Gorizia non revoca la cittadinanza onoraria a Mussolini (ilmanifesto.it)

di Marinella Salvi

Scontro con la Slovenia

Respinta una mozione delle opposizioni perché si revochi la cittadinanza onoraria attribuita. Il tutto mentre “le due Gorizie” sono in corsa per essere – insieme – Capitale della cultura 2025

Gorizia e Nova Gorica capitali europee della cultura nel 2025. E’ la prima volta per una capitale della cultura transfrontaliera, un titolo riconosciuto a questa pianura di case giardini strade e capannoni attraversata dall’azzurro Isonzo che si incontra con il Vipacco e intorno le colline con i vigneti del Collio.

Sembra un tutt’uno ma sono due città e due nazioni diverse. Un confine sofferto, una storia ingombrante, cent’anni e più di battaglie sanguinose ma anche di convivenza e solidarietà.

Gente abituata a vivere assieme, amicizie, famiglie, impieghi, di qua e di là indifferentemente ma non manca qualche strascico fastidioso della sua storia disunita. Baci e abbracci pubblici tra i due sindaci, proclami di amicizia ad ogni piè sospinto ma ci sono stati e ci sono ancora spigoli, scivolate, cadute di gusto. Celebra la X Mas ogni anno a Gorizia e Casa Pound affigge i suoi manifesti e scende in strada con la benedizione del Comune.

Ancora D’Annunzio e i massacri titini e i territori perduti: non mancano mai i piagnistei sulle vittorie mutilate o comunque le rivendicazioni del primato italiano sul circondario slavo. Un virus che non si riesce a debellare, che corre da sud a nord lungo questo confine e ancora condiziona parole e gesti anche e soprattutto dentro le istituzioni.

Succede lunedì scorso che i consiglieri di minoranza nel Comune di Gorizia, amministrato dal centro-destra, presentino una mozione perché si revochi la cittadinanza onoraria attribuita a Mussolini illo tempore. Lo hanno già fatto alcuni comuni intorno a Gorizia e sembra un gesto ovvio anche per presentarsi con una faccia più pulita all’appuntamento del 2025.

La risposta del sindaco Ziberna ha i toni dell’aggressione, per più di venti minuti è un attacco violento a quella che ritiene “furia iconoclasta”. La mozione viene votata dagli undici consiglieri di minoranza, compatta la maggioranza nel bocciarla.

Protestano associazioni, gruppi, persone. La civica Eleonora Sartori che ha presentato la mozione ci mette un paio di giorni a commentare (“ho aspettato mi passasse il mal di stomaco”): “Io, e tanti con me, da tempo siamo pronti a una narrazione diversa, a un futuro davvero senza confini, non ostaggio del ‘900. GO!2025 se la merita tutto il territorio e il riconoscimento è arrivato grazie alle cittadine e ai cittadini che lo vivono ogni giorno, nonostante e non grazie alla politica. Quello che ci rimarrà non saranno i concerti, ma il significato simbolico che ha fatto sì che fossimo noi e non altri la prima capitale europea della cultura transfrontaliera. Se sarà un anno bellissimo, come credo, lo sarà non per gli eventi o per tutto ciò che verrà organizzato grazie ai tantissimi soldi stanziati, ma per ciò che abbiamo saputo costruire assieme prima e meglio delle istituzioni.”

Ancora una volta, anche la Slovenia fa sentire la propria delusione.

Il ministero degli esteri sloveno, guidato da Tanja Fajon, stigmatizza la scelta fatta dal Comune di Gorizia che vive come un tentativo di «approfondire le divisioni, relativizzare i fatti storici e sfruttarli per scopi politici quotidiani» e che getta ombre anche su Go!2025.

La Slovenia, ribadisce, è impegnata a «superare le divisioni storiche, a promuovere la cooperazione e la convivenza tra popoli e culture, specialmente nelle aree che hanno sperimentato per prime la brutalità del regime fascista».

Durissimo il sottosegretario di stato al ministero della cultura Marko Rusjan: “La questione non è chi si trova dalla parte del confine, ma chi si trova dalla parte sbagliata della storia. I partigiani sloveni, jugoslavi e italiani cooperarono e insieme sconfissero il male del fascismo in Europa. Da allora, generazioni di vicini su entrambi i lati del confine hanno vissuto in pace. Tra pochi mesi avrà inizio Go!2025, un progetto congiunto delle due città che porta esattamente questo messaggio di convivenza” per poi concludere: “Insieme abbiamo già sconfitto i fascisti una volta. E non permetteremo che le loro brutte copie nel 21° secolo relativizzino la storia che ha causato tanta miseria e che è stata superata grazie agli sforzi delle masse su entrambi i lati del confine”.

