Licia Rognini Pinelli aveva una storia da raccontare. E non era soltanto sua (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

È morta a Milano, a 97 anni, la moglie dell’anarchico che il 15 dicembre 1969 morì dopo essere precipitato da una finestra del quarto piano della questura di Milano

“Una storia quasi soltanto mia”, con questo titolo Licia Rognini Pinelli l’aveva raccontata a un nostro carissimo compagno e amico, Piero Scaramucci. In quella riserva, “quasi”, stava la condivisione di tanta parte della gente italiana, di chi allora c’era e di chi ancora non c’era e ha saputo, ha voluto sapere.

Avrebbe ricordato, Licia: “Il libro, edito inizialmente da Mondadori, nel 1982, venne mandato al macero poco tempo dopo la sua uscita”. E’ stato ripubblicato da Feltrinelli, nel 2009, e più volte da allora.

Lei, le sue figlie, i nipoti, le amiche, gli amici, non stava tutta in quella storia. Scrisse ancora di sé, per l’Enciclopedia delle donne, e intitolò così: “Dopo”. Con una domanda “che mi ronzava continuamente nella testa: ‘Che senso ha la vita’… Anche da bambina, quando sognavo di diventare medico e di curare la gente, ‘pensavo’ che sarei rinata più volte e sarei diventata più persone”.

Scrisse anche dell’udienza del 2009 dal presidente Napolitano, apprezzandone “l’umanità e la semplicità”. Aggiungendo: “In quella occasione il Presidente disse cose che avrei voluto sentire molti anni prima”.

Dopo, più di mezzo secolo dopo, appena un mese fa, il Comune di Milano ha annunciato che la grande, magnifica opera di Enrico Baj, “I funerali dell’anarchico Pinelli”, sarà esposta in permanenza al pubblico nel Museo del Novecento. C’è bisogno di molto tempo, infatti. A volte non basta.

“Adesso il testimone è passato alle mie figlie”, scrisse anche. Silvia e Claudia. Ora è successo. Licia è morta, a casa sua, come voleva. Aveva chiuso il suo libretto di allora con una frase letta una volta su un poster: “Alla fine della vita ciò che conta è aver amato”. E lei è stata amata.

Succede che non si abbia più spazio per ciò cui non si vuol bene, e lo si riservi intero alle persone e alle cose cui si vuol bene. E si sia grati di condividere con loro il mondo che si abita. Licia Rognini Pinelli lo ha abitato, ha continuato ad abitarlo, fino alla vigilia dei suoi 97 anni.

Forse, probabilmente, fin troppo a lungo per lei. Vorrei – ci credo – che abbia sempre ricordato che cosa la sua vita volesse dire per tante, tanti altri. Ho appena visto il titolo di un’agenzia: “Piazza Fontana: morta a Milano Licia Pinelli”. Involontario, naturalmente, e involontariamente efficace. Milano, Piazza Fontana, 55 anni dopo.

Quest’anno il 15 dicembre sarà più caldo, apriremo tutte le finestre.

(Licia Rognini Pinelli con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – foto Ansa)

Se il cattivo esempio fa vincere (corriere.it)

di Beppe Severgnini
Oggi siamo arrivati alla kakistocrazia, il 
governo dei peggiori, orgogliosi di esserlo. 
O, se non altro, felici di sembrarlo

La vittoria di Donald Trump è netta e istruttiva. Ma sostenere che rappresenti un passo avanti per la democrazia sembra azzardato. Il profumo dei vincitori è irresistibile, per tanti italiani.

L’ansia di applaudire non aiuta a capire cosa sta accadendo: l’importanza dell’affidabilità e della coerenza, per un leader politico, è passata in secondo piano. Quello che dice conta più di ciò che fa. Mostrarsi virtuoso rischia addirittura d’essere controproducente: potrebbe allontanare gli elettori, che si sentirebbero sminuiti.

I giornali americani hanno elencato puntigliosamente le falsità con cui il presidente-rieletto ha farcito discorsi e comizi. La bufala degli immigrati haitiani che mangiano gli animali domestici era la più grottesca, non certo la più grave. Non ha fatto alcuna differenza, anzi: sembra aver favorito il candidato repubblicano.

