Alla fine del buio (corriere.it)

di Antonio Polito

Definendo nella loro piattaforma il 7 ottobre 
come «l’inizio della rivoluzione palestinese», i 
ragazzi del corteo di Roma, forse senza saperlo, 
hanno dato una risposta alla domanda cruciale: 
chi ha cominciato questa guerra? 

In effetti un anno fa fu Hamas a cominciare.

E non per liberare dei territori occupati da Israele, perché i kibbutz e i villaggi che furono assaltati sono parte integrante dello Stato ebraico fino dalla sua fondazione nel 1948. Né per liberare il territorio da cui partirono i commando, visto che la Striscia di Gaza è stata restituita ai palestinesi nel 2005 da uno dei capi storici della destra israeliana, Ariel Sharon, che la liberò con la forza dai coloni ebrei insediativisi.

Hamas ne ha il controllo, assunto con un cruento colpo di stato contro i «fratelli» di Al Fatah, da quasi vent’anni: avrebbe potuto fare della Striscia un modello del futuro Stato palestinese, libero e in pace; ha usato invece tutte le (non poche) risorse che vi facevano affluire il Qatar e l’Iran, ma anche l’Onu e l’Europa, per perseguire l’obiettivo di colpire e distruggere lo Stato di Israele. Il 7 ottobre è stato il momento di maggior successo di questa strategia.

M a ha anche dato inizio all’anno più tragico nella storia di quel disgraziatissimo popolo.

Appena dodici mesi dopo, questi fatti sono dimenticati. La strage di palestinesi, forse quarantamila civili uccisi; l’esodo, la fuga, la sofferenza di altre decine di migliaia di esseri umani che non avevano alcuna responsabilità nel progrom anti-ebraico del 7 ottobre, hanno nascosto alla nostra vista ogni altra considerazione che non siano la pietà per le vittime e l’indignazione per i carnefici.

È comprensibile. Stando a un sondaggio dell’Ispi, tra gli italiani che si sono fatti un’opinione la maggioranza attribuisce la responsabilità della guerra di Gaza, e anche di quella con Hezbollah, a Israele e al suo governo.

Ma non è solo per l’enormità della tragedia umanitaria cui da dodici mesi assistiamo nella Striscia se tanti di noi, e soprattutto tanti nostri figli, vedono oggi in primo piano i torti di Israele. Non è neanche per l’ignoranza — pure diffusissima — delle radici storiche di quel conflitto, che spinge a non considerare Israele una nazione come ogni altra, legittimamente costituita in Stato da una decisione a stragrande maggioranza dell’Onu, ma piuttosto come una potenza coloniale, oscuramente finanziata e sostenuta dalla lobby ebraica mondiale, che avrebbe così usurpato il diritto del più debole. Nell’isolamento in cui Israele sta combattendo la sua ennesima guerra «esistenziale» c’è infatti anche un giudizio sulla politica che ha condotto nel lungo ventennio dell’era Netanyahu.

Da troppo tempo i governi israeliani sembrano rassegnati all’odio dei loro nemici in armi, e determinati a contrastarlo con le armi e solo con quelle. La speranza di pace di quel grande popolo, che è stato capace di fare di un pezzo di deserto la «start-up nation», sembra essersi spenta insieme con la vita di Itzhak Rabin, il premier di un’altra e diversa Israele, assassinato dopo aver firmato con Arafat gli accordi di Oslo: l’ultimo tentativo di far convivere sulla stessa terra i due popoli, ebreo e palestinese, in due Stati.

Netanyahu è il figlio (e anche l’artefice) di quella delusione, che ha rafforzato gli estremisti in Israele, ma ancor di più gli estremisti di Hamas. La destra israeliana ha tollerato il feroce regime islamico a Gaza finché ha creduto che non avesse abbastanza denti per azzannare, sperando che anzi rappresentasse il miglior alibi possibile per seppellire ogni ipotesi di pace e di Stato palestinese.

Così oggi siamo arrivati a un punto in cui parlare di «due popoli, due Stati» sembra ormai una formula vuota, un’illusione. Come se non restasse che la soluzione della mutua distruzione. Hamas e Hezbollah non hanno mai cancellato dai loro statuti l’obiettivo della cancellazione dello Stato di Israele, cioè di una «Palestina libera dal fiume al mare», come ripetono gli studenti nei cortei forse senza capire che vuol dire buttare in mare fino all’ultimo ebreo.

