Fino a 18mila euro in più dal 2024, nuovo
inquadramento per tre figure.
Scarano (Misto): “Il motivo non è chiaro”. Zuntini (FdI): “E gli altri dipendenti?”
Aumentano i compensi per alcuni ‘fedelissimi’ del sindaco e a Palazzo d’Accursio scoppia subito la polemica. Nell’atto in questione si parla di “nuovo inquadramento e aumento dell’emolumento sostitutivo” per cinque membri del Gabinetto di Matteo Lepore.
A cominciare da Elena Di Gioia, delegata alla Cultura, che riceverà dal primo gennaio (e per tutta la durata del mandato del sindaco) poco meno di 3mila euro in più nel proprio emolumento sostitutivo accessorio, comprensivo dei compensi per il lavoro straordinario, la produttività collettiva e la qualità della prestazione individuale (e che sostituisce il trattamento economico accessorio previsto dai Ccnl), per un totale di 39.470 euro annui.
Aumento – il più considerevole – anche per Erika Capasso, che conta diverse deleghe (da quartieri e immaginazione civica alle politiche per il terzo settore, dal bilancio partecipativo all’inchiesta sociale) e riceverà 18.670 euro in più (arrivando allo stesso ammontare di Di Gioia).
Gli altri aumenti riguardano Marco Tufano, Antonella Masciulli e Angela Surace, inizialmente assunti come collaboratori del sindaco e inquadrati nella cosiddetta ‘area istruttori’, che dal primo gennaio passano invece a un nuovo inquadramento, cioè quello di ‘area funzionari’, con una maggiore spesa di 11.747 euro all’anno per il Comune.
In virtù del nuovo inquadramento, riceveranno a loro volta un nuovo emolumento sostitutivo accessorio, pari a 13.300 euro annui.
Sul caso interviene Francesca Scarano, consigliera del Misto: “Sono rimasta basita: non si capisce il motivo di un aumento che, in alcuni casi, è pari allo stipendio annuo di una persona – incalza Scarano –. Sono importi importanti, in una fase delicata, ma soprattutto non è chiara la giustificazione”.
Nel documento di Palazzo d’Accursio, la motivazione è dettata dal fatto che “i Comuni operano in una realtà caratterizzata da problematiche interconnesse e sempre più accentuate, con un costante aumento della complessità, che si riflette sulle attività degli amministratori e dei loro collaboratori, chiamati a dover gestire impegni e relazioni istituzionali sempre più frequenti, ampie e articolate”.
E ancora: “Il sindaco, consapevole delle sempre più complesse funzioni a cui sono adibiti i collaboratori, che comportano grande flessibilità e variabilità dell’orario di lavoro, ha ritenuto opportuno proporre gli aumenti”.
Motivazioni che non lasciano tranquilli i membri di Fratelli d’Italia: “Lepore trova i fondi per aumentare gli stipendi ai suoi collaboratori, mentre non ascolta i dipendenti comunali che, da mesi, sono in stato di agitazione – sferza la consigliera Manuela Zuntini –. Sembra una presa in giro agli altri dipendenti, che non meritano la stessa attenzione, nonostante siano impegnati su progetti comunque fondamentali”.
nessun indagato né titoli di reato. Saranno acquisiti tutti i documenti relativi alla Torre dal 2019 a oggi
’espostoè stato depositato in Procura due settimane fa dai consiglieri di Fratelli d’Italia. E la Procura ha aperto un fascicolo al riguardo, benché al momento resti contro ignoti e senza titoli di reato. Nessuna sorpresa: è un atto dovuto di fronte a una denuncia di questo tipo. A fare luce sulla vicenda, coordinati dal pm incaricato, saranno i carabinieri.
Il tema in questione è quello della ’grande malata’, la Torre Garisenda, e del suo pericolo di crollo. Nel mirino dei meloniani, gli amministratori del Comune, presenti e passati, che accusano di avere ignorato ripetute sollecitazioni urgenti sulle precarie condizioni della Torre presentate loro dai Comitati tecnici dal 2019 in poi.
