L’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli, e non importa chi l’ha detto per primo (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola posta

Sono parole (anche) di Michel Houellebecq al festival “Radici” di Torino, ed è notevole che tutti i cronisti abbiano colto l’efficacia dell’aforisma.

Ma non è lo scrittore francese ad averlo detto per primo

Caro Michele Battini, ho pensato a te oggi, dopo aver finito di leggere quattro cronache dell’intervento di Michel Houellebecq a Torino, al festival “Radici”: sulla Stampa, sul Corriere della Sera, sul Giornale e sul Huffpost.

Tutte e quattro non mancavano di riferire la tagliente definizione che Houellebecq ha dato dell’antisemitismo contemporaneo: “Mi sembra il socialismo degli imbecilli”. La Stampa ne ha fatto anche il titolo di copertina, sopra la foto dello scrittore: “Antisemiti imbecilli”.

E’ notevole che tutti i cronisti abbiano colto l’efficacia dell’aforisma di Houellebecq. D’ora in poi lo troveremo giustamente citato (purché sopravvivano dei socialisti che disprezzino l’antisemitismo).

Finora la confusione riguardava Lenin, cui da molti – basta scorrere Google – veniva attribuita la sentenza. Lenin l’aveva effettivamente pronunciata, ma citando August Bebel, il fondatore, con Wilhelm Liebknecht, del partito socialdemocratico tedesco.

A quanto pare lo stesso Bebel aveva fatto propria, e reso famosa, l’espressione circolata nella socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento. Tu poi hai intitolato così, “Il socialismo degli imbecilli”, il tuo libro, per Bollati Boringhieri, del 2010. Un precursore di Houellebecq.

(Non mi rimproverate la pedanteria. Al contrario: mi piace l’idea che, ai tempi che corrono, e corrono forte, uno dica, senza rimandare alla fonte, non so, “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. E il giorno dopo se lo veda attribuire in prima pagina da un capo redattore sveglio).

(LaPresse)

Con Pertini a Pechino, fra folle festanti e agguati per sabotarlo. Un aneddoto (finora) riservato (ilfoglio.it)

di Adriano Sofri

Piccola Posta

Il presidente partigiano scalda i cuori dei giovani cinesi, mentre una ressa di giornalisti cerca di provocarlo per metterlo in cattiva luce e puntare alle dimissioni. Un pericolo scampato per poco, attraverso un punto di vista inedito, raccontato da chi c’era

Caro Giuseppe De Rita, mi ha rallegrato la sua rivendicata appartenenza a un’oligarchia del bene pubblico nell’intervista a Fubini per il Corriere. Lei vi ha ricordato di essere stato molto amico di Antonio Maccanico, “uno degli oligarchi più riconosciuti”, che “come segretario generale, con la sua cucitura orizzontale, è stato determinante per il Quirinale di Pertini”.

Così le racconto un antico episodio che ho tenuto per me: lei saprà capirne più di quanto non ne capissi io allora. Cioè nel 1980, al tempo del viaggio ufficiale del presidente Pertini in Cina, il primo, il più lungo e delicato.

Avevo fatto amicizia con Sandro Pertini nel 1977, quando presiedeva la Camera, e gli chiesi di venire a commemorare Walter Rossi, un nostro compagno di vent’anni ucciso da fascisti a Roma mentre distribuiva un volantino. Pertini ringraziò dell’invito, chiese di rifletterci, all’indomani si disse dispiaciuto di non tenere l’orazione, però sarebbe venuto al funerale. Da allora avemmo un rapporto frequente e cordiale.

Dopo la sua elezione alla presidenza della Repubblica venni accolto nei viaggi presidenziali, gratis, da imbucato, in considerazione della povertà di Lotta Continua e grazie alla gentilezza del portavoce Bruno Agrò e del fotografo del Quirinale Marcello Picchi. Andai in Jugoslavia due volte, per la visita ufficiale e poi, nel maggio 1980, per il funerale di Tito.

Nel settembre fu la volta del viaggio in Cina. Pertini aveva 84 anni. Lo accompagnava Emilio Colombo, allora ministro degli Esteri. Nel seguito egregio di giornalisti spiccava per solitudine altera (con la compagnia di sua sorella Paola) Oriana Fallaci, che aveva appena messo a segno l’intervista celebre a Deng Xiaoping.

