Sette uomini da Vespa per parlare di aborto. Scatta il richiamo Rai (ildubbio.news)

Cresce la polemica per la puntata di Porta a porta. 

Il programma si difende: “Avevamo invitato tre donne”

Cresce la bufera su Porta a Porta. Fonti di viale Mazzini fanno sapere che la presidente Marinella Soldi ha scritto a Bruno Vespa in merito alla puntata di ieri in cui si è parlato di aborto solo con uomini in studio: ben sette, di cui uno in collegamento.

La presidente, a quanto si apprende, ha richiamato al ruolo fondamentale del servizio pubblico in particolare su un tema che chiama in causa direttamente il corpo delle donne.

La polemica è esplosa sui social poche ore dopo la battaglia a Montecitorio, quando ieri la Camera ha bocciato l’ordine del giorno presentato dal Pd per “mitigare” l’emendamento di Fratelli d’Italia che vuole portare i comitati pro-life nei consultori. A sedere con Vespa attorno a un tavolo il deputato del Pd Alessandro Zan, il giornalista Tommaso Labate, Antonio Noto di Noto Sondaggi, il direttore di Libero Mario Sechi e il deputato di FdI Giovanni Donzelli. In videocollegamento c’era anche il giornalista e scrittore Federico Rampini.

Il caso è stato sottolineato anche dalle Commissioni Pari Opportunità della Rai e del sindacato Usigrai, che in una nota hanno ricordato che «nel 1976 in un’analoga occasione Oriana Fallaci ebbe a stigmatizzare il maschilismo nell’arena pubblica italiana per essere la sola donna presente in una discussione televisiva sull’aborto. 50 anni dopo in una trasmissione del Servizio Pubblico si è riusciti a fare di peggio».

Un fatto che «ha fatto il giro del web – specifica – esponendo l’azienda a un’ondata di critiche per il mancato rispetto dell’equilibrio di genere che dovrebbe valere sempre, tanto più su un tema così delicato che ha a che fare con la vita e il corpo delle donne. Non deve più accadere che in un grande network come la Rai, che guida le campagne “No women no panel” e 50:50 in Italia, si vìolino così palesemente le policy che la stessa Azienda ha approvato. Mancando di rispetto alle donne che vivono in Italia».

«La strada per la parità è lunga, ma se non si parte dalle basi come la presenza femminile su temi come questo, non faremo alcun passo avanti», osserva il capogruppo M5S in commissione di vigilanza Rai Dario Carotenuto.

Al quale fa eco Nicola Fratoianni dell’Alleanza Verdi Sinistra, che su facebook attacca: «Poi dicono che la cultura patriarcale non esiste in Italia. Lo dico ai miei colleghi uomini: dovremmo iniziare a rifiutarci di parlare in luoghi in cui non ci sono donne, soprattutto quando si parla del corpo e delle scelte delle donne. Sarebbe una intelligente scelta di igiene».

Porta a Porta e Vespa si difendono: «Gli inviti per la trasmissione politica di giovedì 18 aprile sono stati fatti nei giorni precedenti al manifestarsi della polemica. Essendo prevista la presenza del Partito democratico, avevamo invitato tre donne parlamentari del PD (sostituite alla fine dall’onorevole Zan per la loro indisponibilità) e una direttrice di giornale, anch’essa indisponibile. In ogni caso l’aborto è stato solo uno degli otto temi trattati nella trasmissione di ieri. Gli altri sette erano la guerra, Meloni a Bruxelles, il ricorso al governo contro l’Emilia-Romagna sul fine vita, la discussione sulla foto di Berlinguer nella tessera del PD, il 5 in condotta e i sondaggi preelettorali», dice una nota la redazione di Porta a Porta. «Come sa la stessa interessata, fin dalle 9.47 (prima che uscissero le agenzie con le reazioni polemiche) avevamo valutato la presenza dell’onorevole Sportiello (Movimento 5 stelle) per i Cinque Minuti di oggi, ma la tensione internazionale successiva all’attacco israeliano all’Iran ci costringe ad occuparci di questo. Sarà nostra cura, naturalmente, tornare sul tema alla prima occasione utile».