Per questa ragione nell’esposto – firmato dai consiglieri comunali Stefano Cavedagna, che è il capogruppo, poi Francesco Sassone, Manuela Zuntini, Fabio Brinati e Felice Caracciolo – i reati ipotizzati erano quelli di omissione o rifiuto di atti d’ufficio e omissione di lavori in edifici o costruzioni che minacciano rovina.
ra,starà all’autorità giudiziariavalutare se reati di questo tipo possano essere imputati a qualcuno, e nel caso a chi. Per prima cosa naturalmente andrà reperito tutto il materiale legato alla questione Garisenda dal 2019 a oggi, per fare chiarezza sulle segnalazioni ricevute e sulle mosse adottate dalle amministrazioni per prendersi cura del simbolo della città. Verbali che, se gli inquirenti lo riterranno necessario, potrebbero comprendere anche l’ormai famoso materiale “non protocollato” costituito dagli appunti delle riunioni del comitato tecnico-scientifico sulla Torre.
Atti che l’opposizione chiede a gran voce, ma che non sono stati ancora consegnati perché in fase di riordino; lo saranno non appena verranno sistemati, ha assicurato il Comune. Ma non molla il capogruppo in Comune di FdI Stefano Cavedagna, che commenta così l’apertura del fascicolo a seguito dell’esposto suo e dei suoi colleghi: “Abbiamo massima fiducia nei confronti delle indagini della Procura. Il nostro esposto è un atto dovuto a fronte dell’inerzia del Comune che ha manifestato gravi ritardi nel monitoraggio della Torre. Piuttosto, il Comune ci fornisca subito tutti i verbali del Comitato dal 2019, dove il Comitato stesso riportava i gravi rischi per la torre e la cittadinanza. Perché li tengono nascosti?”.
In ogni caso, sta ora agli inquirenti valutare se esistono una o più ipotesi di reato e se esse siano attribuibili a qualcuno che abbia agito con dolo. Le indagini sono ancora in fase iniziale, perciò potrebbero ancora prendere qualsiasi direzione, compresa quella di un’archiviazione.
Quando le esigenze della politica superano quelle
del territorio,
allora il territorio non conta niente.
Si potrebbe riassumere così, riadattando una famosa battuta cinematografica, il rimpasto della giunta metropolitana deciso l’altro giorno dal sindaco Matteo Lepore, e che ha fatto seguito a quello, solo di deleghe, che ha interessato Palazzo d’Accursio.
In Comune, il sindaco ha proceduto a una diversa assegnazione di compiti senza cambiare la squadra, anche alla luce delle nuove esigenze dettate dal caso Garisenda.
Ma in Città Metropolitana, complice il rinnovo forzoso della giunta imposto dalle amministrative della prossima primavera, il sindaco ha ribaltato il tavolo con la nomina dell’ex deputata grillina Giulia Sarti ad assessore alla lotta contro le mafie e agli affari istituzionali, deleghe che avrà anche in giunta comunale.
Una scelta dal chiaro sapore politico, rivendicato dallo stesso Lepore come modo per rinsaldare l’asse Pd-5 Stelle, con un occhio rivolto al passato e uno al futuro: mettere un pentastellato in giunta significa ristabilire l’equilibrio politico della coalizione che lo aveva portato a Palazzo d’Accursio due anni fa – e che nel frattempo aveva perso la componente del Movimento, visto che Bugani e Piazza hanno traslocato nel Pd – e, allo stesso tempo, ribadire che Bologna crede nell’idea di un’alleanza tra dem e grillini per Comunali e Regionali.
Ma a parte questo ruolo della città come avanguardia del ‘nuovo’ centrosinistra, la componente territoriale del rimpasto è pressoché inesistente. E non è un bene. Non è la prima volta che in politica si vedono nomine dettate più da ragioni strategiche che amministrative, e non sarà nemmeno l’ultima, ma questo rimpastino rischia di avere due conseguenze non indifferenti.