Fummo tutti introdotti graziosamente da Deng. L’incontro fra Pertini e Deng fu epico: “Un combattente saluta un altro combattente”, ”un compagno partigiano saluta un altro compagno partigiano”.

Avevo il privilegio di un rapporto molto confidenziale con Pertini, e di dargli del tu, come mi aveva intimato di fare dal primo incontro: in qualche rievocazione mi si deplora l’impertinenza (così il veterano Roberto Tumbarello: “Il solo a dargli del tu era Adriano Sofri. A me dava molto fastidio, sebbene fosse uno dei colleghi che apprezzavo maggiormente per intelligenza e acume nei suoi resoconti. Neppure deputati e ministri si permettevano tanta confidenza con l’anziano presidente”).

Maccanico aveva ragioni di preoccupazione per il viaggio: c’era il fresco precedente del licenziamento dell’ottimo Antonio Ghirelli, l’annullamento di un viaggio ufficiale in Thailandia per delle frasi imprudenti del presidente, e l’allarme generale per l’imprevedibilità delle sue mosse. E la convinzione di un’inopportunità cerimoniale della partecipazione della moglie di Pertini, Carla Voltolina (nel “Diario” Maccanico avrebbe annotato: “La novità della partecipazione di Carla Pertini al viaggio ha creato seri problemi”).

Come quando si avverte un ospite di stare attento a non urtare il prezioso vaso cinese, il guaio non tardò ad avvenire. Il 20 settembre, all’università di Pechino. Pertini interruppe bruscamente una sofisticata esibizione ginnica degli studenti: al diavolo la ginnastica, sono venuto a parlare coi ragazzi, come un nonno coi nipoti.

Panico nel protocollo, interdetto fra i ragazzi, e finalmente la paternale di Pertini accolta dagli applausi dei giovani e le felicitazioni del rettore. Buona parte degli inviati italiani si mostrò più scandalizzata degli impassibili cerimonieri cinesi, e mentre Pertini andava fiero della riconfermata popolarità e della trasgressione del regolamento, si diffuse un sentimento di imbarazzo o di vero fallimento.

Cui una parte della stampa si era mostrata per così dire predisposta, dal momento che fin dallo sbarco a Pechino Pertini fece un’intemerata al corrispondente del Corriere, Piero Ostellino. Ostellino aveva pubblicato sul settimanale del Pli, l’Opinione, un reportage preventivo singolarmente irriguardoso – si portava appresso una moglie bizzosa e indisposta ai rapporti diplomatici, decisa ad andare in giro da sola e a svegliarsi all’ora che preferiva… – che fece infuriare Pertini. “Mia moglie non si tocca!”.

Gli incidenti si moltiplicavano. Sulla Tienanmen Pertini, invano inseguito, lasciò di colpo il collega presidente Hua Guofeng per andare ad abbracciare e baciare la folla di bambini, donne e giovani radunati ad agitare bandierine e applaudire: Hua si mise ad applaudire anche lui.

Nella serata ultima all’ambasciata di Pechino, conclusi gli impegni con gli ospiti, i giornalisti si intrattennero con Pertini, e si adoperarono, allegramente o malevolmente, a provocarne la famosa e ingenua vanità, sul proprio anticonformismo e il successo coi giovani.

Maccanico mi prese in disparte e mi disse accoratamente che c’era una vera cospirazione per mettere in cattiva luce Pertini, fino a mirare alle dimissioni, che questo disegno faceva capo, oltre al Corriere, a Eugenio Scalfari, e che il suo esito avrebbe dovuto essere la successione di Bruno Visentini. Mi chiese di estrarre il presidente da quella ressa, persuaderlo che si era fatto tardi e che ci aspettava un giorno impegnativo, il viaggio a Xi’an, e con l’aiuto di Picchi accompagnarlo al suo alloggio.

Ciò che mi sbrigai a fare, con la scherzosa rassegnazione di Pertini. In effetti gli eventuali cospiratori avevano sottovalutato l’imperturbabile tranquillità degli ospiti cinesi, che subissarono di elogi i modi così affabili del vecchio partigiano italiano dal cuore giovane, che aveva scaldato i cuori dei giovani cinesi, e così via.