«Quello a cui stiamo assistendo è la concretizzazione dell’Italia della presidente Meloni: una sola donna al comando, le altre scompaiono, mentre di continuo viene messa in discussione la loro libertà di scegliere sul proprio corpo, di essere o non essere madri, di lavorare e affermarsi», accusa la senatrice Pd Cecilia D’Elia. «Arriva in Senato il dl Pnrr, che ne è ulteriore prova.

Non solo è stato progressivamente stravolto l’impianto del Piano di ripresa e resilienza, che voleva rendere questo paese più giusto, con maggiori servizi per l’infanzia, obiettivi per l’occupazione femminile e parità di genere, ma – riprende – si fa un affondo gravissimo con un emendamento, presentato da un uomo, tutto rivolto a rendere l’interruzione volontaria di gravidanza un percorso a ostacoli, di cui le donne devono sentirsi colpevoli. Un fuori programma, che con il Pnrr non c’entra nulla, ma ci dice quale idea di paese questa destra vuole affermare».

«Del resto – prosegue l’esponente dem – lo abbiamo visto con l’uso spregiudicato del servizio televisivo pubblico, e il ritorno alla grande dei manel, nonostante il memorandum ’No women no Panel’, che dovrebbe impedirli. Ieri, ad esempio, a Porta a Porta, su Rai 1, con solo uomini invitati a parlare, Vespa ha pensato di poter discutere di aborto. Gravissima la scelta del nuovo Consiglio di amministrazione dell’Aifa, l’Agenzia italiana del Farmaco, ovvero l’organo, controllato dal ministero della Salute, che è l’autorità competente per l’attività regolativa dei farmaci, che si è insediato ieri. Tutti uomini. Faremo una opposizione determinata, su Pnrr e gli obiettivi traditi, l’autodeterminazione delle donne attaccata, dentro all’aula e fuori. Hanno chiesto la fiducia, sfiduciamoli nel Paese». «Lunedi – anticipa D’Elia – sarò al presidio con la Rete dei consultori per dire che nessun passo indietro è ammissibile».

L’ipocrita distinzione fra armi offensive e difensive sta uccidendo gli ucraini (ilfoglio.it)

di ADRIANO SOFRI

PICCOLA POSTA

Tre missili russi su un condominio di Chernihiv hanno fatto almeno 16 morti e molte decine di feriti civili.

Armi e munizioni mancanti, oggi, riguardano la capacità contraerea a protezione delle città e dei villaggi

Zelensky, che intanto ha firmato senza dilazioni la nuova legge sulla mobilitazione, ha commentato amaramente la notte irano-israeliana. “I droni Shahed e i missili balistici sono gli stessi, e le vite umane sono differenti? No, hanno lo stesso valore, dobbiamo proteggerle dal terrore allo stesso modo”.

Il ministro degli Esteri britannico, Cameron, ha osservato che la Raf – e gli aerei degli altri paesi occidentali intervenuti nella notte di sabato – non possono intervenire allo stesso modo nel cielo d’Ucraina, senza trasformare il conflitto in uno scontro diretto fra Nato e Russia.

“Quello di cui l’Ucraina ha un disperato bisogno è un rafforzamento della difesa aerea”. Lo scorso 6 aprile Zelensky aveva chiesto 25 sistemi Patriot supplementari, per difendere dagli attacchi l’intero paese, ormai largamente privo di copertura antiaerea. Il ministro degli Esteri, Kuleba, ha poi ridimensionato la richiesta a 7 Patriot, così da coprire almeno le città maggiori. A cominciare da Kharkiv, che era la seconda città, e ormai viene chiamata la Aleppo ucraina. Il 13 aprile la Germania ha annunciato la fornitura di un sistema Patriot. Questo il registro di entrate e uscite.