Gorizia non revoca la cittadinanza onoraria a Mussolini

Abbiamo usato i fatti di Amsterdam solo per confermare le nostre opinioni (rivistastudio.com)

di Bruno Montesano

Troppo impegnati a decidere se si è trattato di 
semplici risse o di nuovo pogrom, ci siamo persi 
la verità: da un anno è in atto una sorta di 
"scontro di civiltà", 

una guerra dalla quale usciremo tutti sconfitti.

Ad Amsterdam dei tifosi ebrei israeliani del Tel Aviv Maccabi hanno cantato cori a favore del genocidio del popolo palestinese (“olé, olé, facciamo vincere l’Idf, fotteremo gli arabi”, “non ci sono più ospedali perché non ci sono più bambini a Gaza”).

Questi hooligan – che avevano già pestato alcuni mesi fa una persona che portava la bandiera palestinese ad Atene – hanno anche attaccato un tassista. E non hanno rispettato il minuto di silenzio per le vittime dell’alluvione di Valencia in “protesta” per la posizione del governo spagnolo a favore di uno Stato palestinese.

La risposta di alcuni tassisti olandesi solidali con il collega e altri abitanti – e non degli ultras dell’Ajax, come inizialmente si diceva – è stata quella di attaccare tutti i tifosi ebrei israeliani in città, spesso con insulti antisemiti, in quella che alcuni hanno chiamato “caccia all’ebreo” (Jodenjacht). Cinque tifosi sono finiti in ospedale e tra le venti e le trenta persone hanno riportato ferite lievi.

Sembrerebbe che, da un lato, alcuni cittadini olandesi stessero preparando una protesta contro il massacro israeliano nella Striscia di Gaza e, dall’altro, che questa, dopo le violenze dei tifosi del Maccabi, sia sfociata in forme di razzismo antiebraico-israeliano. Un conto infatti sarebbe stato rispondere, anche con la violenza, ai tifosi razzisti israeliani.

Ma quello che è successo è stato diverso: gli assalitori hanno fermato persone per strada, chiedendo loro il passaporto, per poi aggredire il malcapitato se risultava israeliano qualificandolo come “cancro ebreo” (kanker joden). Inoltre, il 12 novembre, in una città in stato di emergenza e con i tifosi del Maccabi già tornati a casa, ci sono stati scontri con la polizia al grido di “ebrei di merda”.

I media italiani – e l’estrema destra internazionale, da Geert Wilders a Giorgia Meloni passando per Benjamin Netanyahu – hanno colto la palla al balzo e si sono messi a parlare di pogrom e di “Notte dei cristalli 2.0”: i fatti di Amsterdam si sono verificati, infatti, il giorno prima della giornata in ricordo della Notte dei cristalli del ’38.

Come al solito, alcuni ambienti della sinistra, invece di denunciare la strumentalizzazione islamofoba dell’accaduto e fare i dovuti distinguo, si sono messi a parlare sui social network di resistenza antifascista contro i nazisionisti.

Ci sono andati di mezzo altri civili israeliani innocenti, compresi dei minori? Sono marginali vittime collaterali, si risponde. À la guerre comme à la guerre, e poi “israeliani innocenti” è un ossimoro: sono tutti coloni, dagli zero ai novant’anni (come mostra il 7 ottobre).

Speculare – e certo più potente e diffusa – è stata la facilità con cui i media italiani hanno scritto che sono stati dei musulmani ad attaccare degli ebrei. Così come il riflesso pavloviano di riportare tutto al nazifascismo, come fatto, ad esempio e ovviamente, dal Foglio o come scritto da Ernesto Galli della Loggia, che non aspettava altro che avere un nuovo evento per chiedersi se “possiamo essere islamofobi davanti a questi eventi?” e rispondersi con un soddisfatto sì.

Ma il frame dello scontro di civiltà vale anche al contrario: all’islamofobia della destra si risponde troppo spesso con una minimizzazione sistematica dell’antisemitismo. La punizione collettiva degli ebrei israeliani ad Amsterdam (e non dei razzisti ebrei antipalestinesi) infatti rimanda a una logica di blocchi.

È il noi contro loro. L’estrema destra non aspetta altro, e infatti cavalca questa storia. Chi dice che ad Amsterdam sia andata in scena la resistenza partecipa allo stesso modo alla partita: è dell’altra squadra, ma partecipa. È un anno che assistiamo a questo gioco ed è evidente che non fa avanzare nessuno.

Anche la posizione degli ebrei è scivolosa, presi come sono tra due fuochi. Alcune rappresentanze delle comunità ebraiche parlano dell’insicurezza di vivere in Europa. Netanyahu e altri governi di destra gridano al pogrom mentre continuano a discriminare musulmani e migranti. I postfascisti si atteggiano ad amici degli ebrei per rilegittimarsi.

