18 Ottobre 2024
Porci senza ali (diario.world)
La Silicon Valley era un’utopia, oggi è un incubo (rivistastudio.com)
di Pietro Minto
Da paradiso di garage e progresso, è diventata il luogo di imprenditori malvagi e forse non così lungimiranti.
Un viaggio tra libertarismo, criptovalute, influenze politiche e scelte sbagliatissime.
C’era una volta un’azienda tecnologica di giovani che lavoravano in un ufficio immerso nel verde con i tavoli da ping pong e una mensa gratuita ormai leggendaria.
Questa azienda aveva un motto: “Don’t Be Evil”, non essere cattivo. E il mondo sorrideva leggendolo, si domandava cosa potesse mai fare di cattivo un sito internet tanto colorato. Passarono gli anni.
L’azienda divenne sempre più ricca e potente, i suoi uffici ancora più labirintici e giocosi. Un giorno però il celebre motto venne sostituito con una frase più vaga e cauta: non più “Non essere cattivo” ma “Do The Right Thing”, fai la cosa giusta. Un nuovo motto relativista, ideale per un’azienda che si preparava a stringere accordi con il governo e l’esercito del suo Paese.
Potrebbe sembrare un arco narrativo un po’ forzato eppure è quello che è successo a Google, la più iconica delle aziende internettiane – e anche una delle più antiche: la sua fondazione risale al 1998 d.C. Questa parabola è forse la descrizione migliore della Silicon Valley, nome con cui si intende un’area geografica, un tempo detta Santa Clara Valley, che si estende a sud di San Francisco, un terroir di aziende di piccole dimensioni operanti in un settore nuovo di zecca a partire dagli anni Cinquanta.
E quindi silicio, minerale che dà il nome alla DOCG stessa, ma anche semiconduttori, per non dimenticarsi dei leggendari garage sgarrupati dove ingegneri nerd-ma-anche-hippie si divertivano con l’informatica e la cibernetica, dando inizio a una delle più grandi fasi di arricchimento nella storia dell’umanità.
Alla base di questa Valle, un denso reticolo di industrie del settore hardware e soprattutto software, e un’eccellente sinergia con le istituzioni universitarie della zona – tra tutte Stanford – ma anche e soprattutto un rapporto privilegiato con la Difesa statunitense, che dai tempi più plumbei della Guerra fredda imparò a investire qui nella ricerca tecnologica al servizio dello spionaggio e della guerra.
Il tutto all’ombra di San Francisco, capitale gay before it was cool, ma anche città della controcultura, grazie alla vicina University of Berkeley, cugina fricchettona di Stanford.
Quando oggi ci lamentiamo dell’inquietante mutazione subita da quelle aziende che negli anni Zero avevamo imparato ad amare ciecamente, basta ricordare che gran parte di quelle aziende viene da qui, da una psicogeografia che ha dello schizofrenico. Eppure il contrasto funziona, o ha funzionato, almeno finora. Di tutti i luoghi d’America, a partire dagli anni Cinquanta, gli investimenti informatici cominciarono a piovere proprio qui, e proprio Stanford fu il principale nodo di Arpanet, antenato della rete internet.
Se il World Wide Web fu sviluppato da uno scienziato del Cern di Ginevra, in un clima di collaborazione scientifica internazionale, Arpanet fu invece un progetto militare. Calcolatori grandi come appartamenti da collegare magicamente usando il ricco budget garantito dalla Guerra fredda.
Questa vocazione duplice e paradossale è ben evidente, oggi, quando vediamo l’ennesimo Ceo e founder miliardario sbriciolarsi il cervello su un social network al quale confida le sue opinioni politiche sempre più destrorse. Ma le avvisaglie di questa deriva erano presenti da tempo come fantasmi inevitabili: nonostante le origini radical e anti-sistema, infatti, da tempo gli aspiranti startuppari soffrono dell’influenza di Ayn Rand, scrittrice nota per le sue opinioni anti-socialiste e la celebrazione di una classe di personaggi superiori – ricchi, ok, ma perché se lo sono meritato, mica come gli altri.
Alcune opere di Rand possono essere definite di fantascienza: in particolare Atlas Shrugged (La rivolta di Atlante in italiano), epopea di un’imprenditrice e del suo incontro con il misterioso John Galt, magnate che propone una sorta di sciopero intellettuale: la protesta dei migliori contro le autorità centrali e chi tarpa le ali dei membri più produttivi della società.