Questa mattina, per esempio, tre missili russi su un condominio di Chernihiv hanno fatto almeno 16 morti e molte decine di feriti civili, normale amministrazione. La fornitura di armamenti all’Ucraina, ben prima dell’inciampo provocato dai repubblicani di Trump, ha avuto un andamento tragicomico. Le consegne di sistemi d’arma e di munizioni sono state centellinate col criterio di non irritare troppo i russi, cioè il nemico.

Il quale ha dal primo giorno gridato allo scandalo di incursioni armate ucraine al di là del confine, mentre dal primo giorno la sua forza armata aveva oltrepassato il confine, occupato una parte del paese indipendente, e bombardato e distrutto senza risparmio l’intero territorio ucraino.

Così ogni consegna alleata è avvenuta in un regolamentare ritardo, quando la difesa ucraina era con l’acqua alla gola e si trattava di tamponare le falle dell’inferiorità materiale di armi e uomini. Di volta in volta questo tiro alla fune ha riguardato la gittata dei missili, gli Himars, gli Atacms, e la natura degli aerei – soprattutto i famosi F16, di cui è annunciato un primo striminzito arrivo, 6 apparecchi, per l’inizio dell’estate, e poi forse qualche altro esemplare entro il prossimo anno, e così via.

Quando Zelensky confronta amaramente l’intercettazione alleata di droni e missili a difesa di Israele “nel cielo” con quella a difesa dell’Ucraina “sulla carta”, ha ragione. E mette in risalto un dettaglio che non è abbastanza considerato, benché sia il più significativo ed evidente, come la lettera rubata. Armi e munizioni mancanti oggi, e da mesi ormai, all’Ucraina, non riguardano tanto la sua capacità offensiva, e nemmeno solo la difesa delle linee del fronte dall’offensiva nemica.

Riguardano la capacità contraerea a difesa delle città e dei villaggi, delle abitazioni, delle centrali di energia e dei depositi alimentari, della rete di sussistenza civile. Queste non hanno alcuna giustificazione, alcun pretesto del genere di quelli già incresciosi di “non provocare il nemico”: sono congegni e proiettili, razzi, missili, destinati a proteggere la vita delle singole persone e la sopravvivenza della loro comunità.

Sono letteralmente “difensive”, com’è stato per droni e missili intercettati nella notte irano-israeliana. Sono quei Patriot, forniti col contagocce e ridotti allo stremo, sono i lanciatori Samp-T franco-italiani antiaerei e antimissile, il tedesco Iris-T, e simili (e l’Iron Dom? A suo tempo si era preteso, dal governo israeliano ancora preoccupato di non disturbare Putin, che non fossero adatti alle dimensioni dell’Ucraina e ai missili balistici…).

La distinzione fra armi “difensive” e “offensive” è in larga misura impropria, ed è stata un ipocrita pretesto al rifiuto “pacifista” di sporcarsi le mani con l’invio di armi. Ma c’è davvero una attività propriamente difensiva, che rileva e interdice i colpi di missili, razzi, droni e proiettili di artiglieria. La sua penuria si traduce direttamente in perdite di vite e di beni. D’altra parte la sua fornitura ha un costo economico elevato: c’è infatti un mercato dei costi collaterali, un tariffario geopolitico.

La quotazione di un cittadino israeliano, di uno gazawi, di uno ucraino (o di uno sudanese o etiope, non pervenuto).

Le omissioni di Meloni su par condicio e carcere per i giornalisti (pagellapolitica.it)

di CARLO CANEPA, VITALBA AZZOLLINI

FACT-CHECKING
Secondo la presidente del Consiglio, su questi due temi sono circolate «fake news» negli ultimi giorni. La sua ricostruzione dei fatti è però lacunosa
Nella serata di giovedì 18 aprile, in un punto stampa al termine del Consiglio europeo straordinario, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha commentato due «grandi fake news» che, a detta sua, sono state diffuse in questi giorni contro il suo governo. Secondo Meloni, sono state fatte «ricostruzioni surreali» sul regolamento della par condicio per le elezioni europee e sull’inasprimento delle pene per i giornalisti accusati di diffamazione.