Bisogna contrastare con tutte le forze questo disegno, difendere senza incertezze il diritto a esistere in pace e sicurezza dello Stato ebraico, di uno Stato cioè in cui gli ebrei non siano più costretti a temere o a nascondersi, come invece ancora e di nuovo avviene nella nostra civilissima Europa.

Ma se vogliamo contrastare l’antisemitismo che oggi nelle piazze si traveste da antisionismo, perché nega il diritto degli ebrei ad avere uno Stato, abbiamo anche il dovere di dire che Israele è diverso. Che deve essere diverso. Se davvero è l’unica propaggine in Medio Oriente della libertà e della democrazia occidentali, non può confondere la distruzione del nemico con l’eliminazione del pericolo. Ieri il capo delle forze armate israeliane ha dichiarato che «l’ala militare di Hamas è stata sconfitta».

È stato per questo eliminato il pericolo che viene dalla Striscia di Gaza? E se anche Israele colpisse, come farà, le strutture militari del regime iraniano, sarà per questo eliminato il pericolo che viene dalla teocrazia degli ayatollah? Israele ha diritto a difendersi dalla guerra con la guerra.

Ma non può mai smettere di muovere guerra per fare la pace.

Addio a Massimo Battista, che lottò contro l’Ilva (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

È stato operaio, ha promosso l’impegno dei Cittadini liberi e pensanti, l’iniziativa del Concerto dell’Uno Maggio, è stato, era ancora, consigliere comunale.

La famiglia e le compagne e i compagni, e Taranto, oggi lo piangono

Massimo Battista è morto, a 51 anni, per il tumore, ultima eredità della vita e della lotta contro l’Ilva. Ha salutato. “Dopo aver lottato con tutte le mie forze, per me, per la mia fantastica moglie e per i miei magnifici figli, la mia battaglia termina qui. Ho lottato tanto per questa città, ho sempre cercato di dare un futuro migliore alla mia amata Taranto. Ho combattuto come solo un leone sa fare”.

È stato operaio, ha promosso l’impegno dei Cittadini liberi e pensanti, l’iniziativa del Concerto dell’Uno Maggio, è stato, era ancora, consigliere comunale. L’avevo conosciuto prima alla fabbrica, poi al Circolo Nautico dell’Ilva (!), dove era esiliato, visitato fedelmente da vecchi compagni di lavoro e di lotta, con qualche bravo cane. Qualche scemo aveva scritto sul cancelletto (ma piccolo…) : “M. Battista imboscato”. (Gli esilii dell’Ilva sono stati scoperchiati dal bellissimo film di Michele Riondino, “La palazzina Laf”).

Oggi non ho ritrovato i miei appunti con il racconto di Battista, sono troppo disordinato, sono passati molti anni. Avevo, allora, pubblicato questa piccola posta, che ripeto, salutando la famiglia e le compagne e i compagni di Massimo, e Taranto, che oggi lo piange.

“Massimo Battista, operaio dell’Ilva di Taranto e cittadino libero e pensante, ha messo sul suo facebook (da ieri abbrunato per la nuova morte di lavoro) questo raccontino esemplare: ‘Capitano tutte a me, stasera mentre camminavo in via Plateja si avvicina una nonnina mi chiede sint bell piccinn taghi vist in televisione ma l sol d l’imu quand m lann dà’ / ‘Senti bello mio ti ho visto in televisione, ma i soldi dell’Imu quando me li danno’ / trad. mia, / ‘io gli ho risposto signora vedete meno la televisione e facim a rivoluzion ma no quedd civil’ / ‘e facciamo la rivoluzione ma non quella civile’ (trad. mia)”.

I primi passi della comunità europea sulle ceneri delle tragedie globali (linkiesta.it)

di

Mondo aperto

In “La grande incertezza” (Mondadori), Nathalie Tocci racconta l’importanza del percorso d’integrazione intrapreso dal nostro Continente a partire dal Secondo dopoguerra.

