L’angolo fascista
Non leggete “il Fango Quotidiano”
Un Paese civile non ha bisogno di forcaioli e bugiardi.
Tutte le condanne di Marco Travaglio
Maurizio Belpietro, La Verità e le condanne – Diario
Procedimenti giudiziari per Pietro Senaldi
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di Federico Fubini
Non solo tariffe
Da quando Donald Trump è tornato alla presidenza, anche il sito della Casa Bianca si è trasfigurato.
Non presenta più il lavoro di un’istituzione, officia il culto di una persona. La pagina web si apre su una foto gigantesca di Trump e un annuncio a lettere cubitali: «America is back», l’America è tornata. Sotto, una sola promessa: «Ogni singolo giorno lotterò per voi con tutto il fiato che ho in corpo. Non riposerò finché non vi avrò dato l’America forte, sicura e prospera che meritate. Questa sarà veramente l’età dell’oro» per la nazione.
L’ idea di fondo è che il presidente costruirà una «Fortezza America» basata su un’«economia della produzione», indipendente nella manifattura di tutto ciò che è indispensabile. È la visione di un’autarchia americana. Per realizzarla, in poco più di due mesi la Casa Bianca ha deciso o minacciato dazi sul commercio di beni per oltre 1.900 miliardi di dollari: due terzi delle importazioni materiali degli Stati Uniti, che sono di gran lunga il più vasto mercato al mondo.
Se non è un cigno nero, è uno choc paragonabile all’aggressione all’Ucraina del 2022. Ora si aspetta il «Giorno della Liberazione» (mercoledì prossimo), in cui dovrebbero essere precisati i contorni di un’altra ondata di dazi «reciproci» contro l’Unione europea e vari altri Paesi; quindi, dopo acciaio e alluminio, si studiano barriere su rame, legname, farmaceutica e persino una tassa all’attracco delle navi fabbricate in Cina.
È tutto così novecentesco: materiali e manufatti che costituiscono l’infrastruttura di un’economia industriale e di una società tradizionale. Trump resta imprevedibile e ondivago, ma il suo obiettivo di fondo sembra essere un taglio netto alle catene fisiche del valore che tengono l’America legata al resto del mondo.
Le vuole rimpatriare in nome di un’economia simile a quelle di un tempo, quando ogni prodotto si faceva dall’inizio alla fine in un unico Paese. Così ad esempio il presidente tassa le componenti auto (un import da quasi 90 miliardi di dollari l’anno) e non solo il bene finito, in modo da spingere General Motors, Ford e Stellantis a rimpatriare filiere oggi estese in Messico, Canada o altrove.
All’annuncio, le case auto di Detroit sono cadute in Borsa; del resto tutta Wall Street da settimane dà segni di malessere, così come ne danno il dollaro stesso o le famiglie americane che temono l’inflazione innescata dai dazi. Ma il presidente, in apparenza, non se ne cura. O se ne cura solo a volte e solo in parte. Per lo più dimostra (per ora) un’indifferenza ai segnali di stress dell’economia e dei mercati che è nuova, rispetto al suo primo mandato.
Perché lo fa? Ufficialmente vuole ridare dignità e buoni posti di lavoro all’«uomo dimenticato», l’americano medio umiliato dalle delocalizzazioni verso la Cina. Lo stesso JD Vance, il vicepresidente, è notoriamente figlio di una comunità devastata dalla crisi industriale.
Un’occhiata più attenta suggerisce però che questa spiegazione non basti. Già oggi l’America è vicina alla piena occupazione, eppure l’industria assorbe appena l’8% della manodopera attiva anche se il numero degli addetti manifatturieri è salito negli ultimi 15 anni dopo i crolli precedenti. In sostanza un’America autarchica non avrebbe abbastanza persone per le sue fabbriche, specie ora che gli stranieri sono deportati e scoraggiati in ogni modo.
Dietro le azioni di Trump sembra esserci piuttosto l’ossessione cinese sua e delle élite americane di questi anni. Oggi la Cina produce il 20% degli ingredienti farmaceutici, più di metà dei mercantili, delle tecnologie verdi o del ferro del mondo. Nelle auto la sua capacità è superiore alla domanda globale, fa il 95% dei container, ha il 77% del cobalto e nel complesso assicura un terzo della produzione industriale del pianeta.
L’America trumpiana ha tutta l’aria di volersi preparare alla sfida strategica del prossimo decennio con la potenza emergente. E vuole farsi trovare all’appuntamento forte di un’autonomia che la liberi dalle dipendenze e le permetta di basarsi sulle sue forze sole fisiche: acciaio, rame, navi, farmaci, auto.
Ma ha senso? Lo si potesse chiedere a Vladimir Putin, nella sua intelligenza criminale il dittatore direbbe che per lui la rottura fra Washington e Bruxelles vale più della conquista dell’Ucraina. Perché indebolisce l’America, non solo l’Europa. Poi ci sono quei 5.000 miliardi di dollari di titoli del Tesoro americano, fra nuovo deficit e rinnovo del vecchio debito, che l’amministrazione deve piazzare ogni anno agli investitori di tutto il mondo per evitare tensioni.
Trump vuole tagliare i ponti con il resto del mondo, ma gli Stati Uniti da esso dipendono finanziariamente, mentre il loro potere di persuasione dipende anche dal legame con l’Europa sul piano dei valori. Così il presidente fa esplodere le contraddizioni americane, invece di liberarsene in un giorno solo.
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Maurizio Belpietro, La Verità e le condanne – Diario
Procedimenti giudiziari per Pietro Senaldi
Esteri
Oggi parliamo della fase calda dei negoziati della coalizione nero-rossa, del viaggio del vicepresidente degli Stati Uniti in Groenlandia e della guerra culturale di Donald Trump contro le università liberali.
E poi c’è soprattutto la domanda: chi dovrebbe pagare per questo? L’allentamento del freno all’indebitamento e il fondo speciale offrono un po’ di respiro. Ma le liste dei desideri dei gruppi di lavoro sono così lunghe che farebbero saltare in aria il tesoro dello Stato se tutto fosse attuato.
Goffa provocazioneA quanto pare J.D. Vance si è trovato piuttosto divertente quando ha annunciato in un video questa settimana che avrebbe accompagnato sua moglie Usha nel suo viaggio in Groenlandia oggi. C’era così tanta eccitazione per il viaggio di sua moglie che non avrebbe dovuto “divertirsi da sola”.Haha, una provocazione così goffa è davvero divertente, vero?
Studenti in preda alla paura
Dopo tutto quello che è già successo, gli studenti stranieri negli Stati Uniti dovrebbero prendere sul serio l’avvertimento di Marco Rubio. Chiunque si trovi in America con un visto per studenti e causi disordini avrà il visto revocato, ha dichiarato il Segretario di Stato di Donald Trump. 300 visti sono già stati confiscati, forse di più. “Ogni volta che trovo uno di questi pazzi, gli tolgo il visto”.
La cosa brutta è che il calcolo di Trump ha funzionato finora. I funzionari delle università d’élite rimangono in silenzio, facendo concessioni perché minacciati di “misure coercitive” se “non adempiono ai loro obblighi di proteggere gli studenti ebrei nei campus”. Infatti, scrive il mio collega Claus Hecking, che scrive da Boston per lo Spiegel, Trump e i suoi non si preoccupano dell’antisemitismo, ma di qualcosa di più fondamentale: “Vogliono il controllo ideologico sul settore dell’istruzione”.