Punto per punto, abbiamo analizzato le dichiarazioni della leader di Fratelli d’Italia, che nel ricostruire i fatti ha omesso alcune informazioni importanti.

Il carcere per i giornalisti

«Adesso vogliamo mandare in carcere i giornalisti, quando la proposta che toglie il carcere ai giornalisti per diffamazione è a prima firma Alberto Balboni di Fratelli d’Italia. Perché vi comunico che il carcere per i giornalisti per diffamazione c’è, e c’è una legge di Fratelli d’Italia che sta togliendo il carcere per diffamazione»

Attualmente l’articolo 595 del codice penale dispone che la diffamazione è punita con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro. Se la diffamazione avviene «a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità», oppure «in atto pubblico», è punita con la reclusione da sei mesi a tre anni o con una multa non inferiore a 516 euro.

La diffamazione è commessa quando una persona «offende» la reputazione di un’altra persona «comunicando con più persone».

A gennaio 2023 è stato presentato in Senato il disegno di legge n. 466, a prima firma del senatore di Fratelli d’Italia Alberto Balboni, che al momento è all’esame della Commissione Giustizia del Senato. Il testo è cofirmato anche da altri venti senatori del partito di Meloni e interviene su una serie di norme in materia di diffamazione, commessa anche a mezzo stampa o con altro mezzo di diffusione.

Tra le altre cose, il disegno di legge propone di modificare l’articolo 595 del codice penale, prevedendo che la diffamazione sia punita con la multa da 3 mila euro a 10 mila euro e che, se la diffamazione avviene con qualsiasi mezzo di pubblicità diverso dalla stampa oppure «in atto pubblico», la pena sia aumentata della metà.

Dunque è vero, come dice Meloni, che se il disegno di legge fosse approvato così come proposto, non prevederebbe più il carcere per i giornalisti in caso di diffamazione. Su questo tema però la presidente del Consiglio non la racconta tutta: vediamo perché.

Le sentenze delle Corti

Oggi la reclusione prevista dall’articolo 595 del codice penale rappresenta un’ipotesi residuale, come affermano le pronunce di diverse Corti. Per questo motivo la sua eliminazione attraverso una legge costituisce la presa d’atto di quanto già accade in sede giudiziaria.

Nel 2021 la Corte Costituzionale ha affrontato il tema con la sentenza n. 150, dove ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 13 della legge sulla stampa (la n. 47 del 1948), che prevedeva il carcere per il reato di diffamazione a mezzo della stampa.

Di conseguenza, la Corte Costituzionale ha stabilito anche l’incostituzionalità dell’articolo 30, comma 4, della legge n. 223 del 1990 che disciplina il sistema radiotelevisivo pubblico e privato. Quest’ultima legge stabilisce che il reato di diffamazione stabilito dall’articolo 13 della legge sulla stampa vale anche per le trasmissioni radiofoniche e televisive.

Secondo la Corte Costituzionale, i giudici possono optare per l’ipotesi della reclusione «soltanto nei casi di eccezionale gravità del fatto, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, rispetto ai quali la pena detentiva risulti proporzionata».

I giudici devono invece limitarsi «all’applicazione della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, in tutte le altre ipotesi». Nel 2021 anche la Corte di Cassazione si è espressa sul tema con la sentenza n. 13993, osservando che la reclusione non può essere inflitta dal giudice per il reato di diffamazione salvo che il soggetto colpevole abbia leso gravemente altri diritti fondamentali dell’individuo, come nei casi di istigazione all’odio o alla violenza.

