L’imborghesimento urbano, e la tenace suscettibilità da codice postale (linkiesta.it)

di

Rozzano siamo noi

Provate a dire qualcosa di Roma, Napoli o Bologna e ve la dovrete vedere con gli offesi locali.

Anche nell’hinterland milanese se la prendono quando Fedez allude a un suo passato estremo in quanto rozzanese, dimenticando la cosa più importante: è di Buccinasco

Era la fine degli anni Ottanta, ero in gita a Roma, in visita a cugini colà residenti. Oggi i liceali porterebbero la cugina in visita a instagrammarsi ai Musei Vaticani, all’epoca non c’era necessità di fotogenia e quindi mi fecero fare l’esperienza più estrema della mia vita: prendemmo un autobus per andare a comprare il fumo a Portonaccio.

Successivamente avrei abitato a Roma per diciassette anni, e non solo a Portonaccio non sarei in diciassette anni mai tornata, ma neanche l’ho in diciassette (più altri sedici) anni mai più sentito nominare. Per citarlo in questo articolo (magari era un falso ricordo) l’ho cercato su Google, e tra i primi risultati m’è uscito il titolo “Portonaccio e Pietralata: l’altra Roma tra Soho e via Margutta”.

Non c’è periferia il cui degrado sia più forte del bisogno di metterli da qualche parte, questi esponenti del turismo di massa, della necessità di riqualificare tutto, di riconvertire tutto in bed and breakfast. L’imborghesimento urbano fattura ormai più del commercio di droga.

(Per l’intero giro di frase del paragrafo precedente ho pensato al Sanremo 2011, all’intervista di Elisabetta Canalis a Robert De Niro, all’Italia intera di opinionisti da divano che sui social sbeffeggia lei che non sa tradurre «gentrification», per poi passare i successivi tredici anni ad altrettanto non sapere come tradurlo in quella lingua morta che è l’italiano, e quindi ricalcarlo mettendo una vocale alla fine).

In quegli stessi anni, Achille Occhetto annunciò la fine del Pci nella sezione della Bolognina, meno di tre chilometri a piedi dove abitavo e dove ero cresciuta, ma a Bologna tre chilometri sono una distanza intercontinentale, e leggendo della Bolognina sui giornali avevo la percezione d’esotismo che ricavavo dagli articoli su New York (anzi meno: a New York ci ero stata).

Trentacinque anni e non so quanti nomi di partito dopo, non sono più sicura di non essere mai stata alla Bolognina: di recente un tassista mi ha lasciato in via dei Carracci perché aveva una specie di suv o come si chiamano, troppo alto per entrare nel sottopassaggio che porta all’infernale stazione dell’alta velocità.

Via dei Carracci è Bolognina, no? Posso dire d’essere stata in periferia, o è come quando prendi una coincidenza all’aeroporto di Amsterdam e non vale come aver visitato l’Olanda? E, soprattutto, se la periferia è ormai divenuta fighetta sempre per il meccanismo spiegato da De Niro alla Canalis, fa punteggio esotico quanto la periferia degradata?

Sì, lo so che ora arriveranno quelli che mi dicono che la Bolognina non è periferia come ti permettiiii. I bolognesi sono romani in sessantaquattresimo, convinti che tutto sia centro. Conosco romani residenti un paio di chilometri oltre san Giovanni che ti dicono che quello è centro: io avrei già delle obiezioni al considerare centro piazza Barberini.

È meno centro la periferia di quei dieci centimetri quadrati di città che è Bologna, dove qualunque forestiero di passaggio ti guarda con lo sguardo di chi si sente originalissimo citandoti il «non si perde neanche un bambino» di Dalla, o di una città sterminata come Roma, sterminata e quindi più autorizzata a estendere il concetto di «centro»? Se Portonaccio è Soho, vale tutto, anche considerare la Bolognina un Meat Packing District coi negozi più brutti?

E De Niro è ancora preoccupato per la gentrificazione (ecco, ho usato la parola più orrenda della neolingua, spero siate contenti, voialtri che vi preoccupate per «apericena» e non per i veri orrori), o dobbiamo prendere per significativo il suo essersi quest’estate schierato (assieme ad altri ricchi e famosi teoricamente di sinistra, da Patti Smith a Martin Scorsese) contro la costruzione di case popolari, a New York, al posto dei giardinetti di Elizabeth Street? La gentrificazione è brutta, ma essere ricchi coi giardinetti sotto casa è meglio che essere ricchi coi poveri per vicini di casa, no?

Tutti questi interrogativi filosofici li avevo accantonati l’altro giorno, quando sui giornali è uscita la notizia che l’ex marito della Ferragni, in mezzo a non so quale dei casini dai quali i due sono oberati al momento, avrebbe detto di non so chi «Lasciatemi, lo ammazzo, io sono di Rozzano».

Li avevo accantonati perché mi ero messa a ripensare a quando mi avevano raccontato di lui che diceva che mettersi a litigare sui social era il meno. La frase riferita faceva più o meno così: io sono di Rozzano, la metà dei miei amici sono morti e l’altra metà in galera, è già tanto se non finisce a coltellate.