Un progetto che ha permesso di voltare pagina dopo decenni di violenze e catastrofi

La maggior parte dei cittadini italiani ed europei è nata e vissuta in un mondo aperto. L’Italia e l’Europa occidentale del dopoguerra voltarono le spalle a secoli di violenze, ingiustizie e atrocità. Si chiuse la tragica pagina della prima fase del secolo breve, «l’età della catastrofe», come la definì lo storico Eric Hobsbawm, che vide due guerre mondiali, carestie, genocidi, la Grande Depressione, totalitarismi e rivoluzioni.

Avendo toccato il fondo, l’Europa si risollevò, dando vita al progetto di pace più longevo, innovativo e trasformativo mai sperimentato, per certi versi il più rivoluzionario nella storia delle relazioni internazionali. È facile dimenticarlo o darlo per scontato, ma siamo le prime generazioni di cittadini dell’Europa occidentale che non hanno vissuto direttamente una guerra. La osserviamo, sempre più spesso, in televisione, alla radio e sui nostri cellulari. Ma non sappiamo realmente cosa sia.

L’integrazione europea nacque dalle ceneri di queste tragedie concatenate. Come scrisse saggiamente nelle sue memorie uno dei padri fondatori dell’Unione europea, Jean Monnet: «L’Europa si farà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni a queste crisi».

La previsione di Monnet si rivelò non solo acuta, ma anche sorprendentemente accurata, soprattutto negli ultimi decenni. Era innestata nel seme che diede vita alla Comunità economica europea: essere stata la soluzione che aveva permesso agli europei di voltare pagina dopo la seconda guerra mondiale, la più grande catastrofe che siamo stati capaci di infliggere a noi stessi.

Il progetto di integrazione fu certamente il frutto di idealismo, di valori e di progresso: consolidare la democrazia e rendere la guerra materialmente impossibile tra i paesi europei; un obiettivo fortemente voluto e avallato anche dagli Stati Uniti, che nel frattempo si erano legati a doppio filo all’Europa attraverso il Piano Marshall e l’Alleanza atlantica, il cui Trattato fondativo fu firmato nel 1949 a Washington.

Ma fu anche (e questa è la storia più scomoda, spesso ignorata dagli studiosi europei così come dalla politica di quegli anni) un modo per gestire la decolonizzazione dando vita a qualcosa di più grande dello Stato-nazione, che avrebbe permesso agli ex imperi europei di continuare a proiettare la loro «grandezza» al di là dei confini nazionali, o perlomeno a sperare di farlo.

Inizialmente si era tentata la via diretta. Lo stesso Monnet, all’epoca commissario generale per il piano di modernizzazione della Francia, propose nel 1950 una difesa europea al suo primo ministro, René Pleven, che a sua volta presentò quello che divenne noto come il Piano Pleven al Parlamento francese e successivamente alle democrazie dell’Europa occidentale. Il concetto di fondo ruotava attorno all’obiettivo strategico, anzi esistenziale, di assicurare che il riarmo tedesco venisse blindato in una cornice europea.

Il piano prevedeva, infatti, la creazione di un esercito comune di centomila uomini, costituito da battaglioni di sei paesi europei, inclusa la Germania occidentale, posti sotto il comando supremo della Nato. Integrando gli eserciti europei, questi non sarebbero stati più in grado di scendere in guerra gli uni contro gli altri. Il Piano Pleven diede vita al Trattato sulla Comunità

di difesa europea, che però, nonostante la ratifica degli altri Stati europei, si infranse sul rigetto dell’Assemblea nazionale francese nel 1954. Il risultato fu paradossale, data la genesi francese dell’iniziativa, ma, a ben vedere, non lo era. La seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista erano finite da meno di un decennio.

Basti pensare al risentimento ancora a fior di pelle tra i paesi europei generato dalla crisi del debito sovrano per rendersi conto che la memoria e il terrore dei conflitti erano ancora troppo vivi, e la sovranità riconquistata troppo giovane per cederla proprio nell’ambito più strategico ed esistenziale di uno Stato: la difesa.

Tuttavia, i padri fondatori non demorsero, trovando una via indiretta per raggiungere lo stesso scopo. Mettendo a fattor comune le industrie del carbone e dell’acciaio, alla base dell’industria della difesa, i sei paesi fondatori diedero vita a un processo di integrazione, apparentemente «solo» economico, ma in realtà profondamente politico e strategico. Se gli Stati membri della nuova comunità avessero fuso le loro industrie dell’acciaio e del carbone, questo non avrebbe solamente generato un’interdipendenza economica fra loro, ma anche intrecciato indirettamente le rispettive industrie della difesa, alimentate da quelle stesse materie prime.