Questa sentenza della Corte di Cassazione si pone in linea con l’orientamento di precedenti pronunce della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU). Il problema delle pene detentive per i casi di diffamazione, infatti, è stato più volte affrontato dalla CEDU per quanto riguarda i limiti alla libertà di espressione stabiliti dall’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

In base a questa Convenzione, la libertà d’espressione è considerata un diritto centrale nel sistema di salvaguardia dei diritti dell’uomo. Nelle sue pronunce, la Corte ha sottolineato il ruolo, per così dire, di “cane da guardia” esercitato dagli organi di stampa, da cui consegue la loro funzione di riferire al grande pubblico su fatti di interesse.

In base a questa premessa, la Corte ha considerato le sanzioni detentive a carico dei giornalisti come un’ingerenza nell’esercizio di tale diritto, evidenziando i riflessi che queste sanzioni possono avere sul giornalismo investigativo e, più in generale, sulla partecipazione della stampa ai dibattiti di interesse pubblico.

Nel 2020, con due diverse pronunce (qui qui), la CEDU ha sottolineato che i messaggi diffamatori meritevoli della pena detentiva sono quelli che veicolano i discorsi d’odio e che istigano alla violenza.

Ricapitolando: è vero che alcuni esponenti di Fratelli d’Italia vorrebbero eliminare il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione, ma questa proposta è stata suggerita più volte da varie Corti. Non tutti i parlamentari di Fratelli d’Italia, comunque, pensano che questa proposta sia giusta.

Gli emendamenti del senatore di Fratelli d’Italia

Nel punto stampa, Meloni non ha detto un’altra cosa importante: da un lato, è vero che alcuni senatori di Fratelli d’Italia vogliono eliminare la disposizione che prevede il carcere per i giornalisti in caso di diffamazione, dall’altro lato almeno un senatore di Fratelli d’Italia ha provato comunque a reintrodurre la detenzione per questi ultimi, cambiando poi idea.

Durante l’esame in Commissione Giustizia del disegno di legge a prima firma di Balboni, il senatore di Fratelli d’Italia Gianni Berrino ha presentato alcuni emendamenti per modificare il testo. Berrino è tra i cofirmatari del disegno di legge, di cui in commissione è il relatore.

Questo è un ruolo di primo piano nei lavori parlamentari: come spiega il glossario del Senato, il relatore di un disegno di legge «è una sorta di regista politico del dibattito, che esprime il suo parere (in realtà, quello della maggioranza) su tutti gli emendamenti presentati».

Il 9 aprile sono stati depositati in Commissione Giustizia gli emendamenti al disegno di legge che chiede di modificare alcune norme sulla diffamazione.

Un emendamento di Berrino proponeva di aggiungere alla già citata legge sulla stampa del 1948 il seguente articolo 13-bis: «Chiunque, con condotte reiterate e coordinate, preordinate ad arrecare un grave pregiudizio all’altrui reputazione, attribuisce a taluno con il mezzo della stampa o degli altri prodotti editoriali (…) fatti che sa essere anche in parte falsi, è punito, se l’evento si verifica, con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 50 mila euro a 120 mila euro. Quando le condotte di cui al primo comma consistono nell’attribuzione, a taluno che si sa innocente, di fatti costituenti reato, la pena è aumentata da un terzo alla metà».

Un altro emendamento di Berrino chiedeva di mantenere la pena della reclusione, analogamente a quanto previsto dall’articolo 595 del codice penale, quello che come abbiamo visto punisce il reato di diffamazione.

«Le condotte che mantengono una punizione detentiva non sono relative alla libertà di stampa, ma a un uso volutamente distorto e preordinato al killeraggio morale della libertà di stampa», ha dichiarato Berrino negli scorsi giorni per difendere i suoi emendamenti. Il senatore di Fratelli d’Italia sembrava ignorare che, come chiarito sopra, la Corte Costituzionale ha già dichiarato incostituzionali le norme che punivano con il carcere il reato di diffamazione a mezzo della stampa, della radio o della televisione.

Come spiega un comunicato stampa della Corte Costituzionale sulla già citata sentenza del 2021, queste norme sono state giudicate incostituzionali «perché contrastano con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo».

«La minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere può produrre infatti l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri», si legge nel comunicato.