Al contempo, la questione dell’antisemitismo, a sinistra, è costantemente rimandata, venendo considerata sempre e solo come un problema di strumentalizzazione e mai come un fenomeno reale e in crescita. Questa logica bellica, di scontro frontale, è comune a molte discussioni.

La destra o il mainstream accusano di qualcosa qualcuno (la sinistra o i soggetti da questa difesi) e parte della sinistra risponde, in modo automatico, difendendo la propria parte senza alcun cedimento e ribaltando simmetricamente il punto di vista dell’avversario. Non c’è terreno possibile di dialogo, tutto – sia i fatti che le interpretazioni – diventa un’arma nello scontro.

Un esempio possibile, tra i tanti, che dimostra il funzionamento di questo meccanismo è un episodio avvenuto a Parigi nel 2018. In quell’occasione alcuni gilet jaunes hanno attaccato il filosofo neoconservatore Alain Finkielkraut al grido di “sporco sionista torna a Tel Aviv”.

Ma Finkielkraut, anche qualora accettassimo questa logica, non dovrebbe “tornare” in alcun Paese essendo un ebreo francese, non israeliano. Andrebbe attaccato per le sue idee ripugnanti e islamofobe, e non come uno “straniero” nella nazione di cui ha la cittadinanza. Non si attacca la persona giusta con i metodi sbagliati.

Intimare ad un cittadino di una minoranza di andare nel “proprio” Paese è un’azione razzista. “Torna in Israele, noi siamo il popolo” vuol dire infatti che il cittadino francese Finkielkraut non è considerato un vero cittadino e che il suo diritto alla residenza dipende da come la pensa e da cosa fa. Ma se si fosse trattato di un estremista di destra francese, non appartenente a una minoranza, non gli si sarebbe potuta dire la stessa cosa.

È tempo che quel che resta della sinistra affini le sue analisi su antisemitismo e antisionismo – ma il catalogo sarebbe lungo – così da accettare la propria mancanza di purezza. Antisemitismo e antisionismo non coincidono affatto, ma il secondo non esclude il primo. Per questo la Jerusalem Declaration sull’antisemitismo è meglio della IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance) adottata da diversi governi europei, tra cui il nostro.

E se degli ebrei negano che l’antisemitismo a sinistra esista non vuol dire che ciò sia vero. Per ragioni strategiche alcune parti della sinistra decidono di sorvolare sulle proprie contraddizioni, come l’antisemitismo, ma così facendo, oltre a viziare la bontà dei loro fini con mezzi sbagliati, non riusciranno neanche a raggiungere l’esito atteso.

Non riconoscendo il nucleo di verità nelle ragioni dell’altro, solo lo scontro potrà risolvere la contesa. Ma in uno scontro di civiltà così pervertito e ribaltato vince comunque chi ha più forza.

E, di solito, purtroppo non è la sinistra.

 (Foto di Jeroen Jumlet/Anp/Afp via Getty Images)

Licia Rognini Pinelli aveva una storia da raccontare. E non era soltanto sua (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

È morta a Milano, a 97 anni, la moglie dell’anarchico che il 15 dicembre 1969 morì dopo essere precipitato da una finestra del quarto piano della questura di Milano

“Una storia quasi soltanto mia”, con questo titolo Licia Rognini Pinelli l’aveva raccontata a un nostro carissimo compagno e amico, Piero Scaramucci. In quella riserva, “quasi”, stava la condivisione di tanta parte della gente italiana, di chi allora c’era e di chi ancora non c’era e ha saputo, ha voluto sapere.

Avrebbe ricordato, Licia: “Il libro, edito inizialmente da Mondadori, nel 1982, venne mandato al macero poco tempo dopo la sua uscita”. E’ stato ripubblicato da Feltrinelli, nel 2009, e più volte da allora.

Lei, le sue figlie, i nipoti, le amiche, gli amici, non stava tutta in quella storia. Scrisse ancora di sé, per l’Enciclopedia delle donne, e intitolò così: “Dopo”. Con una domanda “che mi ronzava continuamente nella testa: ‘Che senso ha la vita’… Anche da bambina, quando sognavo di diventare medico e di curare la gente, ‘pensavo’ che sarei rinata più volte e sarei diventata più persone”.

Scrisse anche dell’udienza del 2009 dal presidente Napolitano, apprezzandone “l’umanità e la semplicità”. Aggiungendo: “In quella occasione il Presidente disse cose che avrei voluto sentire molti anni prima”.