Come avevano previsto e auspicato i padri dell’Europa unita, tra cui Robert Schuman, Jean Monnet e Altiero Spinelli, all’emergere di ogni nuova sfida si rivelava una diversa sfaccettatura dell’insufficienza dello Stato-nazione a fornire risposte ottimali.

Conseguentemente, si poneva un ulteriore mattoncino della casa comune europea, aggiungendo e talvolta trasferendo competenze (nel senso sia giuridico sia professionale del termine) al livello sovranazionale europeo. Così nel corso dei decenni si è andata costruendo una Comunità e poi un’Unione europea (Ue), con le sue istituzioni, i suoi processi decisionali e democratici, e il suo mercato unico, in cui vennero sancite le quattro libertà di movimento dei beni, dei servizi, del capitale e delle persone.

Fiore all’occhiello dell’integrazione economica europea fu la moneta unica – l’euro –, introdotta formalmente nel 1999 dopo un decennio di preparativi, e utilizzata come contante tra un gruppo leggermente più ristretto di Stati membri – noto come Eurogruppo – dal 2002.

Negli anni dell’Europa aperta fu creata anche l’area Schengen, con l’abolizione delle frontiere interne tra gli Stati europei e la creazione di una frontiera esterna comune. Importante ricordare, però, che all’inizio l’apertura dei confini interni non fu accompagnata dal tentativo parallelo di chiudere la frontiera esterna, certamente non della sua securitizzazione avvenuta successivamente.

Negli anni Ottanta quando fu firmato il Trattato Schengen, e nei Novanta quando venne attuato e si ampliò l’area Schengen in concomitanza con l’allargamento Ue ai paesi scandinavi, vigeva infatti un equilibrio sostanzialmente precario ma apparentemente stabile ai nostri confini esterni.

Nell’Europa meridionale, fatta eccezione per l’Italia, che già iniziava a zoppicare dalla metà degli anni Novanta, le economie erano in forte miglioramento. Soprattutto la Spagna, ma anche le più piccole Grecia e Portogallo, voltata la pagina della dittatura e abbracciata la democrazia, vissero anni di crescita economica e quindi di capacità di assorbimento socio-politico dei flussi moderati di immigrazione dal Nord Africa.

Sull’altra sponda del Mediterraneo apparivano invece stabili le autocrazie, da Hosni Mubarak in Egitto a Muammar Gheddafi in Libia e Zine el-Abidine Ben Ali in Tunisia. Era una stabilità solo apparente, che non faceva perno su una forte legittimazione interna, bensì sul controllo esercitato da quei dittatori sui propri cittadini e su una loro legittimazione esterna assicurata proprio dai rapporti cooperativi con i paesi europei. Il do ut des risiedeva in una cooperazione tra i regimi nordafricani e il Vecchio Continente, che colmava parzialmente la mancanza di legittimità interna dei primi.

Tratto da “La grande incertezza. Navigare le contraddizioni del disordine globale” (Mondadori), di Nathalie Tocci, pp. 192, 18.00 €

USA – Perché la Corte Suprema potrebbe esprimere il voto finale per il presidente (politico.com)

di Aziz Huq

In panchina

Tre scenari per i grandi interventi.

Il nuovo mandato della Corte Suprema che è iniziato questa settimana non è traboccante di ovvi successi. I giudici hanno preso in considerazione un grande caso di guerra culturale – una sfida al divieto del Tennessee sull’assistenza sanitaria per l’affermazione di genere per i giovani trans – ma hanno rifiutato gli inviti ad approfondire l’assalto della corte allo stato amministrativo.

Durerà questa modestia? Una ragione per pensare di no è questa: il ciclo delle elezioni presidenziali sta appena arrivando al punto in cui i conflitti politici potrebbero trasformarsi in casi costituzionali. In effetti, la Corte Suprema ha già dimostrato di non aver paura di rimescolare le regole elettorali poche settimane prima dell’inizio del ballottaggio: ha recentemente accettato un tentativo repubblicano di richiedere la prova della cittadinanza per alcune schede elettorali dell’Arizona.