Berrino ha poi ritirato gli emendamenti presentati in Commissione Giustizia, con tutta probabilità spinto dalle polemiche nate negli scorsi giorni. Il 18 aprile Balboni, che è presidente della Commissione Affari costituzionali del Senato, ha dichiarato in un’intervista con la Repubblica che Berrino non aveva condiviso con lui il contenuto degli emendamenti criticati.

«Berrino ha presentato alcuni emendamenti che immagino siano stati il frutto di varie sollecitazioni giunte da suoi colleghi avvocati, ma che, appunto, ha ritirato dopo un approfondimento», ha detto Balboni. «Sono cose che nelle dinamiche parlamentari succedono, ma ormai il problema è superato visto che ha ritirato le sue proposte».

Al di là delle dinamiche interne al partito, resta il fatto che un senatore di Fratelli d’Italia ha proposto di cambiare un disegno di legge presentato dal suo partito nella direzione opposta rispetto a quella indicata da Meloni nel punto stampa.

Il regolamento sulla par condicio

«Mi ha divertito che oggi si sostenga che io voglio controllare la stampa e voglio limitare la par condicio perché il regolamento rimane quello che c’era prima. Quindi fatemi capire: se oggi io voglio controllare la stampa perché il regolamento rimane quello che c’era prima, prima controllavano la stampa in campagna elettorale? […] Quelli sulla par condicio sono emendamenti che sono stati votati dagli attuali partiti di opposizione. Sa perché? Perché ricalcano la legge. […] L’emendamento è stato votato dai partiti che sono attualmente all’opposizione perché ricalca la legge in vigore da diversi anni»

Anche in questo caso la questione è complessa e va analizzata punto per punto per capire perché la presidente del Consiglio non la racconta tutta.

La par condicio (in italiano “parità di trattamento”) è quell’insieme di norme che, durante le campagne elettorali, devono garantire a tutti i partiti lo stesso spazio in tv, in radio e negli altri mezzi di informazione. Negli scorsi giorni i partiti di opposizione e il sindacato dei giornalisti della Rai (l’Usigrai) hanno criticato duramente i partiti che sostengono il governo Meloni, accusandoli di aver approvato delle norme sulla par condicio in vista delle elezioni europee di giugno che favoriscono le figure istituzionali, e di conseguenza gli esponenti del governo.

Il 9 aprile la Commissione parlamentare di Vigilanza Rai, che è composta da 20 deputati e 20 senatori, si è riunita per esaminare il nuovo regolamento sulla par condicio valido per la campagna elettorale delle elezioni europee nei programmi televisivi, radiofonici e multimediali del servizio pubblico, ossia la Rai.

Lo schema del nuovo regolamento è stato presentato in commissione dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), un’autorità indipendente che ha il compito di tutelare i consumatori e garantire la concorrenza nel mercato della comunicazione.

Durante l’esame del regolamento in Commissione di Vigilanza Rai, due emendamenti, presentati da tre parlamentari della maggioranza e poi parzialmente riformulati, hanno attirato le critiche dei partiti di opposizione.

Un emendamento ha stabilito, all’articolo 4, comma 6 del regolamento, che durante la campagna elettorale per le europee i programmi di approfondimento informativo in Rai, «qualora in essi assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politico-elettorali, sono tenuti a garantire la più ampia possibilità di espressione ai diversi soggetti politici, facendo in ogni caso salvo il principio e la necessità di garantire ai cittadini una puntuale informazione sulle attività istituzionali e governative».

I partiti di opposizione hanno criticato quest’ultimo inciso, che consentirebbe ai politici che rappresentano il governo e le istituzioni di avere più spazio nei programmi di approfondimento e sfruttarlo per fare indirettamente campagna elettorale, spiegando le loro attività governative e istituzionali.