La prima è relegare Bologna a un modello politico isolato dal resto d’Italia e senza un vero appoggio nazionale (saranno le urne a decidere se la mossa si sarà rivelata lungimirante), la seconda è certificare il ruolo della Città Metropolitana, soprattutto nella percezione dell’opinione pubblica, a ente di secondo livello utile solo come camera di compensazione per le esigenze contingenti dei partiti.
E non, come dovrebbe essere, quale attore istituzionale in grado di raccordare e tenere insieme esigenze sempre più divergenti del capoluogo e della sua provincia. Un ente, in definitiva, buono per distribuire qualche delega agli scontenti, ai senza rappresentanza e poco altro. Questo sì che sarebbe il trionfo dell’antipolitica, altro che l’abolizione delle Province.
La trasformazione del capoluogo emiliano
raccontata attraverso un incontro notturno,
la mostra di Muna Mussie al MAMbo e il film This Is Bologna.
Siedo tra i tavoli esterni di un bar di Bologna, in compagnia di un amico e un’amica. È una calda notte di un giorno infrasettimanale di giugno, la città ormai è vuota e beviamo un amaro e due americani sotto il portico illuminato dai neon. Uno sconosciuto, a occhio e croce sulla sessantina di anni abbondante, si avvicina al tavolo barcollando e, saltando le presentazioni, ci affronta con una domanda. “Tom Waits o Robert Wyatt?”. “Robert Wyatt”, rispondo. Lo sconosciuto, chissà perché, è risentito. Non si degna di commentare la risposta.
È ubriaco e vuole unirsi al gruppo. Forse è offeso perché i suoi gusti propendono per il cantautore dalla voce roca Tom Waits, o forse, ipotesi che mi sembra più probabile, lo sconosciuto è saturo di quella vena polemica e di quello spirito di contraddizione che spesso s’impadroniscono di chi ha bevuto troppo. Per via della barba lunga e dei capelli bianchi e arruffati, e degli occhi a palla e azzurri iniettati di sangue, sulle prime ho l’impressione che si tratti di un clochard erudito, in ogni caso di qualcuno che è in cerca di un pretesto per attaccare bottone. Il pretesto è una sfida giocata sul filo di colte preferenze musicali che affondano nella storia del rock. Quando poi l’uomo tira fuori dal portafoglio una carta di credito e reclama il proprio diritto a bere un drink e a sedersi al nostro tavolo, mi accorgo che in realtà potrebbe non essere un clochard.
È ancora la città paradossale dei calembour e delle scritte dotte e argute lasciate sui muri o si è trasformata in un luogo sempre più costoso, instagrammabile, foodificato?”
Forse è una delle tante figure eccentriche che popolano il centro di Bologna e il cui cuore batte fra i muri color senape e i pilastri tipicamente imbrattati da invettive (“12 anni di psicoanalisi, droga borghese per frustrati e violenti”), aforismi e caustiche storielle surreali scritte a pennarello. Uno dei due amici seduti al tavolo prende l’iniziativa e chiede allo sconosciuto di nominargli tre musicisti, non di più, che a suo parere meriterebbero di varcare le porte del paradiso, ma lo sconosciuto si rifiuta di rispondere, non apprezza l’invito a giocare, come se spettasse soltanto a lui il diritto di fare domande. Si sente un dio. Tanta distinzione e scontrosità mi ricordano il temperamento proverbialmente polemico di un famoso artista bolognese, lo scrittore e fumettista Filippo Scozzari. Quindi lo sconosciuto alza la posta e chiede, con voce stentorea e sbiascicata: “Paolo Poli o Vittorio Gassman?”.