E’ impossibile prevedere se un altro Bush contro Gore è dietro l’angolo. Eppure la corte potrebbe presto trovarsi di fronte a una disputa di alto profilo senza una risposta legale ovviamente “giusta” – e dove il risultato decide le elezioni.

Esistono già tre strade per la Corte Suprema se vuole rimodellare l’esito del 2024.

Il primo percorso consiste nell’impugnare la sentenza di un tribunale statale sulla legge elettorale statale. La Corte Suprema di solito ascolta solo i casi di diritto federale. Ma una decisione del 2022 in Moore v. Harper ha stabilito che i giudici potevano intervenire se i giudici statali “superavano i limiti del controllo giudiziario ordinario” nel pronunciarsi sulla legge elettorale statale. I giudici non hanno mai chiarito cosa potesse comportare questo linguaggio vago. Ciò significa che hanno mano libera per rimettere in discussione le decisioni della legge statale dei tribunali statali quando si tratta di elezioni federali.

Nella Carolina del Nord, diverse cause sono state presentate in un tribunale statale per contestare le liste elettorali dello stato e le procedure di voto per corrispondenza. Forse il più significativo – sostenere che 225.000 elettori sono stati registrati in modo improprio – si è appena spostato alla corte federale.

Che rimanga lì o che venga rimbalzato al tribunale statale, è uno dei numerosi veicoli per i giudici per decidere potenzialmente la corsa presidenziale del 2024 se lo stato di Tar Heel è fondamentale. Una sfida alle pratiche di registrazione degli elettori in Pennsylvania, respinta dai giudici proprio questo lunedì, è un promemoria del fatto che questo problema potrebbe presentarsi in uno qualsiasi degli stati in bilico.

Un secondo percorso per la corte si apre dopo che le votazioni sono state espresse. Dopo che il vincitore di uno stato è stato dichiarato, una lista di elettori deve essere “certificata” da ogni stato prima che il collegio elettorale si riunisca per ungere formalmente il prossimo presidente. Cosa succede, tuttavia, se uno Stato non riesce a presentare la sua lista al Congresso in tempo?

Fino a poco tempo fa, la risposta non era molto. L’Electoral Count Act del 1887 affermava che le proposte entro una data di “approdo sicuro” di dicembre erano trattate come “conclusive”, ma le presentazioni tardive potevano ancora essere prese in considerazione.

Tuttavia, quando il Congresso ha rivisto lo statuto nel 2022 per cercare di prevenire un altro caso di frode e caos che ha avuto luogo il 6 gennaio 2021, ha modificato la scadenza del “porto sicuro” per renderla obbligatoria. Lo statuto, tuttavia, tace su cosa succede se uno Stato supera la data di presentazione obbligatoria.

Il Congresso può ancora prendere in considerazione la lista? O i seggi del Collegio Elettorale dello Stato sarebbero stati eliminati dal conteggio finale? La nuova legge sottopone la questione ai tribunali e crea un meccanismo accelerato per le controversie relative alla certificazione per raggiungere i giudici.

Immaginate, quindi, che la commissione elettorale dello stato della Georgia, sostenuta dal MAGA, si rifiuti di certificare la vittoria di Harris. A dire il vero, la legge statale impone quella che alcuni chiamano una scadenza “cristallina” per la certificazione dello stato.

Ma i membri del MAGA del consiglio potrebbero dire che i loro giuramenti costituzionali vietano loro di prestare attenzione a una legge statale che richiede loro di benedire quello che etichettano (falsamente) come risultato fraudolento. Il conflitto sulla legge statale potrebbe legare le mani del governatore, aprendo la porta a una sfida legale ai sensi della legge sul conteggio elettorale modificata.

E se ciò accadrà, i giudici si troveranno nella scomoda posizione di cercare di colmare una lacuna nel nuovo statuto – che, ricordiamolo, non dice cosa fare se non viene certificata alcuna lista – in un caso che determina chi presterà giuramento presidenziale poche settimane dopo.

La terza strada per la corte si apre dopo che una sessione congiunta del Congresso si è riunita per benedire il conteggio del Collegio Elettorale. È il meno probabile che si svolga – forse fortunatamente, perché sarebbe anche il più esplosivo.