Dopo, più di mezzo secolo dopo, appena un mese fa, il Comune di Milano ha annunciato che la grande, magnifica opera di Enrico Baj, “I funerali dell’anarchico Pinelli”, sarà esposta in permanenza al pubblico nel Museo del Novecento. C’è bisogno di molto tempo, infatti. A volte non basta.

“Adesso il testimone è passato alle mie figlie”, scrisse anche. Silvia e Claudia. Ora è successo. Licia è morta, a casa sua, come voleva. Aveva chiuso il suo libretto di allora con una frase letta una volta su un poster: “Alla fine della vita ciò che conta è aver amato”. E lei è stata amata.

Succede che non si abbia più spazio per ciò cui non si vuol bene, e lo si riservi intero alle persone e alle cose cui si vuol bene. E si sia grati di condividere con loro il mondo che si abita. Licia Rognini Pinelli lo ha abitato, ha continuato ad abitarlo, fino alla vigilia dei suoi 97 anni.

Forse, probabilmente, fin troppo a lungo per lei. Vorrei – ci credo – che abbia sempre ricordato che cosa la sua vita volesse dire per tante, tanti altri. Ho appena visto il titolo di un’agenzia: “Piazza Fontana: morta a Milano Licia Pinelli”. Involontario, naturalmente, e involontariamente efficace. Milano, Piazza Fontana, 55 anni dopo.

Quest’anno il 15 dicembre sarà più caldo, apriremo tutte le finestre.

(Licia Rognini Pinelli con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – foto Ansa)

Se il cattivo esempio fa vincere (corriere.it)

di Beppe Severgnini
Oggi siamo arrivati alla kakistocrazia, il 
governo dei peggiori, orgogliosi di esserlo. 
O, se non altro, felici di sembrarlo

La vittoria di Donald Trump è netta e istruttiva. Ma sostenere che rappresenti un passo avanti per la democrazia sembra azzardato. Il profumo dei vincitori è irresistibile, per tanti italiani.

L’ansia di applaudire non aiuta a capire cosa sta accadendo: l’importanza dell’affidabilità e della coerenza, per un leader politico, è passata in secondo piano. Quello che dice conta più di ciò che fa. Mostrarsi virtuoso rischia addirittura d’essere controproducente: potrebbe allontanare gli elettori, che si sentirebbero sminuiti.

I giornali americani hanno elencato puntigliosamente le falsità con cui il presidente-rieletto ha farcito discorsi e comizi. La bufala degli immigrati haitiani che mangiano gli animali domestici era la più grottesca, non certo la più grave. Non ha fatto alcuna differenza, anzi: sembra aver favorito il candidato repubblicano.

Il suo vice J.D. Vance ha spiegato al New York Times, con calma olimpica, che forzare la verità è talvolta necessario per superare l’ostilità dei grandi media. Colpevoli, evidentemente, di verificare le notizie.

«Non sono migliore di voi. Sono peggiore. Perciò votatemi!» sembra la nuova formula magica della democrazia americana. E dall’America, si sa, noi importiamo molte cose. Sfogare gli istinti e sfoggiare i difetti è diventato un modo per rassicurare quegli elettori — e sono tanti — che detestano le critiche. Chi regala approvazione incondizionata è popolare; chi avanza proposte è noioso; chi solleva obiezioni, insopportabile.

Non occorre essere uno storico per saperlo, basta qualche ricordo scolastico: il popolo, nella Grecia di Platone e Demostene o nella Roma repubblicana, chiedeva leader ammirevoli. Questa pretesa — questa illusione? — è durata per secoli, in luoghi e contesti diversissimi. Il popolo, dai suoi leader, voleva onestà, sincerità, sobrietà. Raramente la otteneva, ma almeno la chiedeva.
Neppure i dittatori sfuggivano alla regola. 

Benito Mussolini non ostentava i suoi eccessi: fingeva di essere sobrio e virtuoso, gli italiani fingevano di crederci. Solo autocrati e tiranni, oggi, continuano la farsa. Il nordcoreano Kim Jong-un, qualche settimana fa, è andato su tutte le furie quando su Pyongyang sono piovuti volantini che mostravano i lussi suoi e della famiglia a una nazione poverissima. Donald Trump li avrebbe utilizzati come manifesti elettorali: guardate quanto sono sfacciato, applauditemi! E non c’è dubbio, i suoi elettori avrebbe applaudito.

Aristocrazia significa, com’è noto, governo dei migliori. Oggi siamo alla kakistocrazia, il governo dei peggiori, orgogliosi di esserlo; o, almeno, felici di sembrarlo. Il copyright di questo discutibile stilnovo appartiene a Boris Johnson e allo stesso Trump: entrambi, nel 2016, hanno vinto sventolando con orgoglio i propri capricci e le proprie debolezze. Le critiche degli avversari? Ignorate, irrise. Finché i due non hanno dovuto governare. Allora inglesi e americani hanno capito, ma era tardi.