Galt si nasconde in una città futuristica, Galt’s Gulch, da cui guida l’insurrezione – e inevitabilmente finisce nel mirino del governo di Washington. Nella mitologia greca, Atlante fu costretto da Zeus a reggere sulle spalle l’intera volte celeste: nel titolo originale di Rand, Atlante sbuffa e alza le spalle, liberandosi da quel peso. Un ottimo titolo per un’opera straordinariamente boriosa e verbosa.
Rand è nel pantheon del movimento libertario pro-capitalista che serpeggia negli Stati Uniti e che alterna posizioni progressiste su temi civili ad altre destrorse sull’economia (in poche parole: meno Stato possibile, grazie). Nella Valley è nata una sua variante, il tecnolibertarismo, che riecheggia nella idea di World Wide Web – aperto, libero, senza governi – ma anche in un’invenzione più recente, nata nell’ambiente cypherpunk.
Mescolando crittografia, cybersicurezza a uno spiccato scetticismo nei confronti dello Stato, i cypherpunk capirono già dagli anni Novanta che era possibile usare la rete per liberare anche l’ultimo fetta di mondo rimasta sotto il gioco delle autorità statali: la valuta corrente.
E quindi l’idea di digital cash, soldi contanti non regolati da banche centrali, l’ideale per condotte poco legali, si direbbe, anche se i cypherpunk avevano un disegno politico. Niente Stato, niente FED. Solo libertà. Fu da questo calderone tecnoculturale che, nel 2008, l’anonimo e misterioso Satoshi Nakamoto trasse il coniglio Bitcoin.
Ma abbiamo fatto un passo in avanti di troppo, arriveremo anche al crypto. Prima di Bitcoin, però, dobbiamo indicare il vero nume tutelare del lato oscuro della Valley, il suo Voldemort. Trovarlo è facile. Peter Thiel oggi è noto per essere sostenitore di Donald Trump e di una serie di altri personaggi orbitanti la destra radicale statunitense – detta anche alt-right – oltre che finanziatore di decine di startup d’ogni tipo.
Ma Thiel è soprattutto il leader spirituale della cosiddetta “PayPal Mafia”, un manipolo di vecchie lenze che si sono conosciute lavorando a PayPal, per poi venderla a eBay diventando ricchissimi. Oltre a Thiel, comprende Elon Musk, David Sacks e altri personaggi che da quell’acquisizione, avvenuta nel 2002, si sono poi dispersi, fondando o lavorando per aziende come YouTube, Tesla, LinkedIn, SpaceX, Square e Reddit. Nel 2007 la rivista Fortune li fotografò tutti in posa da gangster: già all’epoca gli hippie di Haight-Ashbury erano un ricordo lontano.
Gli uffici colorati e i dipendenti felicemente strapagati erano quindi un’esca, un tentativo di mascherare un’anima più gretta e da affarista. Ripensandoci, è assurdo esserci cascati (in primis chi scrive), ma tale è il potere delle illusioni. Resta da capire quando questo velo di Maya è crollato, individuare il momento in cui buona parte delle persone si sono rese conto della “vera” natura di questo pezzo di mondo.
Per comodità potremmo indicare il 2020 e la pandemia da Covid-19, che arricchì ulteriormente Big Tech e favorì l’inizio di un grande ciclo speculativo che aumentò la distanza tra mondo reale e Silicon Valley, rivelandone il lato più buio: il Web3.
Ve lo ricordate il Web3? Ah, la nuova frontiera della rete, nata dalla fusione tra il metaverso e il grande mondo del crypto, fatto di criptovalute ma anche di Nft e di Dao, un grande videogioco interattivo in grado di sostituire il mondo che ci circonda. Facebook cambiò nome in Meta per agevolare questa transizione, mentre i principali fondi di investimento del settore (tra tutti a16z) investirono miliardi in qualsiasi startup che avessero aggiunto “web” e “crypto” alle loro slide di presentazione.
Il metaverso rimase un luogo freddo, pixelato e vuoto, le principali istituzioni del settore crypto scricchiolarono e Sam Bankman-Fried – “quello normale” del settore e grande investitore democratico – fu arrestato per frode. (Si scoprì che donava soldi anche a destra, ma in silenzio).
Fu un brutto colpo. Per la prima volta, Big Tech si fece sorprendere mentre puntava quasi all’unanimità su un prodotto brutto, scemo e indesiderato, mentre la pandemia favoriva l’ascesa di servizi come Clubhouse, che investitori e Ceo usavano per convincersi a vicenda di stare facendo la cosa giusta.