Secondo la legge federale, un quinto dei senatori e un quinto dei rappresentanti possono opporsi alla certificazione del collegio elettorale di uno stato. Un motivo di obiezione è che i voti non sono stati “dati regolarmente”. Ancora una volta, questo linguaggio legislativo non è esattamente chiaro, ma un importante resoconto accademico suggerisce che significhi un cast coerente con “la Costituzione federale, la legge federale e la legge statale”. I voti per qualcuno che non è qualificato per essere presidente rientrerebbero probabilmente in questa categoria.

Consideriamo quindi la possibilità che alcuni democratici vogliano ricordare alla gente che Donald Trump ha avuto un ruolo attivo nelle violenze del 6 gennaio 2021 e vogliano fare un ultimo disperato tentativo di far deragliare il suo ritorno alla presidenza. Ricordiamo che il Colorado ha cercato di squalificare Trump dal ballottaggio delle primarie, sulla base del fatto che era un insurrezionalista escluso dalla Sezione 3 del 14° Emendamento.

La Corte Suprema ha respinto questa argomentazione. Ma i giudici lo hanno fatto sostenendo che solo gli attori federali, e non gli stati, potevano squalificare un candidato presidenziale. Anche se spesso oscuro, il parere di squalifica della corte non esclude una conclusione dell’ultima ora secondo cui Trump, in quanto insurrezionalista, non può ricoprire una carica federale.

Senza dubbio, questi democratici avrebbero difficoltà a convincere le maggioranze sia della Camera che del Senato ad essere d’accordo. Anche se perdono, potrebbero appellarsi ai tribunali sostenendo che i loro colleghi hanno frainteso il loro potere – e il loro dovere – nella sessione congiunta?

Potrebbero trovare un giudice della corte distrettuale comprensivo, disgustato dalle presunte macchinazioni del giudice capo John Roberts nei casi Trump, che sia d’accordo? E allora la questione della squalifica di Trump tornerebbe davanti ai giudici – proprio mentre la clessidra elettorale si svuota.

In un certo senso, non ci si può aspettare che i giudici apprezzino la prospettiva di decidere questi casi: tutti sembrano godere almeno dell’apparenza di stare al di sopra della politica. Ma questo è opera loro. La Corte Suprema si è posizionata come l’ultima parola necessaria su quasi tutte le questioni di importanza nazionale.

Le sue stravaganti pretese di autorità – ben oltre ciò che i Padri Fondatori avevano previsto – potrebbero finalmente tornare a perseguitarlo questo autunno.

Le persone passano fuori dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.

Intervista a Stefano Levi Della Torre: “Se il fondamentalismo ebraico agisce come quello islamico, Israele resterà solo” (unita.it)

di Umberto De Giovannangeli

Saggista e nipote di Carlo Levi

«L’opposizione che si era sollevata contro il governo di destra e le sue leggi volte a stravolgere la democrazia in democratura e in etnocrazia, ha aggirato il punto centrale: la questione palestinese e del regime di apartheid coloniale»

Stefano Levi Della Torre, saggista, critico d’arte, nipote di Carlo Levi, è tra le figure più autorevoli, sul piano culturale e per il coraggio delle sue posizioni, dell’ebraismo italiano.

Tra i suoi numerosi saggi, ricordiamo, per la sua acutezza e stringente attualità, Essere fuori luogo. Il dilemma ebraico tra diaspora e ritorno (Donzelli Editore). Stefano Della Torre è uno dei promotori dell’appello “Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace”, in cui c’è scritto, tra l’altro: “Il 7 ottobre, non solo gli israeliani ma anche noi che viviamo qui siamo stati scioccati dall’attacco terroristico di Hamas e abbiamo provato dolore, rabbia e sconcerto. E la risposta del governo israeliano ci ha sconvolti: Netanyahu, pur di restare al potere, ha iniziato un’azione militare che ha già ucciso oltre 28.000 palestinesi e molti soldati israeliani, mentre a tutt’oggi non ha un piano per uscire dalla guerra e la sorte della maggior parte degli ostaggi è ancora incerta.

Purtroppo, sembra che una parte della popolazione israeliana e molti ebrei della diaspora non riescano a cogliere la drammaticità del presente e le sue conseguenze per il futuro. I massacri di civili perpetrati a Gaza dall’esercito israeliano sono sicuramente crimini di guerra: sono inaccettabili e ci fanno inorridire. Si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie.