Nell’introduzione di Narrare l’Italia, Luigi Zoja, uno psicoanalista che conosce l’antropologia e la storia, ha scritto: «La crescita dei figli non è guidata dalle regole che i genitori impartiscono, ma dagli esempi che offrono. Anche i governanti — padri e madri del popolo — potranno predicare quelle che considerano necessarie virtù nazionali, ma le diffonderanno solo se saranno i primi a praticarle».

L’autore dovrà ammettere che c’è una novità. I leader vincenti hanno smesso di «predicare le necessarie virtù della nazione», preferiscono applaudirne i difetti. Si fa meno fatica, e rende di più.

Le parole «Dài il buon esempio!» sono la colonna sonora di molte, lontane infanzie italiane. E ciò che si chiedeva a un primogenito o a un capoclasse si pretendeva da un primo cittadino o dal capo del governo. Se tradivano la fiducia — e accadeva con una certa frequenza — ci rimettevano il posto e la reputazione. Oggi essere etichettato come «un buon esempio» non è solo anacronistico: è rischioso.

Chi crede di essere questo/questa? Come si permette di indicarci una strada, di suggerirci un comportamento? Sappiamo sbagliare da soli, grazie.

Un cattivo esempio è rassicurante, per molti elettori: vale un’assoluzione preventiva. Se è la nuova strada scelta dalla democrazia, prepariamoci al peggio. Diventerà impossibile liberarsi di un leader scelto in questo modo e per questi motivi.

Cosa volete da me?, risponderà dopo aver deluso e fallito. Vi avevo detto chi ero, e mi avete votato con entusiasmo. Ora zitti e buoni: non lamentatevi.

Quelli che Trump, una ballata del pane salato (ilmanifesto.it)

di Enrico Caria

Il colonnino infame 

Canzonetta per ricapitolare, ma anche per non capitolare, in attesa del nuovo assetto a Capitol Hill

Quelli che adesso la Harris ha smesso di ridere,
quelli che gli Stati in bilico ah ah ah,
quelli che io mai avuto dubbi, oh yeah.
Quelli che NY, LA… grandi ZTL,
quelli che lui fascista, razzista, molestatore, bugiardo… ma lei peggio perché ipocrita,
quelli che il popolo diceva pane e Kamala capiva brioche, oh yeah.
Quelli che quel rimbambito di Biden,
quelli che se si presentava Michelle,
quelli che l’America profonda,
quelli che l’America superficiale,
quelli che Biden ha dato un sacco di armi a Israele e fin qui lui niente,
quelli che fin qui, oh yeah.
Quelli che lui mai iniziato una guerra,
quelli che la Nato è finita la pacchia,
quelli che finalmente gli europei si fanno un esercito tutto suo, oh yeah.
Quelli che con Putin ora ci parla lui e PUFF la guerra finisce,
quelli che con Netanyahu ora ci parla lui e BOOM la guerra non finisce più,
quelli che mò Putin ti invade la Polonia, oh yeah.
Quelli che adesso gli immigrati haitiani la pianteranno di mangiare cani e gatti dei residenti,
quelli che le donne che non hanno tradito i mariti nelle urne continueranno a farlo in automobile,
quelli che la gente vuole l’omo forte e ‘a fimmina bottana, oh yeah.
Quelli che mò i cinesi dazzi loro,
quelli che ora l’Ungheria si allarga a macchia d’olio di ricino,
quelli che ora Putin ti invade pure i Paesi baltici, oh yeah.
Quelli che per l’Europa una grande occasione,
quelli che l’Europa in ordine sparso,
quelli che Von der Leyen, Macron, Scholz tutti insieme… a Mar-a-Lago col cappello in mano, oh yeah.
Quelli che il suo modello sempre stato Berlusconi ma di Berlusconi ce n’è uno solo,
quelli che Tajani chi?
quelli che Italy First, oh yeah.
Quelli che Salvini Great Again,
quelli che a me mi chiamava Giuseppi,
quelli che ora la Meloni getta la maschera, oh yeah.
Quelli che Franza o Spagna purché se magna,
quelli che maccherone mi hai provocato e io te distruggo adesso me te magno,
quelli che ve lo meritate Donal Trump, oh yeah.