Era vera? Non era vera? Non importa: mi era piaciuta moltissimo, era stata la prima volta in cui mi aveva fatto simpatia. Anche se c’era un problema in questa citazione riferita di terza mano: Federico Lucia non è di Rozzano, è di Buccinasco.

Lo so perché, quando aveva fatto un concerto in Duomo, aveva detto che per lui cantare in Duomo era una grande emozione perché «io sono di Milano». E io ero andata a controllare di che banlieue fosse, onde essere informata mentre pensavo: ma non è di Milano. Se sei dell’hinterland ma il sabato pomeriggio da piccolo facevi le vasche in san Babila, sei di Milano? Se sei dei sobborghi ma finalmente vivi a piazza Castello, sei di Milano?

(Secondo me sì. Secondo me sei di dove abiti, e infatti a Bologna ho dovuto smettere di portare i vestiti al lavasecco di proprietà d’una cinese che mi restituiva le cose senza averle lavate. Se vivi a Bologna prendi le caratteristiche locali, la principale delle quali è la non voglia di lavorare. Quando pensate che i cinesi siano gran lavoratori, è perché pensate ai cinesi milanesi. O ai cinesi rozzanesi).

«Non ci riferiamo solo a questo episodio e non abbiamo nulla contro Fedez, ma siamo stufi di essere etichettati così. Rozzano ha i suoi problemi e le sue criticità, ma li affrontiamo a testa alta». Lo dice alle pagine milanesi del Corriere un imprecisato rozzanese dell’amministrazione comunale, e non c’è di che sorprendersi: tra tutte le suscettibilità, quella con matrice il codice postale è la più tenace.

L’unica eccezione sono proprio i milanesi, forse perché non esistono: a Milano la gente arriva, non nasce, e quindi nessuno si picca di difendere la città in cui vive, essendo impegnato a offendersi a nome di quella in cui è nato. Ma provate a dire qualcosa di Roma, di Bologna, di Napoli, e vi troverete sommersi di notifiche da parte degli offesi locali (alcuni dei quali difendono il buon nome della città d’origine ma col cazzo che ci vivono, essendo la città d’origine in genere persino peggio di come l’avete descritta offensivamente voi).

«Rozzano siamo noi. La nostra è una comunità di gente per bene, persone oneste che vivono la città ogni giorno con senso civico, rispetto delle regole e attenzione al bene comune che non hanno nulla a che fare con la malavita», scrive in una lettera aperta il sindaco, e io vorrei obiettare ma non riesco a capire se in «sono di Rozzano» Rozzano sia sineddoche o metonimia (metti che obietto con la figura retorica sbagliata e poi vengo corretta dal sindaco di Rozzano, che umiliazione).

Chissà se a Roma qualche esponente dell’undicesimo municipio ha messo per iscritto la propria indignazione per il disinvolto uso dell’espressione «banda della Magliana». Me lo chiedo andando avanti a leggere la lettera aperta del sindaco rozzanese, su Facebook. «Siamo stanchi di essere identificati con etichette negative che dipingono Rozzano come sinonimo di malavita. Questa reputazione non ci appartiene, e lo affermiamo con determinazione e orgoglio». Non trovo l’unica frase che mi aspettavo: «E comunque quello è di Buccinasco».

In compenso il post subito sotto è una foto di materassi con scritto «Perché abbandonare gli ingombranti sulla strada senza chiamare il servizio GRATUITO di Ama per programmarne il ritiro?». Diceva la canzone che «gli altri siamo noi, ma qui sulla stessa via, vigliaccamente eroi, lasciamo indietro i pezzi di altri nomi», e vale anche per i rozzanesi.

Che non sono malavitosi, solo gente che molla i rifiuti per strada. Tali e quali ai bolognesi, ai romani, ai napoletani.

Bologna 2021-26 / Musica e pioggia più che contestazione: Street rave sotto tono (corriere.it)

di Marco Merlini

Circa duemila i presenti. Disagi alla circolazione

Tanta pioggia, tanta musica, ma poca contestazione.

Street rave parade in tono minore quella andata in scena ieri organizzata dal Movimento arti libere. Nonostante i buoni propositi dei promotori che avevano annunciato dieci sound system intorno alle 15 non erano che quelli parcheggiati all’interno del parco di villa Angeletti.

La manifestazione era annunciata con un tema dominante, la denuncia del clima di repressione che si vive in questi ultimi tempi nelle città italiane. La stretta del governo, con i decreti anti-rave promossi un paio di anni fa, è stata la molla da cui è scaturita la protesta e che ha messo in moto la macchina organizzativa. In realtà, a conti fatti, al di là di qualche slogan lanciato dai vocalist sui furgoni, nessuno striscione è stato esposto per rendere manifesto il tema della parata.

Una parata che è stata in forse per ore: la partenza, inizialmente annunciata per le 17, è slittata alle 18. Ma le precipitazioni consistenti hanno spinto gli organizzatori a prendere tempo. Il continuo via vai di ragazzi all’interno del parco ha presto convinto tutti della necessità di dare comunque il via alla festa. Ritmi incalzanti e balli di massa per i circa duemila ragazzi, provenienti da tutta Italia e incuranti del meteo ingeneroso.