Discorso analogo vale per un altro emendamento, che ha stabilito (art. 4, comma 4) che, nella partecipazione a «programmi di informazione», per i «rappresentanti delle istituzioni» valgono le stesse regole che valgono per gli altri candidati ed esponenti politici, «salvo intervengano su materie inerenti all’esclusivo esercizio delle funzioni istituzionali svolte». Tra i «programmi di informazione» sono compresi i telegiornali, i giornali radio, i notiziari, le rassegne stampa e «ogni altro programma di contenuto informativo, a rilevante presentazione giornalistica».

Che cosa non dice Meloni

Nel punto stampa Meloni ha sostenuto tre cose: che «il regolamento rimane quello che c’era prima», e che quindi la sua maggioranza non ha introdotto novità rispetto al passato; che gli emendamenti approvati in Commissione di Vigilanza Rai «ricalcano la legge» sulla par condicio; e che «sono stati votati dagli attuali partiti di opposizione».

La prima affermazione è scorretta. È vero che l’articolo 4, comma 4 del regolamento approvato dalla Commissione di Vigilanza Rai per le elezioni europee del 2019 è uguale a quello approvato di recente per le prossime elezioni europee.

Ma il regolamento approvato nel 2019 non conteneva però all’articolo 4, comma 6, l’inciso contestato in questi giorni (il «facendo in ogni caso salvo il principio e la necessità di garantire ai cittadini una puntuale informazione sulle attività istituzionali e governative»).

È scorretto anche dire che i due emendamenti «ricalcano la legge» sulla par condicio. Dopo le proteste dei partiti di opposizione, i due emendamenti sono stati riformulati, con l’aggiunta dell’inciso: «secondo le regole stabilite dalle leggi n. 28 del 2000 e n. 515 del 1993». La legge del 2000 contiene le norme sulla «parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali e referendarie».

Disciplina puntualmente la «comunicazione politica», ossia i programmi sul modello delle tribune elettorali e politiche, e i «messaggi politici autogestiti», che sono una forma di pubblicità elettorale regolamentata. Per i «programmi di informazione», invece, la legge si limita a disporre che vada garantita «la parità di trattamento, l’obiettività, la completezza e l’imparzialità».

La legge quindi fissa solo tre principi di massima e affida all’Agcom e alla Commissione di Vigilanza Rai il compito di stabilire, previa consultazione tra loro, i regolamenti sulla par condicio rispettivamente per le emittenti private e per la Rai.

Infine, è solo parzialmente vero che in Commissione di Vigilanza Rai gli emendamenti «sono stati votati dagli attuali partiti di opposizione». Come detto e come risulta dal resoconto dei lavori in commissione, i due emendamenti sono stati criticati in Commissione di Vigilanza Rai da vari esponenti dei partiti all’opposizione.

Sull’emendamento che riguarda l’articolo 4, comma 6 del regolamento sulla par condiciohanno espresso voto contrario tra gli altri il PD, il Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra. L’emendamento che ha modificato l’articolo 4, comma 4, è stato in un primo momento accantonato durante l’esame in commissione, e successivamente solo il PD ha espresso parere favorevole alla sua riformulazione, almeno da quanto si evince dal resoconto sui lavori in Commissione.

Nel 2019 il testo di quell’articolo del regolamento sulla par condicio, uguale a quello per le prossime elezioni europee, fu approvato all’unanimità dalla Commissione, ma la composizione del Parlamento era diversa da quella attuale.

LE INCHIESTE RIANIMANO IL POPULISMO DEI 5 STELLE (corriere.it)

di Massimo Franco

La Nota

Il Pd ha scelto il volto di Enrico Berlinguer, storico segretario del Pci scomparso nel 1984, per presentarsi alle Europee e rivendicare la primogenitura di una controversa «questione morale».

Probabilmente lo ha deciso anche per proteggersi da un’immagine sgualcita dalle inchieste che colpiscono il partito in Puglia e Piemonte. Ma il Movimento 5 Stelle ha subito adottato la bandiera altrettanto dubbia di Mani pulite per tentare di riconquistare voti: un modo per rivendicare il monopolio dell’onestà rispetto all’intero sistema politico; e al Pd in primo luogo.

