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Il grottesco saluto di Schlein alla manifestazione di Conte, e il trionfo del populismo (linkiesta.it)

di

La sinistra disfatta

Sabato il Pd manderà i suoi dirigenti nella piazza della resa a Putin, dimostrando di non sapersi sganciare da chi maneggia la peggiore demagogia destrorsa e minaccia il mondo democratico

Nel sabato del grande ritorno gialloverde, con la manifestazione contiana a Roma e il congresso salviniano a Firenze, spuntano anche macchioline rosse a imbrattare la tavolozza populista-putinista che, come tale, è di destra.

Tralasciamo qui i veterocomunisti – se Giancarlo Pajetta fosse vivo li sbranerebbe – tipo Vauro, Pino Arlacchi, Moni Ovadia, Raniero La Valle, Roberta De Monticelli – che aderiscono all’adunata dell’avvocato del popolo perché contrari «ad attribuire alla Federazione russa il ruolo del nemico».

E neppure ironizziamo più di tanto sulla guest star Barbero professor Alessandro che parlerà dal palco senza ricordarsi – lo ha finemente notato Nicola Mirenzi sul Foglio – del suo maestro, il grande storico Marc Bloch che nel 1940 scriveva: «Ai pacifisti piaceva giocare con le parole e forse avendo perduto l’abitudine a guardare in faccia i loro pensieri si lasciarono prendere nelle reti dei loro stessi equivoci» (“La strana disfatta”).

Più importante è invece soffermarsi sulla presenza nella piazza contian-travagliana dei dirigenti del Partito democratico mandati in loco da Elly Schlein, che forse ci sarà anche lei per un bagnetto di folla, un saluto lo chiamano, come un’adolescente che passa il sabato pomeriggio al baretto degli amici, ma ci pensasse bene perché qualche fischio potrebbe pure partire.

Il Partito democratico infatti va ovunque. Questa partecipazione dei giovani dirigenti del Pd (sempre per la serie: Pajetta se fosse vivo li sbranerebbe) bissa quella dei medesimi dirigenti alla manifestazione del 15 marzo convocata da Michele Serra, che pur con una certa dose di ambiguità era sanamente schierata con l’Europa, per la sua difesa contro l’attacco congiunto Trump-Putin, per l’Ucraina, dunque esattamente il contrario dello spirito dell’iniziativa di Conte che è contro la politica di difesa dell’Unione europea così come è compendiata nella relazione approvata mercoledì dal Parlamento europeo anche con il voto favorevole del Partito democratico – che però vi è giunto dopo aver detto no al piano ReArm Europe poi recepito nel testo finale.

Ma non si può rendere un saluto a chi fa leva sulle paure sdoganando parole d’ordine populiste («i soldi non per le armi ma per gli ospedali») e falsamente pacifiste di chi ha ballato il valzer con la Russia in vari momenti e in diverse occasioni documentate mille volte da Linkiesta: Vladimir Putin, è persino triste doverlo ribadire, è un nemico della democrazia.

Il Partito democratico non si limiti a «giocare con le parole», come i pacifisti raccontati da Marc Bloch. Questa è una generazione di dirigenti del Nazareno ormai abituata a trucchetti, astensioni, assenze al momento del voto e supercazzole varie, nonché avvezza a sfidare la logica andando in una piazza che ripudiando la politica di difesa europea esprime il contrario di quello che loro stessi hanno votato due giorni fa.

E ci vanno in omaggio alla politica dell’occhiolino da strizzare al vecchio «punto di riferimento fortissimo dei progressisti», cioè a quel Conte-anguilla che sguscia di qua e di là e che bisogna perciò bloccare in una scatoletta di tonno giallorossa, intanto per vincere le prossime regionali e poi le politiche con un programma tutto salario minimo e stipendi per tutti.

Ma questa subalternità al trasformismo è un record da matti, una cosa inimmaginabile nella storia della sinistra italiana e europea. Altro che saluto, è la malattia mortale della politica che sabato esalerà in una pubblica piazza.

Quando la tregua somiglia a una resa (corriere.it)

di Aldo Grasso

Padiglione Italia

S’invoca la tregua in Ucraina.

Nel suo romanzo «La tregua», Primo Levi la descrive come «una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale», la sospensione del proprio destino in attesa di ricominciare una vita «normale». La tregua non risolve un conflitto, è solo un senso di requie e di speranza.

Ma quale speranza s’intravede nei negoziati fra Trump e Putin? Più che una tregua sembra una resa. In Italia viviamo in pace da 80 anni e forse non riconosciamo più il senso profondo di alcune parole: c’è una grande differenza fra tregua e resa. Resa significa cessazione di ogni resistenza di fronte al nemico, significa arrendersi, perdere qualcosa (la propria terra, la propria identità).

Parentesi nel conflitto o una speranza di cessate il fuoco?

Ma resa ha un significato ancora più vertiginoso quando diventa resa dei conti, il momento in cui ognuno dovrebbe affrontare le proprie responsabilità. L’odio di Trump per l’Europa rischia di rompere un’alleanza che non è solo militare o economica, ma espressione di una lunga visione condivisa della Storia e del mondo.

È la rinuncia incondizionata ai valori dell’Occidente, al rispetto dei diritti umani e delle libertà civili, allo stato di diritto, alla sovranità nazionale, alle democrazie liberali.

Per non dare tregua ai vili, quegli europei consapevoli di non essere «patetici parassiti» devono scongiurare con fermezza la resa.

Clinton, nel 2011 capii che Putin prima o poi avrebbe attaccato (swissinfo.ch)

(Keystone-ATS) 

Il Financial Time riporta citazioni di Bill Clinton in cui afferma di aver capito nel 2011 che era solo “una questione di tempo” prima che Vladimir Putin attaccasse l’ Ucraina.