Non riesco a capire se lo sconosciuto sia uno straniero (per qualche secondo mi viene il sospetto che sia un americano trapiantato a Bologna, come a suo tempo lo furono i musicisti Mike Patton e il povero Philippe Marcade, appena scomparso) o se sia invece un italiano che parla con un accento molto specifico, forse originario di qualche remota valle alpina, magari arrivato a Bologna nei lontani anni Settanta (magari un “facocero del DAMS”, espressione usata, mi pare, da Stefano Tamburini) o approdato nei tondelliani anni Ottanta e mai più ripartito. “Vittorio Gassman”, rispondo. In quel momento un fragore proviene dalla strada, come un mucchio di ferraglia e lamiere precipitato dal cielo e caduto di schianto sull’asfalto. Quel fracasso improvviso probabilmente aziona una leva nel cervello pieno di alcol dello sconosciuto e smuove così un ricordo, associato al rumorismo praticato da una vecchia band industrial berlinese, gli Einstürzende Neubauten, un tempo famosi per l’uso dei martelli pneumatici come strumento musicale. Lo sconosciuto, infatti, con aria di sfida ci rivolge una terza domanda: “Einstürzende Neubauten”, dice, “prima o dopo la caduta del muro di Berlino?”. Intende chiederci se preferiamo i primi Einstürzende Neubauten o quelli successivi, degli anni Novanta.
Sono quasi le due di notte. Il barista s’intromette nello scambio e ci avverte che il locale sta chiudendo, così poco dopo ce ne andiamo tutti, lo sconosciuto da un lato del portico, io e gli altri due amici nella direzione opposta. Prima di salutarci, però, ecco un’altra visione: in strada un grosso ratto si muove fulmineo sotto la luce arancione dei lampioni, facendo la spola tra due luridi bidoni della spazzatura, secondo traiettorie che sembrano illogiche, ma che dovranno pur avere un senso e una ragione. Il topo e l’ubriaco mi sembrano entrambi manifestazioni di un unico genius loci bolognese, che forse presto una macchina riuscirà a catturare e prevedere grazie all’analisi di una montagna di numeri, dati e metadati.
Quando Pasolini afferma che dentro le vecchie case di Bologna abitano ‘gli stessi che ci abitavano prima’, sta dicendo che il PCI ha protetto la città da ciò che molti anni più tardi chiameremo ‘gentrificazione’.
Il giorno dopo mi risveglio col mal di testa, ancora stupito dal doppio incontro notturno avvenuto in una traversa della centrale via Indipendenza. Mi tocca ammettere di non essere più molto abituato all’imprevisto e alle apparizioni, vivendo da molto tempo a Milano, città ricca di eventi, ma povera di casualità e mistero. Se penso alle apparizioni a cui ho assistito da quando vivo a Milano, non mi viene in mente granché. Forse la volta in cui, seduto in un bar di via Abbondio Sangiorgio, ho chiesto a un tale di passarmi il Corriere della Sera e quel tale, in occhiali da sole, era Fabio Concato, l’autore di Domenica bestiale. Forse la notte in cui vidi sul tram numero 2 una ragazza dall’aria timida e traumatizzata, seduta accanto alla madre che la teneva per mano. La ragazza era una lattea e biondissima albina africana, che come tale, stando a quanto avevo letto una volta su un settimanale, poteva avere subito in passato qualche forma di persecuzione o poteva aver sofferto lo scherno e la derisione dei compagni di classe. Ma che città è, invece, Bologna? È ancora la città paradossale dei calembour e delle scritte dotte e argute lasciate sui muri (“Vacillo tra un pensiero leopardiano ed hegeliano”, su un muro di via Parigi) o si è trasformata in qualcos’altro, in un luogo sempre più costoso, instagrammabile, foodificato, spersonalizzato e vocato allo shopping, come lo sono diventati certi quartieri di Roma, di Milano e molti borghi turistici e luoghi di villeggiatura?