Come tante piccole Ayn Rand, abbiamo sempre pensato agli effetti della filter bubble sul popolo, la plebe, presumendo che almeno quelli che costruivano i social network sapessero di doverne stare alla larga. E invece l’effetto camera dell’eco è forte, democratico, intersezionale, perché no. La livella.
Nel frattempo il mondo cambiava e, per la prima volta da tanto tempo, la Valley ne rimase sorpresa. Esclusa. TikTok si diffuse e costrinse praticamente tutti a convertirsi al suo credo fatto di video verticali e musichette, non senza impacci. Fortunatamente per i nostri titani, l’arresto di Bankman-Fried avvenne in un momento in cui il settore stava già cominciando a farsi ossessionare da un altro gingillo, questa volta più promettente e solido del Web3: arriviamo così alle intelligenze artificiali generative, le ChatGPT di questo mondo, un tipo di bolla speculativa diversa da quella Web3: sotto alle AI qualcosa c’è; sotto agli Nft c’era il vuoto.
Arriviamo a oggi. Le AI stanno rovesciando come un calzino la Google che abbiamo visto all’inizio di questa storia, che ora è costretta a inseguire la concorrenza con il chatbot Google Gemini mentre con l’altra mano dovrebbe offrire risultati chiari e non inquinati da AI ai suoi utenti. Ci riuscirà? Non è detto.
Nel frattempo, per la prima volta nella storia, l’antitrust statunitense la sta tenendo d’occhio e c’è chi pensa che una spaccatura del gigante Alphabet (nome del gruppo a cui fanno capo Google, YouTube, Gmail, Waymo…) sia imminente.
Alla Microsoft nel 2001, insomma. Internet non sarebbe più stessa. Il web neppure, e nemmeno la Silicon Valley – anche se, come abbiamo visto, la Valley non è mai stata quella che sembrava.
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L’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli, e non importa chi l’ha detto per primo (ilfoglio.it)
Piccola posta
Sono parole (anche) di Michel Houellebecq al festival “Radici” di Torino, ed è notevole che tutti i cronisti abbiano colto l’efficacia dell’aforisma.
Ma non è lo scrittore francese ad averlo detto per primo
Caro Michele Battini, ho pensato a te oggi, dopo aver finito di leggere quattro cronache dell’intervento di Michel Houellebecq a Torino, al festival “Radici”: sulla Stampa, sul Corriere della Sera, sul Giornale e sul Huffpost.
Tutte e quattro non mancavano di riferire la tagliente definizione che Houellebecq ha dato dell’antisemitismo contemporaneo: “Mi sembra il socialismo degli imbecilli”. La Stampa ne ha fatto anche il titolo di copertina, sopra la foto dello scrittore: “Antisemiti imbecilli”.
E’ notevole che tutti i cronisti abbiano colto l’efficacia dell’aforisma di Houellebecq. D’ora in poi lo troveremo giustamente citato (purché sopravvivano dei socialisti che disprezzino l’antisemitismo).
Finora la confusione riguardava Lenin, cui da molti – basta scorrere Google – veniva attribuita la sentenza. Lenin l’aveva effettivamente pronunciata, ma citando August Bebel, il fondatore, con Wilhelm Liebknecht, del partito socialdemocratico tedesco.
A quanto pare lo stesso Bebel aveva fatto propria, e reso famosa, l’espressione circolata nella socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento. Tu poi hai intitolato così, “Il socialismo degli imbecilli”, il tuo libro, per Bollati Boringhieri, del 2010. Un precursore di Houellebecq.
(Non mi rimproverate la pedanteria. Al contrario: mi piace l’idea che, ai tempi che corrono, e corrono forte, uno dica, senza rimandare alla fonte, non so, “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. E il giorno dopo se lo veda attribuire in prima pagina da un capo redattore sveglio).
(LaPresse)
Con Pertini a Pechino, fra folle festanti e agguati per sabotarlo. Un aneddoto (finora) riservato (ilfoglio.it)
Piccola Posta
Il presidente partigiano scalda i cuori dei giovani cinesi, mentre una ressa di giornalisti cerca di provocarlo per metterlo in cattiva luce e puntare alle dimissioni. Un pericolo scampato per poco, attraverso un punto di vista inedito, raccontato da chi c’era
Caro Giuseppe De Rita, mi ha rallegrato la sua rivendicata appartenenza a un’oligarchia del bene pubblico nell’intervista a Fubini per il Corriere. Lei vi ha ricordato di essere stato molto amico di Antonio Maccanico, “uno degli oligarchi più riconosciuti”, che “come segretario generale, con la sua cucitura orizzontale, è stato determinante per il Quirinale di Pertini”.