Quelli che Trump, una ballata del pane salato

Il bagno di realismo della sinistra e il rischio di un armistizio sulla pelle degli ucraini (linkiesta.it)

di

Pax trumpiana

Dopo la sconfitta dei democratici americani, il timore è che nel Partito democratico italiano si rafforzi quel filone rossobruno che finora Schlein ha tenuto ai margini

L’epocale sconfitta dei Democratici americani è «una grande lezione», come dice Pina Picierno, che in teoria dovrebbe portare a forse qualche novità tra i progressisti europei.

La valanga trumpiana dovrebbe aprire gli occhi a molti, ma è probabile che produca anche il solito riflesso identitario vecchia maniera («dobbiamo essere più radicali», «al centro non si vince» e banalità simili), bypassando il nodo vero di una sinistra che non sa parlare più a popolazioni che nell’età della paura chiedono appunto sicurezza, in tutti i sensi, economica e fisica innanzi tutto.

Nel Partito democratico si attende che la segretaria Elly Schlein imposti una riflessione più approfondita delle prime parole espresse a botta calda («La vittoria di Trump è una brutta notizia. Chi oggi lo festeggia per ragioni di bandiera smetterà presto quando gli effetti di una nuova politica protezionistica colpiranno le imprese e in lavoratori in Europa e anche qui nel nostro Paese»).

Un primo serio ragionamento lo ha svolto Lia Quartapelle, esponente riformista, osservando che «da tempo la sinistra occidentale non vede i problemi scomodi (l’immigrazione, la microcriminalità, la sicurezza nazionale), non aggredisce le questioni economiche o la crisi del sistema di welfare. Quando la sinistra in Occidente vince, vince con personalità rassicuranti che offrono qualche cerotto. Quando mobilita, mobilita segmenti sempre più ridotti di elettorato usando l’identità e l’indignazione».

Ecco dunque che un tema come la sicurezza, sempre un po’ rimosso soprattutto se visto in connessione con la questione-immigrazione, potrebbe avere una sua centralità nella proposta complessiva (di governo) del partito di Elly Schlein. Sarebbe anche ora di abbandonare buonismi e genericità, regalando di fatto alla destra il compito di fare i conti con questa questione che nelle società occidentali è una priorità.

«La sicurezza è un tema decisivo, trasversale e sempre più sentito – dice Carlo Calenda – liquidarlo come argomento reazionario e razzista è una beata fesseria. Se diminuisce il benessere i cittadini hanno paura di dover dividere una torta sempre più piccola con più persone per di più di altre nazionalità».

Altro che evocare una «rivolta sociale» come improvvidamente ha fatto Maurizio Landini, qui si tratta di fare un bagno di realismo nel senso delle riforme partendo dalle domande vere dei cittadini. Non si tratta di inseguire la destra, quanto di competere con essa con progetti seri: «I repubblicani hanno avuto gioco facile – osserva Matteo Renzi – e la cosa che mi fa più rabbia è che questa destra, quanto di più lontano da me, ha saputo raccontare una storia e costretto gli altri a inseguirla».

Allo stesso modo, è possibile che la vittoria di Trump comporti qualche scompiglio in politica estera. Non a caso Lorenzo Guerini ha sentito il bisogno di dire subito la sua: sull’appoggio all’Ucraina non si arretra di un millimetro. La pace? Certo, ma «con l’Ucraina in piedi»: altro che resa!

Il presidente del Copasir ed ex ministro della Difesa si rende benissimo conto che con Donald Trump alla Casa Bianca, Kyjiv rischia di essere usata come primo boccone da consumare assieme a Vladimir Putin, tanto per cementare una diarchia reazionaria alla guida del mondo. E forse Guerini paventa anche un possibile ripiegamento opportunistico appunto in sintonia con il presidente americani da parte di Giorgia Meloni.

Insomma, il rischio di un otto settembre sulla pelle del popolo ucraino è molto forte, tutti a casa, la Russia si pappi pure il Donbas e la Crimea e chi si è visto si è visto. Il nuovo ordine mondiale passa dunque per la strage dei principi, come già è avvenuto molte volte proprio sul suolo europeo.

Guerini forse avverte che, anche per fronteggiare il pacifismo trumpiano di Giuseppe Conte, il gruppo dirigente schleiniano del Pd potrebbe mollare la sua posizione filo-ucraina, peraltro non esente da varie titubanze evidenziate in tante occasioni.

È infatti molto probabile che nel Pd e in generale nella sinistra si rafforzi quel filone rossobruno che finora Schlein ha saputo tenere ai margini, ma che dopo la vittoria di Trump ritiene di sentirsi in sintonia con la Storia, una corrente di pensiero che paradossalmente affida proprio al campione mondiale della destra il compito di portare la pace dopo il bellicismo dei Democratici.