Proprio come sta capitando tra gli abitanti di altre città italiane e del mondo, ho la sensazione che anche i bolognesi si stiano interrogando sul presente e il futuro della loro città. Me ne sono accorto osservando e ascoltando (e anche leggendo per strada la frase stampata sui manifesti di una campagna di adbusting: “Questa città non è un albergo. Diritto alla città”). Ma voglio provare ad approfondire la riflessione, a partire da una mostra dell’artista Muna Mussie, che racconta una storia inerente un’epoca non troppo lontana, e dal film in dieci episodi This Is Bologna, scritto e prodotto da Opificio Ciclope, che invece riguarda un passato/presente.
Bologna St.173.Un viaggio a ritroso. Congressi e Festival Eritrei a Bologna è il titolo di una mostra inaugurata a giugno 2023 nella project room del museo MAMbo di Bologna. Muna Mussie, insieme alla curatrice Francesca Verga, ha recuperato da più archivi una serie di foto, video, volantini e documenti di varia natura. Raccontano una vicenda molto particolare, di cui si può dire che si fosse persa la memoria. È la storia dei Festival eritrei che si sono tenuti a Bologna, in estate, per quasi venti anni, ininterrottamente dal 1972 al 1991. Centinaia di uomini e donne della diaspora eritrea convergevano a Bologna da mezza Europa, con le loro complessioni snelle, la naturale e sconcertante eleganza delle fisionomie, gli occhi scuri, accesi e spesso curiosi di tutto, che ha chi si ritrova per qualche giorno sbalzato in un luogo che non conosce. Lo si intuisce guardando alcune delle foto alle pareti. A Bologna s’incontravano per discutere e sostenere la lotta per l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia. La lotta per l’indipendenza era guidata dal Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo (FLPE), un movimento di emancipazione di stampo marxista e apparentemente caratterizzato da un insolito protagonismo femminile, documentato nelle foto in mostra.
Le foto esposte nella project room del MAMbo – insieme ai video in VHS recuperati da Mussie, molti dei quali furono girati dall’operatore freelance e documentarista bolognese Giorgio Lolli – ci mostrano le facce e i corpi della diaspora africana, radunati all’interno di tensostrutture e sui palchi allestiti con il supporto dell’amministrazione bolognese e della regione Emilia-Romagna. Sarebbe fin troppo facile cedere al fascino guerrigliero del marxismo africano e degli eritrei e delle eritree del FLPE. Forse il passaggio più significativo (e a suo modo toccante) della mostra sono le lettere scambiate fra gli organizzatori eritrei delle varie edizioni del festival e i due sindaci comunisti e un terzo post-comunista che si sono succeduti alla guida della città di Bologna. Da Renato Zangheri (1970-1983) a Renzo Imbeni (1983-1993) e Walter Vitali (1993-1999). Si tratta di comunicazioni, in realtà, poco più che formali e burocratiche, aperte in un’occasione da un “caro compagno”, che testimoniano la grandezza e diversità irripetibile del Partito Comunista Italiano (ed emiliano e bolognese), capace, trenta o quarant’anni fa, della volontà politica necessaria ad accogliere, anno dopo anno, migliaia di esuli eritrei, aprendo loro le porte della città e mettendo disposizione spazi, mezzi e servizi.
Al centro della project room, sul pavimento della sala, è stato steso l’ingrandimento di un dettaglio della cartina di Asmara, capitale dell’Eritrea. La mappa mostra ai piedi del visitatore il lungo tratto nero della Bologna street che dà il titolo alla mostra di Muna Mussie. La presenza in Asmara di una strada dedicata alla lontanissima Bologna, prova l’esistenza di un legame speciale e non coloniale tra una città comunista della pianura padana e un paese del corno d’Africa. Mussie sottolinea il valore di questo rapporto mediante la posa di una polvere argentata sopra la traiettoria di Bologna street segnata sulla mappa, così come un filo argentato ricama affettuosamente alcune vecchie pagine del Resto del Carlino, incorniciando l’articolo dove si dà notizia dell’arrivo delle folle eritree. A monte di questa vicenda di scambio e fratellanza, ci fu quindi, negli anni Settanta e Ottanta, l’impresa di una classe dirigente che ha segnato la storia e la vita di Bologna. Eppure, paradossalmente, il PCI venne combattuto non solo dai suoi avversari di destra e centro, ma anche dalla sinistra extraparlamentare del periodo, che spesso non si limitò a contestare e criticare il PCI, ma lo detestò e lo volle odiare.