Maccanico fu sollevato dallo scampato pericolo, e mi fu grato oltremisura. Nel suo “Diario”, pubblicato dal Mulino con la prefazione di Scalfari, i giorni tormentati del viaggio sono taciuti. Al 1° ottobre si legge: “Il viaggio in Cina è terminato con un drammatico e precipitoso rientro da Hong Kong in seguito al voto a scrutinio segreto della Camera che ha bocciato il decretone economico e ha provocato la crisi di governo mezz’ora dopo aver votato la fiducia.

Si è concluso così un viaggio che è stato di estremo interesse politico: il presidente ha avuto un grande successo personale e ha aperto la strada a intese con la Cina che potrebbero essere fruttuosissime a medio e a lungo termine. /…/ Il viaggio ha puntualmente confermato le previsioni pessimistiche sulla presenza di Carla Pertini, che con le sue stramberie ha pesato negativamente sulla missione; ma nonostante ciò, il presidente ha avuto successo, anche se la sua immagine risulta un po’ più appannata (episodio dell’Università, di Ilario Fiore e di Ostellino). Mi pare, comunque, che, in seguito a ciò, abbia capito la necessità di una maggiore prudenza”.

Il 24 novembre Maccanico nota: “Scalfari continua a chiamare in causa il presidente, il quale questa mattina mi ha detto di cercarlo per esprimergli il suo disappunto”.

Io al ritorno non mi occupai più della cosa, ero disinteressato agli intrighi di palazzo, del resto fu pubblico in quel 1980 il progetto di Visentini – antifascista precoce, azionista, repubblicano, “oligarca orizzontale” di rango, anche lui – di istituzionalizzare un governo dei tecnici, sottratto al potere dei partiti. Ci fu poi un viaggio in Grecia (Maccanico: “…trionfale, come tutti i viaggi all’estero del presidente. Ormai Pertini è un grande illusionista: fa credere agli stranieri che esista un’Italia seria e affidabile”).

Il 20 dicembre ancora Maccanico: “Le cose politiche non vanno bene. Visentini ha fatto una proposta estemporanea (governo presidenziale) che ha irritato tutti”. In anni molto successivi i miei rapporti con Scalfari si fecero cordiali, ma non lo interpellai mai su quel 1980.

Nel 2011, al momento del governo Monti, Scalfari lo evocò come un antecedente illustre, benché mancato: “Il nostro giornale appoggiò pienamente la proposta di Visentini e aprì un ampio dibattito che naturalmente vide quasi tutti i partiti – compreso quello repubblicano – contrari a quel ritorno alla Costituzione auspicato da Visentini. /…/ Quello che desidero segnalare è che il governo Monti, voluto e seguito passo passo da Giorgio Napolitano, realizza a distanza di trent’anni l’idea-guida di Bruno Visentini che lo vedeva non come una situazione emergenziale ma come l’organizzazione ottimale dello stato di diritto e della democrazia parlamentare.

Dedico queste riflessioni a quanti continuano a piangere sulla sospensione anzi sulla confisca della democrazia effettuata dal governo dei tecnici”.
Probabilmente lei, De Rita, sa riconoscere i contorni effettivi della vicenda alla quale si riferisce il mio aneddoto.

Alla fine del buio (corriere.it)

di Antonio Polito

Definendo nella loro piattaforma il 7 ottobre 
come «l’inizio della rivoluzione palestinese», i 
ragazzi del corteo di Roma, forse senza saperlo, 
hanno dato una risposta alla domanda cruciale: 
chi ha cominciato questa guerra? 

In effetti un anno fa fu Hamas a cominciare.

E non per liberare dei territori occupati da Israele, perché i kibbutz e i villaggi che furono assaltati sono parte integrante dello Stato ebraico fino dalla sua fondazione nel 1948. Né per liberare il territorio da cui partirono i commando, visto che la Striscia di Gaza è stata restituita ai palestinesi nel 2005 da uno dei capi storici della destra israeliana, Ariel Sharon, che la liberò con la forza dai coloni ebrei insediativisi.

Hamas ne ha il controllo, assunto con un cruento colpo di stato contro i «fratelli» di Al Fatah, da quasi vent’anni: avrebbe potuto fare della Striscia un modello del futuro Stato palestinese, libero e in pace; ha usato invece tutte le (non poche) risorse che vi facevano affluire il Qatar e l’Iran, ma anche l’Onu e l’Europa, per perseguire l’obiettivo di colpire e distruggere lo Stato di Israele. Il 7 ottobre è stato il momento di maggior successo di questa strategia.