Diversi esponenti soprattutto di scuola comunista la pensano così, anche se per decenza non lo dicono apertamente. Siamo solo alle prime battute ma il dibattito, che sarà ovviamente condizionato dai risultati in Umbria e Emilia-Romagna, è destinato ad aprirsi, con quali conseguenze adesso è impossibile dire. Ma certo è che intorno al Pd tutto sta cambiando.

Ora l’Ue dovrebbe agire subito per salvare l’Ucraina: l’alternativa è la resa dell’Europa

di PierGiorgio Gawronski

Questa notte, tutto il mondo (chi ha potuto) 
ha assistito con grande interesse alle elezioni 
americane, per le ovvie ricadute locali nell’era 
della globalizzazione. 

Ma per un Paese in particolare il risultato elettorale americano era una questione di vita o di morte: l’Ucraina.

Attaccando con Kiev l’“ordine globale” vigente, Putin aveva scommesso – più che sulle sue armate – sulla scarsa volontà dell’Occidente di difendere i principi su cui esso stesso si fonda. Codificati – dopo la Seconda guerra mondiale – a Norimberga, nella dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, nel diritto penale internazionale, nelle istituzioni delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, del Wto, dell’Ocse e di altri organismi di cooperazione internazionale. Principi, peraltro, spesso violati dai repubblicani americani (Bush jr. in Iraq, ecc).

Con il successo di Trump, Putin ha vinto la sua prima scommessa: a fine gennaio gli Stati Uniti verosimilmente ritireranno il loro sostegno economico e militare all’Ucraina invasa, colpita, torturata ma finora solo in parte sottomessa.

Biden si è premurato di lasciare in eredità agli ucraini un po’ di soldi e di armi. Ma l’ascesa a Washington di un fervente ammiratore di Putin si farà sentire subito al fronte, attraverso il meccanismo potente delle aspettative. La prevista interruzione degli aiuti, infatti, potrebbe facilmente demoralizzare gli ucraini, determinandone il rapido crollo.

È già successo in Afghanistan pochi anni fa, quando la notizia di un futuro disimpegno americano determinò il rapido crollo dell’esercito alleato locale e, a seguire, la fuga ignominiosa degli americani.

Se dunque l’Europa volesse salvare Kiev dovrebbe agire immediatamente, proponendosi in modo credibile al posto degli americani. I quali però non offrivano agli ucraini solo soldi e armi, ma anche un ombrello nucleare basato sulla deterrenza. E questa, contrariamente al flusso di armi e soldi, cesserà improvvisamente il prossimo 20 gennaio, con il passaggio delle consegne da Biden a Trump.

L’Europa avrebbe dunque di fronte un compito estremamente arduo e urgente, che richiederebbe di fare in due mesi quei progressi che per decenni sono mancati, sul coordinamento delle politiche estere e di difesa e sulla messa in comune della sovranità. O almeno, occorrerebbero fantasia e leadership per creare meccanismi istituzionali provvisori/straordinari ma funzionali.

Ma perché mai l’Unione europea dovrebbe difendere l’Ucraina? Le categorie geopolitiche non chiariscono la questione. Come dice Putin, la guerra (mondiale) è fra i sostenitori del vecchio ordine globale (liberale) e i sostenitori del nuovo ordine globale (autoritario). La profonda divisione dell’elettorato americano dimostra che la faglia fra i liberali e gli autoritari attraversa tutte le nazioni. Questa faglia (come altre) in caso di scontro paralizza ed espone le democrazie (per questo Putin le ritiene decadenti), condannando i regimi liberali alla sconfitta.

L’alternativa è una vergognosa resa dell’Europa in Ucraina. Rinunciando a sostenere la parte combattente del movimento liberaldemocratico internazionale, l’Europa invierebbe un chiaro segnale a dei pericolosi clienti: di essere disposta a sottomettersi. E tuttavia, è questa la soluzione di gran lunga più probabile, in base ai vincoli politici correnti e alla storia di promesse occidentali non mantenute degli ultimi secoli – dalle rivoluzioni del 1848 al tradimento della Cecoslovacchia nel 1938, alla ‘drole de guerre’ nel settembre 1939.

La vittoria di Trump accelera la crisi delle democrazie, acutamente percepita da Putin nel suo ormai famoso articolo di geopolitica del 2021 (del quale l’ambasciata russa due settimane fa pubblicizzava una traduzione in italiano).

Oggi come allora la politica ‘piccola’ ha tutto l’interesse ad alimentare l’illusione che la pace e la libertà possono essere conservate a buon mercato: il risveglio è quasi sempre duro.

Il disinteresse di Donald Trump per l’Africa (internazionale.it)

di

Geopolitica

Pensando al primo mandato di Donald Trump e all’Africa, la prima cosa che torna alla mente è la sua uscita sui “shithole countries”, paesi di merda.