Volendo, il lavoro di Muna Mussie dialoga con un particolare di una vecchia opera esposta in un’altra sala del MAMbo. È il celebre dipinto I funerali di Togliatti, opera del 1972 del comunista Renato Guttuso. Nella folla dei partecipanti al corteo funebre in onore del segretario comunista Togliatti, oltre ai militanti comuni, e poi, tra gli altri, Leonid Breznev, Gian Carlo Pajetta, Elio Vittorini e Jean Paul Sartre, troviamo anche l’attivista afroamericana Angela Davis, con la chioma afro che sfiora le tempie dell’attore Edoardo De Filippo.
Sul PCI alla guida dell’amministrazione di Bologna ha pronunciato un giudizio particolarmente lucido il bolognese di nascita Pier Paolo Pasolini, in occasione di una lezione tenuta in un liceo scientifico di Lecce, nell’ottobre del 1975, una decina di giorni prima di morire all’Idroscalo di Ostia. “Che ruolo hanno avuto i comunisti a Bologna? Hanno avuto una funzione conservatrice”, disse Pasolini,
hanno conservato il centro storico, hanno fatto in modo che la conservazione fosse fatta bene, hanno tenuto le case fuori e dentro così com’erano, le hanno rimesse a posto, rese moderne, quindi niente miseria, niente umidità, però ci abitano dentro gli stessi che ci abitavano prima. I rapporti sociali a Bologna, il tipo di vita bolognese, è ancora, come si dice un po’ retoricamente, a dimensione umana. I comunisti hanno svolto una funzione in fondo conservatrice […].
Attraverso una capriola dialettica, che ancora oggi ribalta gli schemi e il senso comune della sinistra, Pasolini riconosce al partito votato dagli operai e dalla borghesia progressista italiana una funzione in realtà “conservatrice”, ma positiva. Insomma, Pasolini invita a considerare il paradosso per cui gli effetti di un’azione conservatrice possono rivelarsi più socialmente avanzati dei presunti progressi della modernizzazione. E quando Pasolini afferma che dentro le vecchie case di Bologna abitano “gli stessi che ci abitavano prima”, sta in sostanza dicendo che il PCI ha protetto la città da ciò che molti anni più tardi chiameremo “gentrificazione”.
Ma che cosa resta della città che nel 1975 si prese le lodi e i complimenti di Pier Paolo Pasolini? La risposta probabilmente non sta in This Is Bologna, documentario a episodi di 75 minuti, partorito da una realtà bolognese nota come Opificio Ciclope. Ogni episodio è focalizzato sul racconto di una vicenda parziale e stravagante, di un’ossessione, di una figura umana particolare, di un business atipico o di un luogo marginale. Una voce narrante accompagna le immagini con un’intonazione da letteratura fantastica:
Gli autobus di Bologna non si fermano mai. Il Notturno 61 prima o poi arriva. ruggendo nell’afa silenziosa delle notti di agosto, fendendo la nebbia di febbraio […] Il suo percorso bustrofedico è un mulino di preghiera tibetana […] Non si verrà mai depositati nell’oscurità, troppo lontani dalla porta di casa.