Intorno alle 18,30, con la fine della pioggia e una piccola lama di sole ormai al tramonto, è arrivata la comunicazione del via al corteo.

Nel frattempo il parco si era trasformato in una latrina a cielo aperto, con rifiuti sparsi ovunque e bisogni fisiologici espletati tra muretti e alberi.

Poco dopo le 19 è arrivata la chiamata alle armi, tutti in fila, dietro i furgoni per cominciare la lunga parata che da via Carracci, attraverso mezza Bolognina, ha portato i manifestanti alle Caserme Rosse. Con la promessa di ballare e sballare fino a notte fonda. A scortare il lungo serpentone danzante oltre alle auto della polizia, alle moto della municipale e a un’ambulanza, anche alcuni addetti con fascia arancione al braccio, a cui i ragazzi potevano rivolgersi in caso di bisogno.

Leggi ancheStreet Parade, notte da incubo. La rabbia dei residenti: “Caos e musica fino al mattino”

Bologna 2021-26 – Arte in catene per la politica (corriere.it)

di Flavio Favelli

Se il sindaco vuole solo un’arte «di servizio»

Pochi giorni fa in Sala Borsa, il sindaco e l’ex delegata alla cultura, hanno presentato il libro insieme all’autrice Milena Naldi, Arte pubblica a Bologna, Sculture dal dopoguerra ad oggi , edito da Pendragon, che raccoglie 75 opere: due terzi sono state commissionate e sono dedicate a eventi e fatti della città; la metà sono dedicate a morti e caduti.

Prevale quindi l’idea di un’arte commemorativa che deve rispondere a una società che vede nell’arte una sentinella della memoria. Negli ultimi dieci anni, su tredici sculture, dodici sono state commissionate per uno scopo preciso; l’artista viene così interpellato per cercare di risolvere le esigenze concrete della città o per fare monumenti funerari.

Così le opere d’arte nello spazio pubblico sono considerate solo come mezzo e nemmeno così autonome rispetto alle opere pubbliche sui generis; come scrive il sindaco nel catalogo della mostra: «Le opere pubbliche, d’arte e non solo (sic! ndr), sono lo specchio della società che le commissiona e le realizza…

Questa è una responsabilità che sentiamo molto forte nel ridefinire lo spazio pubblico e urbano nel disegno urbanistico e culturale che stiamo portando avanti in questi anni. Un disegno che metta al centro le persone e la qualità della vita e delle relazioni, e dove l’arte può essere il punto di contatto tra lo sguardo delle persone e la città».

Un’introduzione chiara di un politico al libro Arte pubblica a Bologna, che dice cosa debba essere e fare l’arte, che, al pari dei marciapiedi e delle ciclabili, è fatta dalla società che le commissiona e serve a mettere «al centro le persone e la qualità della vita e delle relazioni», e, se proprio lo si vuole, l’arte «può essere il punto di contatto tra lo sguardo delle persone e la città».

Almeno nella Fontana del Nettuno, anche se comandava il Papa, c’è scritto oltre che «Fatta con soldi pubblici» e «Fatta ad uso del popolo», anche «Fatta per ornare la piazza», ma il sindaco, da robusto materialista, sulla questione estetica, che considera roba da élite, non ne vuole sapere.

D’altra parte nel lessico populista, come ha detto un altro sindaco robusto, quello di Venezia, commentando il Padiglione Italia all’ultima Biennale, «l’arte dovrebbe arrivare al cuore di tutti… non essere soltanto per le élite … ascoltare il popolo, ascoltare la gente…» Come pensa anche l’amministrazione bolognese e infatti sulla politica culturale e sull’arte non c’è nessuna differenza fra il sindaco di destra e quello di sinistra, perché il populismo ha le stesse idee: il popolo sovrano, come avviene nella Cina di oggi, perfetta sintesi fra antica tradizione e socialismo reale, taglia fuori gli intellettuali e decide, mediante i suoi delegati, che arte fare, la quale deve ascoltare il popolo ed essere fatta dalla società come scrive il sindaco di Bologna.

Del resto un riferimento dell’amministrazione bolognese è Kilowatt con la Serra Madre (forse di tutte le Battaglie e dell’Avvenire), dove l’arte esiste ed è ammessa solo perché dialoga con «centri di ricerca, aziende e cittadinanza sui temi legati a sostenibilità, innovazione e ambiente», al servizio di un MinCulPop.

O commemorazione di defunti o chiamata su commissione per cercare di risolvere qualche problema urbano o al verbo della nuova trinità, sostenibilità, innovazione e ambiente o per completare il disegno culturale di tipo sovietico, finalmente l’arte farebbe qualcosa di buono.

«L’arte serve o sparecchia?» Si chiedeva Achille Bonito Oliva e in una brillante intervista aggiungeva «è la necessità di un lusso; la sua funzione non è riducibile e cronometrabile in un ambito temporale breve; è il segno di una società libera dove non si pongono linee né di destra né di sinistra, né neorealismo né Novecento».

A Bologna, invece, siamo sicuri: l’arte serve, eccome.