Era l’11 gennaio 2018 e alla Casa Bianca Trump stava parlando di un nuovo pacchetto sull’immigrazione con alcuni senatori. In particolare si discuteva della proposta di garantire protezione a immigrati provenienti da Haiti, El Salvador e vari paesi africani. A quel punto Trump era sbottato: “Perché lasciamo che tutte quelle persone provenienti da paesi di merda vengano qui?”.

Pochi mesi prima Trump aveva ordinato il molto discusso travel ban (divieto di viaggiare, nei fatti un divieto di soggiornare negli Stati Uniti per un lungo periodo) ai cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana (tra cui Somalia e Libia), divieto che successivamente era stato esteso a chi veniva da Nigeria, Sudan, Tanzania ed Eritrea. Una volta Trump ha detto anche che i nigeriani, una volta arrivati negli Stati Uniti, “non se ne sarebbero più tornati nelle loro capanne” in Africa.

In quegli anni Trump si è interessato poco al continente – di cui non sembra avere una conoscenza approfondita, almeno a giudicare dalle sue dichiarazioni – e non ha mai compiuto una visita ufficiale in un paese africano. Anche il suo segretario di stato, Mike Pompeo, c’è andato solo due volte, in Senegal e in Etiopia.

Il presidente Joe Biden negli ultimi quattro anni non ha fatto di meglio: ha rimandato a dicembre, a fine mandato, la sua prima visita nel continente e ha scelto di recarsi in un paese, l’Angola, che non è esattamente un esempio democratico (però da lì passa una ferrovia molto strategica per gli Stati Uniti). La sua vice Kamala Harris, candidata sconfitta alle ultime elezioni, invece, c’è stata e ha scelto delle democrazie: Ghana, Tanzania e Zambia.

Reazioni contenute

Dopo la vittoria di Trump i leader di molti paesi africani – tra cui quelli di Sudafrica, Nigeria, Etiopia e Repubblica Democratica del Congo – gli hanno fatto le congratulazioni di rito. Ma il ritorno alla presidenza degli Stati Uniti suscita anche preoccupazioni, come testimoniato dal fatto che la moneta sudafricana, il rand, ha perso il 3 per cento del suo valore subito dopo l’annuncio dei vincitori delle presidenziali statunitensi.

Il timore, scrive il sito sudafricano Daily Maverick, è che con un senato controllato dal Partito repubblicano, si mettano in discussione gli accordi commerciali preferenziali con alcuni paesi africani (per esempio, quelli previsti dal trattato Agoa) o gli aiuti statunitensi al continente, cosa che avrebbe ripercussioni enormi.

L’Africa riceve la maggior parte degli aiuti esteri dagli Stati Uniti, che nell’ultimo anno affermano di aver versato 3,7 miliardi di dollari. Ma dall’America arrivano anche altri tipi di sostegno: il 7 novembre è stato annunciato inoltre che il 6 novembre gli Stati Uniti e la Somalia hanno firmato un accordo che formalizza la cancellazione di 1,14 miliardi di debiti accumulati dal paese africano verso Washington, una mossa che dovrebbe aiutare Mogadiscio a risollevarsi dagli strascichi della guerra civile.

Tornando in Sudafrica, dal punto di vista delle relazioni tra Pretoria e Washington, potrebbero esserci attriti visto che il Sudafrica fa parte dei Brics ed cerca di mantenere buoni rapporti con Russia e Cina.

Allo stesso tempo, è il paese d’origine del miliardario Elon Musk, un importante sostenitore di Trump nella sua ultima campagna, che già in passato aveva promosso teorie complottiste come quelle del genocidio dei bianchi sudafricani (questo articolo di Eve Fairbanks su The Dial spiega bene il rapporto distorto di Musk con il paese in cui è nato).

Ma il rischio più temuto è un braccio di ferro tra Stati Uniti e Cina, che potrebbe avere conseguenze importanti sia in Sudafrica sia nel resto del continente.

Allargando lo sguardo, ci si può chiedere anche come si contrapporrà la nuova amministrazione Trump alla Russia in Africa, che nel suo primo mandato non aveva ancora una presenza visibile nel Sahel e in altri paesi del continente. Offrirà più aiuti militari ai paesi minacciati dalle insurrezioni jihadiste che si sono rivolti al Cremlino, per contrastare l’avanzata russa nel continente? O lascerà fare?

Per il momento è difficile fare previsioni. Come ha detto l’analista liberiano W Gyude Moore alla Bbc, “Trump è sempre poco ortodosso in tutto ciò che fa. Quindi bisogna prepararsi a essere aperti a cose nuove, non necessariamente buone, ma di certo diverse”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.