattate le prime multe per i trasgressori.
Non si tratta di un’iniziativa isolata, neanche in Italia: secondo il Sole24-Orediversi capoluoghi di provincia hanno introdotto, in misura più o meno estesa, le cosiddette “zone 30”. È un tema politicamente caldo. Il Parlamento europeo da tempo sollecita le diverse realtà nazionali ad agire in questa direzione.
Al di qua delle Alpi, unprogetto di legge a firma Pd, Avs, Azione-IV propone di rendere i 30 km/h il limite ordinario. Sotto le due torri, l’attuale sindacatura ha investito una dose importante di capitale politico su una policy di diffusa riduzione dei limiti (“Bologna città 30”). A nostro avviso, per le modalità con cui è stata realizzata, si tratta di una misura che racconta molto di come si decidono tante politiche in Italia.
Perché 30 km/h?
Perché “Bologna città 30”? Il sito dedicato all’iniziativa offre risposte nette: per migliorare la sicurezza stradale, ridurre l’inquinamento (compreso quello acustico) e i consumi energetici, incentivare la cosiddetta mobilità attiva (andare a piedi e in bicicletta), ridurre lo stress legato agli spostamenti, rendere la città più a misura di persona, aiutare l’economia locale.
Il tutto senza aumentare i tempi di percorrenza. Sono argomenti credibili? Qualche dubbio sorge: se alcune affermazioni sono vagamente supportate da “innumerevoli studi scientifici” o da report di organismi internazionali, altri nessi causali adombrati – come per esempio quelli sullo stress, sulla città a misura di persona, sullo stimolo all’economia locale – sono solo dei desiderata densi di rimandi valoriali, ma privi di supporto empirico.
Premesso che, rispetto ad altre politiche pubbliche, l’evidenza prodotta per questa iniziativa è comunque più ampia di quella solitamente disponibile (pari a zero), si poteva fare di più. Prima di estendere i 30 km/h all’intera città, il comune avrebbe potuto sperimentarli su piccola scala, proprio come si fa in medicina con farmaci e terapie di cui vogliamo conoscere gli effetti. La sperimentazione avrebbe potuto riguardare alcune porzioni di città, con altre zone comparabili come gruppo di controllo. In questo caso, poi, l’esperimento pilota sarebbe stato naturalmente offerto da alcuni limiti a 30 chilometri orari già presenti in città.
Organizzandosi per tempo, si sarebbero potuti raccogliere i dati su incidenti (inclusi quelli non gravi), inquinamento ambientale e acustico, modalità di trasporto, soddisfazione/stress dei cittadini, fatturato delle attività commerciali, tempi di percorrenza, e così via. Qualora un’analisi credibile di questi dati avesse confermato i tanti benefici narrati oggi (prima dell’attuazione della misura), sarebbe stato possibile estendere il nuovo limite al resto della città. Ne avrebbero guadagnato l’accountability dell’operato del pubblico, il rispetto dei cittadini, il processo democratico. Ma le cose non sono andate così.
Chi va piano va sano?
Col rimpianto della sperimentazione mancata, abbiamo stimato noi l’impatto delle zone 30 sull’incidentalità nel caso bolognese, sfruttando il fatto che già da qualche anno in alcune piccole porzioni di città è stato introdotto il limite a 30 km/h. Abbiamo quindi utilizzato i dati delle delibere comunali per ricostruire, per tutti gli archi stradali della rete urbana della città (un arco è una porzione di strada che collega due incroci o estremità), il giorno in cui il limite è stato portato a 30 km/h.
Per tutti gli altri archi il limite è rimasto a 50 km/h. Questi dati sono stati poi combinati con i dati mensili sugli incidenti per ciascun arco, forniti dalla città metropolitana. Si tratta di incidenti che hanno richiesto l’intervento delle forze dell’ordine per la presenza di danni a persone. Il dataset finale contiene circa 7.500 archi osservati da gennaio 2014 a dicembre 2021.
La figura 1 mostra, per ciascun anno, la percentuale di archi soggetti al nuovo limite (archi “trattati”). Un arco stradale si considera trattato a partire da un certo anno se il limite di 30 km/h è stato introdotto nella prima metà dell’anno e quindi è stato in vigore per almeno sei mesi in quello stesso anno. Nel periodo considerato, si è avuta una progressiva estensione della policy, così che nel 2021 circa un quarto degli archi era trattato. L’estensione più significativa si è verificata nel terzo trimestre del 2015, nel quale si è concentrato il 60 per cento circa di tutti gli abbassamenti del limite.
Figura 1 – Percentuale di archi soggetti al limite di velocità di 30 km/h
Fonte: nostre elaborazioni su dati del comune di Bologna.
Queste informazioni hanno permesso di stimare l’impatto della misura attraverso il confronto della dinamica degli incidenti per gli archi trattati e quella osservata per gli archi per i quali il limite è rimasto invariato (“controlli”).