Così le racconto un antico episodio che ho tenuto per me: lei saprà capirne più di quanto non ne capissi io allora. Cioè nel 1980, al tempo del viaggio ufficiale del presidente Pertini in Cina, il primo, il più lungo e delicato.
Avevo fatto amicizia con Sandro Pertini nel 1977, quando presiedeva la Camera, e gli chiesi di venire a commemorare Walter Rossi, un nostro compagno di vent’anni ucciso da fascisti a Roma mentre distribuiva un volantino. Pertini ringraziò dell’invito, chiese di rifletterci, all’indomani si disse dispiaciuto di non tenere l’orazione, però sarebbe venuto al funerale. Da allora avemmo un rapporto frequente e cordiale.
Dopo la sua elezione alla presidenza della Repubblica venni accolto nei viaggi presidenziali, gratis, da imbucato, in considerazione della povertà di Lotta Continua e grazie alla gentilezza del portavoce Bruno Agrò e del fotografo del Quirinale Marcello Picchi. Andai in Jugoslavia due volte, per la visita ufficiale e poi, nel maggio 1980, per il funerale di Tito.
Nel settembre fu la volta del viaggio in Cina. Pertini aveva 84 anni. Lo accompagnava Emilio Colombo, allora ministro degli Esteri. Nel seguito egregio di giornalisti spiccava per solitudine altera (con la compagnia di sua sorella Paola) Oriana Fallaci, che aveva appena messo a segno l’intervista celebre a Deng Xiaoping.
Fummo tutti introdotti graziosamente da Deng. L’incontro fra Pertini e Deng fu epico: “Un combattente saluta un altro combattente”, ”un compagno partigiano saluta un altro compagno partigiano”.
Avevo il privilegio di un rapporto molto confidenziale con Pertini, e di dargli del tu, come mi aveva intimato di fare dal primo incontro: in qualche rievocazione mi si deplora l’impertinenza (così il veterano Roberto Tumbarello: “Il solo a dargli del tu era Adriano Sofri. A me dava molto fastidio, sebbene fosse uno dei colleghi che apprezzavo maggiormente per intelligenza e acume nei suoi resoconti. Neppure deputati e ministri si permettevano tanta confidenza con l’anziano presidente”).
Maccanico aveva ragioni di preoccupazione per il viaggio: c’era il fresco precedente del licenziamento dell’ottimo Antonio Ghirelli, l’annullamento di un viaggio ufficiale in Thailandia per delle frasi imprudenti del presidente, e l’allarme generale per l’imprevedibilità delle sue mosse. E la convinzione di un’inopportunità cerimoniale della partecipazione della moglie di Pertini, Carla Voltolina (nel “Diario” Maccanico avrebbe annotato: “La novità della partecipazione di Carla Pertini al viaggio ha creato seri problemi”).
Come quando si avverte un ospite di stare attento a non urtare il prezioso vaso cinese, il guaio non tardò ad avvenire. Il 20 settembre, all’università di Pechino. Pertini interruppe bruscamente una sofisticata esibizione ginnica degli studenti: al diavolo la ginnastica, sono venuto a parlare coi ragazzi, come un nonno coi nipoti.
Panico nel protocollo, interdetto fra i ragazzi, e finalmente la paternale di Pertini accolta dagli applausi dei giovani e le felicitazioni del rettore. Buona parte degli inviati italiani si mostrò più scandalizzata degli impassibili cerimonieri cinesi, e mentre Pertini andava fiero della riconfermata popolarità e della trasgressione del regolamento, si diffuse un sentimento di imbarazzo o di vero fallimento.
Cui una parte della stampa si era mostrata per così dire predisposta, dal momento che fin dallo sbarco a Pechino Pertini fece un’intemerata al corrispondente del Corriere, Piero Ostellino. Ostellino aveva pubblicato sul settimanale del Pli, l’Opinione, un reportage preventivo singolarmente irriguardoso – si portava appresso una moglie bizzosa e indisposta ai rapporti diplomatici, decisa ad andare in giro da sola e a svegliarsi all’ora che preferiva… – che fece infuriare Pertini. “Mia moglie non si tocca!”.
Gli incidenti si moltiplicavano. Sulla Tienanmen Pertini, invano inseguito, lasciò di colpo il collega presidente Hua Guofeng per andare ad abbracciare e baciare la folla di bambini, donne e giovani radunati ad agitare bandierine e applaudire: Hua si mise ad applaudire anche lui.