Molti di noi hanno avuto modo di ascoltare voci critiche e allarmate provenienti da Israele: ci dicono che il paese è attraversato da una sorta di guerra tra tribù – ebrei ultraortodossi, laici, coloni – in cui ognuno tira l’acqua al proprio mulino senza nessuna idea di progetto condiviso. Quello che succede in Israele ci riguarda personalmente: per la presenza di parenti o amici, per il significato storico dello Stato di Israele nato dopo la Shoah, per tante altre ragioni. Per questo non vogliamo restare in silenzio.

Ci sembra urgente spezzare un circolo vizioso: aver subito un genocidio non fornisce nessun vaccino capace di renderci esenti da sentimenti d’indifferenza verso il dolore degli altri, di disumanizzazione e violenza sui più deboli. Per combattere l’odio e l’antisemitismo crescenti in questo preciso momento, pensiamo che l’unica possibilità sia provare a interrogarci nel profondo per aprire un dialogo di pace costruendo ponti anche tra posizioni che sembrano distanti”. L’Unità lo ha intervistato.

Gaza, Libano. Iran. Non c’è pace in Medio Oriente. È un destino ineluttabile?

La guerra è in corso. Le guerre tendono a protrarsi per interessi combinati, a cominciare dall’economia delle armi e delle loro sperimentazioni. Più in generale, si protraggono per una perversa inerzia di azione e reazione fino al punto in cui i superstiti si inventano di tutto pur di uscirne.

Come siamo creativi nell’inventare ordigni di distruzione, così, costretti dalla necessità da noi stessi prodotta, lo siamo nell’inventare sbocchi prima impensabili. Le guerre di religione che hanno devastato l’Europa l’hanno poi riconfigurata e dalla loro terrificante esperienza regressiva sono nati nuovi criteri nei rapporti tra popoli e poteri, istanze di tolleranza pluralista e inclusiva attraverso Grozio o Locke o Montesquieu, fino all’illuminismo.

Per poi magari ricadere nella regressione dei fondamentalismi nazionalistici e religiosi e nella guerra, come oggi. Purtroppo, è questo l’andamento della storia che non sappiamo evitare, in cui le vittime, o meglio i vittimisti, si fanno carnefici. Il nuovo nasce dalle necessità imposte dalle catastrofi. Ciò vale per l’ambiente come per la politica. Non sappiamo anticipare gli esiti delle crisi, ma nelle crisi non possiamo né dobbiamo rinunciare ad elaborare prospettive del futuro.

Da quel tragico 7 ottobre 2023 Israele è un paese in guerra. Una guerra “per sempre”.

Israele vincerà militarmente e perderà politicamente. L’ossessione di una deterrenza stragista in sostituzione di una politica propositiva produce il suo isolamento, il crollo del suo prestigio e del suo consenso internazionale. Mentre lungo i secoli le potenze salivano e scendevano, la durata degli ebrei è un fenomeno anomalo che non si è mai basato sulla forza. L’affidarsi alla forza come fa adesso Israele contraddice la storia ebraica e le sue strategie di durata.

Quanto più la destra, di governo e anche nel senso comune, condurrà Israele da un lato a insistere, nei territori occupati, secondo i modi desueti di un colonialismo d’altri tempi; quanto più il nazionalismo e il fondamentalismo ebraico si spingerà ad assimilarsi ai modi e alle mentalità dei fondamentalismi islamisti da cui Israele deve difendersi, tanto più Israele si troverà isolato, corpo estraneo nella sua regione e nel mondo. In una china da cui dovrà risalire per vivere e sopravvivere.

Avendo vissuto nei secoli nel mondo dei vinti, dopo la Shoah il mondo ebraico si è trovato inscritto nel mondo dei vincitori e se ne è valso. Ma ora sono appunto i “vincitori” della Seconda guerra mondiale e della guerra fredda a veder declinare la loro centralità nel mondo, ad essere contestati e sotto attacco. Proporsi come baluardo di un mondo in declino (finché non saprà rinnovarsi) non è promettente per Israele.

C’è ancora spazio per realizzare una pace fra Israeliani e Palestinesi fondata sul principio due popoli, due Stati”?

La prospettiva “due popoli due Stati” (proprio quella che portò la destra estrema ad assassinare Rabin, con la complicità di personaggi ora al governo) è attuale come orientamento, non lo è per l’oggi: implicherebbe una guerra civile in Israele ad opera dei coloni e della destra che li sostiene, li incoraggia e li arma.