Nella figura 2, la linea rossa mostra l’andamento del numero di incidenti per le unità trattate a partire dal terzo trimestre del 2015 (la coorte di trattati più numerosa), mentre la linea blu riporta la stessa variabile per gli archi che per tutto il periodo sono rimasti con il limite a 50 km/h. La barra tratteggiata verticale segnale l’entrata in vigore del nuovo limite a 30 km/h per i trattati.
Nella media del periodo precedente il trattamento, nelle zone trattate in ogni trimestre si registrano poco più di sei incidenti ogni 100 archi, mentre il numero corrispondente per le unità di controllo è intorno a quattro su 100; nello stesso periodo, le due linee hanno un andamento piuttosto parallelo.
Se la policy avesse fatto diminuire gli incidenti, a partire dal terzo trimestre del 2015 si dovrebbe osservare un calo per la linea relativa ai trattati a fronte di una dinamica stabile per i controlli. Ma così non è: dopo l’inizio del trattamento, per entrambi i gruppi le due linee proseguono come prima, suggerendo che il nuovo limite a 30 km/h non ha portato a un calo dell’incidentalità.
Figura 2 – Numero di incidenti per trattati e controlli (media mobile su quattro trimestri)
La figura 3 generalizza il risultato a tutti gli archi trattati e mostra la stima della differenza tra il numero di incidenti per trattati e controlli (riportata sull’asse delle ordinate insieme agli intervalli di confidenza al 90 e al 95 per cento). Sull’asse delle ascisse si misura invece la distanza temporale in trimestri dall’avvio della policy (0 è il trimestre in cui viene adottata).
Sia prima che dopo dell’introduzione della misura non vi sono differenze significative tra trattati e controlli, a segnalare il fatto che il nuovo limite non ha fatto diminuire l’incidentalità. Il risultato è confermato da diversi test di robustezza, tra cui l’utilizzo di misure alternative per il numero di incidenti (per esempio normalizzandolo con la lunghezza dell’arco), il cambio della scala temporale utilizzata (mesi o semestri invece di trimestri) o l’applicazione di metodi econometrici che tengono esplicitamente conto del fatto che archi diversi sono trattati in momenti diversi.
Figura 3 – Differenza nel numero di incidenti tra archi trattati e di controllo, da dieci trimestri (e più) prima a dieci trimestri (e più) dopo l’introduzione del limite di velocità a 30km/h
Perché non è possibile valutare la misura
Un dato è chiaro: il limite a 30 chilometri orari introdotto a Bologna tra il 2015 e il 2021 non ha portato a un calo dell’incidentalità. Come spiegare questo risultato? Avanziamo qui alcune ipotesi che non si escludono a vicenda.
Una prima possibilità è che i dati a nostra disposizione, che riguardano incidenti con danni a persone, non permettano di catturare effetti sugli incidenti di minore gravità, quelli probabilmente più interessati dalla policy.
Una seconda possibilità è che il limite a 30 km/h sia una condizione di per sé non sufficiente per ridurre l’incidentalità, ma che vada accompagnato da una robusta azione di controllo del rispetto del limite di velocità che potrebbe essere mancata.
Una terza possibilità è che il limite sia stato introdotto in zone con incidentalità inferiore rispetto al gruppo di controllo (si veda per esempio la figura 2) e che, pertanto, fosse difficile osservare ulteriori miglioramenti. Purtroppo, non esistono le informazioni per dare risposta a queste legittime domande. Così come non riusciamo a dire nulla su altre variabili di interesse quali inquinamento, modalità di trasporto, soddisfazione/stress dei cittadini, fatturato delle attività commerciali, tempi di percorrenza, per le quali non esistono i dati.
Ma il punto centrale da sottolineare è proprio questo: le limitazioni della nostra analisi, di cui siamo pienamente consapevoli, ben prima di essere tali, sono mancanze nel disegno e nell’implementazione della policy. Non è stata assicurata la piena comparabilità tra archi stradali trattati e di controllo, non sono state raccolte moltissime informazioni cruciali, non è stato fatto un serio piano di valutazione. In altri termini, non sono state prese decisioni sostenute da quell’evidenza empirica che deriva dalle migliori pratiche della comunità scientifica.
E lo si sarebbe potuto fare con costi molto contenuti. Tutto ciò porta a scelte dagli effetti incerti e alla polarizzazione del dibattito politico, così che una domanda doverosa e puramente tecnico-fattuale – l’abbassamento dei limiti di velocità produce effetti desiderabili? – viene oscurata dalla politicizzazione e ideologizzazione delle zone 30 che vanno così ad arricchire, loro malgrado, la gloriosa collezione gaberiana di ciò che è di destra e ciò che è di sinistra. L’esatto opposto della necessaria laicizzazione del dibattito sulle politiche pubbliche.