M a ha anche dato inizio all’anno più tragico nella storia di quel disgraziatissimo popolo.

Appena dodici mesi dopo, questi fatti sono dimenticati. La strage di palestinesi, forse quarantamila civili uccisi; l’esodo, la fuga, la sofferenza di altre decine di migliaia di esseri umani che non avevano alcuna responsabilità nel progrom anti-ebraico del 7 ottobre, hanno nascosto alla nostra vista ogni altra considerazione che non siano la pietà per le vittime e l’indignazione per i carnefici.

È comprensibile. Stando a un sondaggio dell’Ispi, tra gli italiani che si sono fatti un’opinione la maggioranza attribuisce la responsabilità della guerra di Gaza, e anche di quella con Hezbollah, a Israele e al suo governo.

Ma non è solo per l’enormità della tragedia umanitaria cui da dodici mesi assistiamo nella Striscia se tanti di noi, e soprattutto tanti nostri figli, vedono oggi in primo piano i torti di Israele. Non è neanche per l’ignoranza — pure diffusissima — delle radici storiche di quel conflitto, che spinge a non considerare Israele una nazione come ogni altra, legittimamente costituita in Stato da una decisione a stragrande maggioranza dell’Onu, ma piuttosto come una potenza coloniale, oscuramente finanziata e sostenuta dalla lobby ebraica mondiale, che avrebbe così usurpato il diritto del più debole. Nell’isolamento in cui Israele sta combattendo la sua ennesima guerra «esistenziale» c’è infatti anche un giudizio sulla politica che ha condotto nel lungo ventennio dell’era Netanyahu.

Da troppo tempo i governi israeliani sembrano rassegnati all’odio dei loro nemici in armi, e determinati a contrastarlo con le armi e solo con quelle. La speranza di pace di quel grande popolo, che è stato capace di fare di un pezzo di deserto la «start-up nation», sembra essersi spenta insieme con la vita di Itzhak Rabin, il premier di un’altra e diversa Israele, assassinato dopo aver firmato con Arafat gli accordi di Oslo: l’ultimo tentativo di far convivere sulla stessa terra i due popoli, ebreo e palestinese, in due Stati.

Netanyahu è il figlio (e anche l’artefice) di quella delusione, che ha rafforzato gli estremisti in Israele, ma ancor di più gli estremisti di Hamas. La destra israeliana ha tollerato il feroce regime islamico a Gaza finché ha creduto che non avesse abbastanza denti per azzannare, sperando che anzi rappresentasse il miglior alibi possibile per seppellire ogni ipotesi di pace e di Stato palestinese.

Così oggi siamo arrivati a un punto in cui parlare di «due popoli, due Stati» sembra ormai una formula vuota, un’illusione. Come se non restasse che la soluzione della mutua distruzione. Hamas e Hezbollah non hanno mai cancellato dai loro statuti l’obiettivo della cancellazione dello Stato di Israele, cioè di una «Palestina libera dal fiume al mare», come ripetono gli studenti nei cortei forse senza capire che vuol dire buttare in mare fino all’ultimo ebreo.

Bisogna contrastare con tutte le forze questo disegno, difendere senza incertezze il diritto a esistere in pace e sicurezza dello Stato ebraico, di uno Stato cioè in cui gli ebrei non siano più costretti a temere o a nascondersi, come invece ancora e di nuovo avviene nella nostra civilissima Europa.

Ma se vogliamo contrastare l’antisemitismo che oggi nelle piazze si traveste da antisionismo, perché nega il diritto degli ebrei ad avere uno Stato, abbiamo anche il dovere di dire che Israele è diverso. Che deve essere diverso. Se davvero è l’unica propaggine in Medio Oriente della libertà e della democrazia occidentali, non può confondere la distruzione del nemico con l’eliminazione del pericolo. Ieri il capo delle forze armate israeliane ha dichiarato che «l’ala militare di Hamas è stata sconfitta».

È stato per questo eliminato il pericolo che viene dalla Striscia di Gaza? E se anche Israele colpisse, come farà, le strutture militari del regime iraniano, sarà per questo eliminato il pericolo che viene dalla teocrazia degli ayatollah? Israele ha diritto a difendersi dalla guerra con la guerra.

Ma non può mai smettere di muovere guerra per fare la pace.