Il suo vice J.D. Vance ha spiegato al New York Times, con calma olimpica, che forzare la verità è talvolta necessario per superare l’ostilità dei grandi media. Colpevoli, evidentemente, di verificare le notizie.

«Non sono migliore di voi. Sono peggiore. Perciò votatemi!» sembra la nuova formula magica della democrazia americana. E dall’America, si sa, noi importiamo molte cose. Sfogare gli istinti e sfoggiare i difetti è diventato un modo per rassicurare quegli elettori — e sono tanti — che detestano le critiche. Chi regala approvazione incondizionata è popolare; chi avanza proposte è noioso; chi solleva obiezioni, insopportabile.

Non occorre essere uno storico per saperlo, basta qualche ricordo scolastico: il popolo, nella Grecia di Platone e Demostene o nella Roma repubblicana, chiedeva leader ammirevoli. Questa pretesa — questa illusione? — è durata per secoli, in luoghi e contesti diversissimi. Il popolo, dai suoi leader, voleva onestà, sincerità, sobrietà. Raramente la otteneva, ma almeno la chiedeva.
Neppure i dittatori sfuggivano alla regola. 

Benito Mussolini non ostentava i suoi eccessi: fingeva di essere sobrio e virtuoso, gli italiani fingevano di crederci. Solo autocrati e tiranni, oggi, continuano la farsa. Il nordcoreano Kim Jong-un, qualche settimana fa, è andato su tutte le furie quando su Pyongyang sono piovuti volantini che mostravano i lussi suoi e della famiglia a una nazione poverissima. Donald Trump li avrebbe utilizzati come manifesti elettorali: guardate quanto sono sfacciato, applauditemi! E non c’è dubbio, i suoi elettori avrebbe applaudito.

Aristocrazia significa, com’è noto, governo dei migliori. Oggi siamo alla kakistocrazia, il governo dei peggiori, orgogliosi di esserlo; o, almeno, felici di sembrarlo. Il copyright di questo discutibile stilnovo appartiene a Boris Johnson e allo stesso Trump: entrambi, nel 2016, hanno vinto sventolando con orgoglio i propri capricci e le proprie debolezze. Le critiche degli avversari? Ignorate, irrise. Finché i due non hanno dovuto governare. Allora inglesi e americani hanno capito, ma era tardi.

Nell’introduzione di Narrare l’Italia, Luigi Zoja, uno psicoanalista che conosce l’antropologia e la storia, ha scritto: «La crescita dei figli non è guidata dalle regole che i genitori impartiscono, ma dagli esempi che offrono. Anche i governanti — padri e madri del popolo — potranno predicare quelle che considerano necessarie virtù nazionali, ma le diffonderanno solo se saranno i primi a praticarle».

L’autore dovrà ammettere che c’è una novità. I leader vincenti hanno smesso di «predicare le necessarie virtù della nazione», preferiscono applaudirne i difetti. Si fa meno fatica, e rende di più.

Le parole «Dài il buon esempio!» sono la colonna sonora di molte, lontane infanzie italiane. E ciò che si chiedeva a un primogenito o a un capoclasse si pretendeva da un primo cittadino o dal capo del governo. Se tradivano la fiducia — e accadeva con una certa frequenza — ci rimettevano il posto e la reputazione. Oggi essere etichettato come «un buon esempio» non è solo anacronistico: è rischioso.

Chi crede di essere questo/questa? Come si permette di indicarci una strada, di suggerirci un comportamento? Sappiamo sbagliare da soli, grazie.

Un cattivo esempio è rassicurante, per molti elettori: vale un’assoluzione preventiva. Se è la nuova strada scelta dalla democrazia, prepariamoci al peggio. Diventerà impossibile liberarsi di un leader scelto in questo modo e per questi motivi.

Cosa volete da me?, risponderà dopo aver deluso e fallito. Vi avevo detto chi ero, e mi avete votato con entusiasmo. Ora zitti e buoni: non lamentatevi.