Nella serata ultima all’ambasciata di Pechino, conclusi gli impegni con gli ospiti, i giornalisti si intrattennero con Pertini, e si adoperarono, allegramente o malevolmente, a provocarne la famosa e ingenua vanità, sul proprio anticonformismo e il successo coi giovani.
Maccanico mi prese in disparte e mi disse accoratamente che c’era una vera cospirazione per mettere in cattiva luce Pertini, fino a mirare alle dimissioni, che questo disegno faceva capo, oltre al Corriere, a Eugenio Scalfari, e che il suo esito avrebbe dovuto essere la successione di Bruno Visentini. Mi chiese di estrarre il presidente da quella ressa, persuaderlo che si era fatto tardi e che ci aspettava un giorno impegnativo, il viaggio a Xi’an, e con l’aiuto di Picchi accompagnarlo al suo alloggio.
Ciò che mi sbrigai a fare, con la scherzosa rassegnazione di Pertini. In effetti gli eventuali cospiratori avevano sottovalutato l’imperturbabile tranquillità degli ospiti cinesi, che subissarono di elogi i modi così affabili del vecchio partigiano italiano dal cuore giovane, che aveva scaldato i cuori dei giovani cinesi, e così via.
Maccanico fu sollevato dallo scampato pericolo, e mi fu grato oltremisura. Nel suo “Diario”, pubblicato dal Mulino con la prefazione di Scalfari, i giorni tormentati del viaggio sono taciuti. Al 1° ottobre si legge: “Il viaggio in Cina è terminato con un drammatico e precipitoso rientro da Hong Kong in seguito al voto a scrutinio segreto della Camera che ha bocciato il decretone economico e ha provocato la crisi di governo mezz’ora dopo aver votato la fiducia.
Si è concluso così un viaggio che è stato di estremo interesse politico: il presidente ha avuto un grande successo personale e ha aperto la strada a intese con la Cina che potrebbero essere fruttuosissime a medio e a lungo termine. /…/ Il viaggio ha puntualmente confermato le previsioni pessimistiche sulla presenza di Carla Pertini, che con le sue stramberie ha pesato negativamente sulla missione; ma nonostante ciò, il presidente ha avuto successo, anche se la sua immagine risulta un po’ più appannata (episodio dell’Università, di Ilario Fiore e di Ostellino). Mi pare, comunque, che, in seguito a ciò, abbia capito la necessità di una maggiore prudenza”.
Il 24 novembre Maccanico nota: “Scalfari continua a chiamare in causa il presidente, il quale questa mattina mi ha detto di cercarlo per esprimergli il suo disappunto”.
Io al ritorno non mi occupai più della cosa, ero disinteressato agli intrighi di palazzo, del resto fu pubblico in quel 1980 il progetto di Visentini – antifascista precoce, azionista, repubblicano, “oligarca orizzontale” di rango, anche lui – di istituzionalizzare un governo dei tecnici, sottratto al potere dei partiti. Ci fu poi un viaggio in Grecia (Maccanico: “…trionfale, come tutti i viaggi all’estero del presidente. Ormai Pertini è un grande illusionista: fa credere agli stranieri che esista un’Italia seria e affidabile”).
Il 20 dicembre ancora Maccanico: “Le cose politiche non vanno bene. Visentini ha fatto una proposta estemporanea (governo presidenziale) che ha irritato tutti”. In anni molto successivi i miei rapporti con Scalfari si fecero cordiali, ma non lo interpellai mai su quel 1980.
Nel 2011, al momento del governo Monti, Scalfari lo evocò come un antecedente illustre, benché mancato: “Il nostro giornale appoggiò pienamente la proposta di Visentini e aprì un ampio dibattito che naturalmente vide quasi tutti i partiti – compreso quello repubblicano – contrari a quel ritorno alla Costituzione auspicato da Visentini. /…/ Quello che desidero segnalare è che il governo Monti, voluto e seguito passo passo da Giorgio Napolitano, realizza a distanza di trent’anni l’idea-guida di Bruno Visentini che lo vedeva non come una situazione emergenziale ma come l’organizzazione ottimale dello stato di diritto e della democrazia parlamentare.
Dedico queste riflessioni a quanti continuano a piangere sulla sospensione anzi sulla confisca della democrazia effettuata dal governo dei tecnici”.
Probabilmente lei, De Rita, sa riconoscere i contorni effettivi della vicenda alla quale si riferisce il mio aneddoto.
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14 Ottobre 2024
Rassegnata stampa 15/10/2024 (diario.world)
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