Come riporta Ft in un articolo, Clinton lo capì dopo una discussione agghiacciante con il presidente russo al Forum economico mondiale (WEF) di Davos (GR). Durante quell’incontro, Putin rifiutò un accordo mediato dagli Stati Uniti concordato dal suo predecessore, Boris Eltsin, per rispettare il territorio dell’Ucraina in cambio della rinuncia di Kiev al suo arsenale nucleare dell’era sovietica.

“Vladimir Putin mi disse nel 2011 – tre anni prima di prendere la Crimea – che non era d’accordo con l’intesa che avevo fatto con Boris Eltsin”, ha ricordato l’ex presidente degli Stati Uniti.

“Disse: ‘non sono d’accordo. E non lo sostengo. E non ne sono vincolato”, ha aggiunto l’ex presidente degli Stati Uniti. “E sapevo da quel giorno in poi che era solo una questione di tempo”, conclude Clinton.

(L’ex presidente americano Bill Clinton e l’allora primo ministro russo Vladimir Putin a Davos (GR) nel 2009 KEYSTONE/EPA/ALEXEY DRUGINYN sda-ats)

Zelensky, un dittatore sul treno della cuccagna. Indovina chi l’ha detto (ilfoglio.it)

Lettere al direttore

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore –

Marco Travaglio, ormai è noto, ha un debole per la Russia di Putin. Nel suo salotto televisivo preferito, forse perché è quasi sempre senza contraddittorio, ha sostenuto (19 febbraio) che Mosca ha il più grande esercito del mondo (alias imbattibile). Ora basta leggere il rapporto 2025 “Global Firepower” del World Military Strength Rankings per apprendere che, sulla base dell’indice di forza militare internazionalmente riconosciuto, l’esercito più potente è quello americano. Se poi per più grande si intende più numeroso, il primo è quello della Cina. Certo, la Russia ha 6.257 testate nucleari e gli Stati Uniti “solo” 5.550 (dati Iriad, Istituto ricerche internazionali archivio disarmo). Tuttavia, occorre sempre ricordare (non so se Travaglio lo ricorda) che la superiorità della prima sui secondi si deve al Memorandum di Budapest del 1994. Un accordo, firmato anche da Usa e Gran Bretagna, con cui la Russia si impegnava a non minacciare mai la sovranità nazionale e l’integrità territoriale dell’Ucraina (incluse Crimea e le regioni oggi annesse). In cambio di questa promessa solenne e formale, Kyiv accettò di cedere il suo imponente arsenale nucleare (1.900 testate) al suo antico padrone. Un fatto curiosamente sempre ignorato dai “pacifinti” di tutte le latitudini. Ma Travaglio talvolta riesce a dire anche mezze verità. Infatti ha ammesso che la spesa per armamenti della Russia, grazie a una guerra a cui ovviamente essa è stata costretta, è più alta di quella dell’intera Europa. Ma una mezza verità è anche una mezza bugia. Egli infatti ha omesso di dire che il pil dell’intera Europa è nove volte quello della Russia. Chi sa far di conto può dedurne che l’economia di quest’ultima è ormai diventata una macchina bellica che non sarà facile riconvertire in un’economia di pace. A mio avviso, anche per questa ragione la partita ucraina, nonostante i reality show  di Trump e il suo manifesto disprezzo per Zelensky, non è ancora chiusa.
Michele Magno

A proposito di Ucraina. Ieri, Donald Trump ha continuato la sua escalation contro Zelensky, scrivendo su Truth un pensiero che Vladimir Putin non avrebbe potuto scrivere meglio.

Eccolo: “Pensateci, un comico di modesto successo, Volodymyr Zelensky, ha convinto gli Stati Uniti d’America a spendere 350 miliardi di dollari per entrare in una guerra che non poteva essere vinta, che non avrebbe mai dovuto iniziare, ma una guerra che lui, senza gli Stati Uniti e ‘Trump’, non sarà mai in grado di risolvere. (…) Zelensky si rifiuta di avere elezioni, è molto basso nei sondaggi ucraini e l’unica cosa in cui era bravo era suonare Biden ‘come un violino’. Un dittatore senza elezioni, Zelensky farebbe meglio a muoversi in fretta o non gli rimarrà un paese. Nel frattempo, stiamo negoziando con successo la fine della guerra con la Russia, cosa che tutti ammettono solo Trump e l’Amministrazione Trump possono fare. Biden non ci ha mai provato, l’Europa non è riuscita a portare la pace e Zelensky probabilmente vuole mantenere in funzione il treno della cuccagna. Amo l’Ucraina, ma Zelensky ha fatto un pessimo lavoro, il suo Paese è in frantumi e milioni di persone  sono morte inutilmente”.

Chi ha un cuore, chi ha a cuore l’Ucraina, chi ha a cuore quello per cui ha combattuto in questi tre anni  Zelensky, chi ha a cuore quello per cui ha combattuto in questi tre anni un paese eroico aggredito da una dittatura vera, dovrebbe avere il coraggio di dissociarsi dalla vergogna di un presidente che ha scelto di costruire il suo Vietnam trasformando i patrioti veri in nemici della libertà.

Sarebbe bello se anche in Italia qualcuno, tra i follower di Trump, anche a Palazzo Chigi, battesse un colpo, trovando il coraggio di dire: not in my name. 

Al direttore – E se per svegliare Trump fosse utile, da parte di un governo europeo (ma quale…), diffondere l’ipotesi di smantellare una, o più, delle basi statunitensi disseminate nel continente? Cordialità. 
Augusto  Frasca