Come un viaggiatore romantico del XIX secolo, This Is Bologna va in cerca dell’illusione, del mistero, del pittoresco, della rovina, del weird e del bizzarro felsineo. Ciò che è eventualmente diventata Bologna resta fuori campo, forse perché non è ritenuto di grande interesse. L’episodio d’apertura riguarda la vicenda di una donna che negli anni Ottanta, scavando sotto una casa di via Fondazza, trovò due cippi votivi che anticamente segnavano l’ingresso nel villaggio etrusco preesistente all’odierna Bologna. Seguono un racconto del mestiere dei vecchi barbieri, rimpiazzati da nuovi maestri del taglio, provenienti da remote regioni del mondo (“Nuove città sostituiscono le precedenti, un granello di sabbia alla volta”, commenta il voiceover) e poi le interviste alla titolare e a un cliente dell’ultimo cinema porno di Bologna, alternato alle voci di un gruppo di frequentatori del circolo LGBTQI+ del Cassero, inventori di un buffo gioco da tavolo. Il sottotitolo del film di Opificio Ciclope non lascia indifferenti: “Stiamo guardando qualcosa per l’ultima volta senza saperlo”. Ricorda l’incipit del romanzo Gli anni di Annie Ernaux:
Tutte le immagini scompariranno. La donna accovacciata che, in pieno giorno, urinava dietro la baracca di un bar al margine delle rovine di Yvetot, dopo la guerra, si risistemava le mutande con la gonna ancora sollevata e se ne tornava nel caffè; il volto pieno di lacrime di Alida Valli mentre ballava con George Wilson nel film L’inverno ti farà tornare […].
“Stiamo guardando qualcosa per l’ultima volta senza saperlo” e “Tutte le immagini scompariranno”. Il punto di vista di Opificio Ciclope non è amaro né apocalittico come ci si potrebbe aspettare. È lo sguardo non perturbabile dello stoico che accetta il mutamento e le sue leggi, mentre osserva con distacco e ironia l’inesorabile modificarsi del paesaggio, accogliendo ciò che di buono e saporito è nel nuovo e scoprendo fra le pieghe del tempo presente nuove apparizioni. A proposito di apparizioni. C’è un cortometraggio dimenticato di Bernardo e Giuseppe Bertolucci, tutto girato a Bologna. Dura nove minuti e risale al 1989. Venne prodotto dall’Istituto Luce in occasione dei mondiali di Italia 90. Un gruppo di bambini gioca a nascondino e si rincorre tra le torri e piazza Maggiore, fino al santuario di San Luca, in una città completamente e assurdamente deserta, fino a quando all’imbrunire non spunta una banda di paese che suona l’Internazionale.
Risultato deludente per il primo cittadino di Bologna: solo il 56,5% lo confermerebbe
Matteo Lepore non si riconferma nella top ten dei sindaci italiani più amati. Il primo cittadino di Bologna si deve accontentare solo della diciassettesima posizione nella classifica annuale stilata dal Sole 24 Ore.
Dopo un ottimo esordio nel 2022, quest’anno un balzo indietro netto. Nella ‘Governance Poll’ dello scorso anno Lepore aveva ottenuto un incoraggiante quinto posto, ex aequo con Gaetano Manfredi, primo cittadino di Napoli.
Guida la classifica il primo cittadino di Milano Giuseppe Sala con il 65% dei consensi, mentre nella graduatoria dei governatori più amati successo per Stefano Bonaccini.
Questo è il risultato pubblicato oggi della diciannovesima edizione del sondaggio sul consenso dei governatori di regione e dei sindaci dei Comuni capoluogo realizzato da Noto Sondaggi.
Secondo lo studio, che ha preso in considerazione 87 comuni capoluogo di provincia, ad oggi il 56,5% dei bolognesi voterebbe a favore di una rielezione di Matteo Lepore. Un dato negativo rispetto al giorno delle elezioni, quando nel 2021 il neo eletto sindaco di Bologna ottenne il 61,9% dei voti.
Un calo di 5,4 punti percentuali rispetto alle urne e di 3 punti rispetto al sondaggio dello scorso anno, quando Lepore aveva ottenuto il 59,5% di gradimento da parte del campione di cittadini bolognesi intervistato.
Ma Lepore, soprattutto a sinistra, non è l’unico ad aver peggiorato la propria posizione in classifica: tre sindaci di centro-sinistra su quattro, infatti, si sono piazzati peggio nella graduatoria del Sole 24 Ore rispetto al 2022.