La loro missione è esattamente quella di impedire la prospettiva di un’indipendenza palestinese. C’è chi dice che Israele non ha una politica. Effettivamente solo la destra estrema ha un programma chiaro, ed è quello di risolvere definitivamente la questione palestinese, facendone strage e cacciando in massa i palestinesi dalla loro terra, e quello di risolvere con la guerra la minaccia iraniana.

Sotto il prevalere della destra, e anzi fin dall’assassinio di Rabin nel 1995, Israele era già in una guerra, latente ma sistemica, con i palestinesi in Cisgiordania e nell’accerchiamento di Gaza. L’aggressione e il massacro compiuto da Hamas e Jihad il 7 ottobre 2023, ha traumatizzato profondamente Israele, ha travolto l’illusione in una sicurezza raggiunta, e ha trasformato la guerra da implicita in esplicita E ha attivato i nemici di Israele dal Libano e dallo Yemen.

Con l’uccisione, il primo aprile 2024, di funzionari iraniani a Damasco, Netanyahu ha voluto aprire direttamente il fronte con l’Iran, per internazionalizzare la crisi, proponendosi come risolutore per conto dello schieramento geo-politico in cui si inscrive, del disordine mediorientale, per guadagnare un consenso logorato dai crimini contro l’umanità, dalla palude di sangue e sofferenza su cui insiste a Gaza in cui si è impantanato, non solo contro Hamas ma contro il popolo palestinese.

Israele è anche, sempre più, un paese lacerato tra le sue due anime. Una spaccatura che spesso è sottaciuta o sottovalutata dalla stampa di casa nostra.

Israele è certamente spaccato in due. Da un lato, un Israele in prevalenza laico e liberale; dall’altro un Israele nazionalistico e fondamentalista che agita i miti “messianici” della terra promessa, la religione ebraica e l’etnocrazia come vessilli idolatrici. Quando si invoca l’unità nella solidarietà con Israele aggredito da Hamas, per quale Israele la si invoca? D’altra parte, l’opposizione che si era potentemente sollevata contro il governo di destra e le sue leggi volte a stravolgere la democrazia in democratura e in etnocrazia, ha aggirato il punto centrale: la questione palestinese lasciata suppurare senza prospettive, la questione del regime di apartheid coloniale nei territori occupati, da cui promana un inquinamento ideologico e razzistico nel senso comune e nelle stesse istituzioni di Israele.

Come muoversi, anche da parte della diaspora ebraica, in questo scenario?

Certamente occorre contare ed appoggiare in tutti i modi quella parte di Israele che resiste alla mutazione negativa di Israele e dello stesso sionismo. Il quale era partito per rivendicare il diritto degli ebrei di farsi Stato ed ora si presenta come pretesa di negare ad altri quello stesso diritto. Anche se ridotta dalla guerra che chiama all’unità nazionale, è in quella opposizione che stanno le possibilità di risalire, forse in un’altra generazione, da questa catastrofe.

E certo l’antisemitismo riattivato, a destra e a sinistra, dalla conduzione di Israele, e quel palestinismo che inneggia a Hamas e al suo fondamentalismo come rappresentante del riscatto palestinese e alla distruzione di Israele non aiutano, anzi sono nemici radicali. Essi alimentano la destra oltranzista ebraica e il suo vittimismo secondo cui “sono tutti contro di noi e solo ci resta la deterrenza militare”; e offrono alla destra non ebraica e magari di tradizione fascista, l’occasione di velare le sue responsabilità antisemite ponendosi a “difesa degli ebrei contro l’antisemitismo”. Ma con l’antisemitismo occorre confrontarsi.

In che modo?

A differenza di quella destra, in Israele e in diaspora, che considera l’antisemitismo un male metafisico e fatale, per cui non mette conto di confrontarsi con esso, per cui solo la forza e la deterrenza militare ce ne salva. Israele non se la caverà da solo. Ha bisogno della diaspora se in essa non rimarrà solo l’incanto subordinato allo “Stato guida”, ma si farà strada una critica solidale.

E mentre la destra scava la solitudine di Israele accusando l’opinione e il diritto internazionale e l’Onu di antisemitismo, Israele si salverà solo con l’aiuto critico del mondo, in appoggio alle sue forze democratiche e progressiste interne.