È verosimile che il movimento di Giuseppe Conte voglia usare spregiudicatamente il simbolo ritenuto all’origine della fine della Prima Repubblica negli Anni Novanta: anche se molti oggi vedono quelle inchieste come la conseguenza e non la causa del collasso di un sistema politico finito insieme con la Guerra fredda; e con dubbi trasversali sul paradosso di una «rivoluzione giudiziaria» sfociata nel ventennio del berlusconismo.

Ma quanto accade fotografa opposizioni in crisi di strategia e di identità; così spaccate da presentarsi a Bari, culla del disastrato «campo largo», con un candidato del Pd e uno del M5S che si presentano divisi davanti all’elettorato con la promessa di unirsi, ma dopo. E il partito di Elly Schlein è sulla difensiva, incastrato tra subalternità al grillismo e voglia di reagire agli insulti; e incalzato da un movimento che agita la «questione morale» contro la sinistra dei governi locali e contro la destra di quello nazionale e della Sicilia.

Si tratta di un ritorno alle origini, mai del tutto abbandonate nemmeno quando Conte era al governo con la Lega, e poi con lo stesso Pd; e neanche in questi anni in cui il M5S ha governato senza in apparenza accorgersi di nulla col governatore Michele Emiliano in Puglia: tranne ritirare i consiglieri grillini una settimana dopo l’inizio delle inchieste.

Ora i Cinque Stelle cercano di cancellare quegli «errori» e di riaccreditarsi di fronte all’elettorato. «Stiamo attraversando una fase», dice Conte, «che un po’ ci ricorda Mani Pulite». Più che la fotografia di una realtà, è l’evocazione di una speranza. Su quell’onda è cresciuta un’antipolitica dai contorni ambigui e contraddittori; ma destinata a riscrivere la geografia politica, distruggere classi dirigenti e farne emergere altre.

E i seguaci di Beppe Grillo ne sono stati tra i principali beneficiari: fino a governare il Paese con un misto di inesperienza e presunzione. Poi hanno passato la mano ad altri. Ma l’obiettivo di grattare il fondo del barile del populismo, a spese di alleati e no, rimane la loro stella polare.

Il pulpito senza vergogna di Giuseppe Conte, maestro di legalità e coerenza (ma dalla memoria corta) (ilriformista.it)

di Claudia Fusani

Gli attacchi ai Dem

Il “pulpito”, spiega il dizionario, è il luogo destinato alla predicazione in chiesa, nell’antica Roma al magistrato. In quale momento esatto, si chiede l’elettorato medio Pd è successo che Giuseppe Conte ha preso possesso del pulpito per elargire lezioni e porre condizioni e ultimatum?

In quale momento colui che doveva essere il gregario di una squadra già in campo e allenata, è diventato coach? Addirittura maestro di coerenza, legalità ed efficienza?

Per chi ha avuto occhi e retrovisore, è un momento lungo ormai sei anni, da quando nel giugno 2018 “l’avvocato del popolo” arrivato da Volturara Appula, cuore della Puglia, con una tappa a Firenze dove già allora mostrò l’ambizione di “conquistare la città”, giurò da premier.

Da allora al pulpito di oggi, quello in cui cerca di sfrattare Elly Schlein dalla leadership dell’area Pd e di offrire una via d’uscita, dopo averlo umiliato proprio sul terreno della legalità, al compagno di giunta Michele Emiliano, il percorso di Conte è ricco di incongruenze, contraddizioni, cadute e risalite. Occorre metterle in fila, per dovere di cronaca, mica di altro.

Da quale pulpito…

Conte e i 5 Stelle hanno governato quindici mesi con la Lega. Era il governo gialloverde che “chiuse” i porti italiani alle navi che facevano soccorso in mare ai migranti. Uno dei provvedimenti più odiosi sotto il profilo umano e della carità. Eppure lo firmò proprio Giuseppe Conte che oggi dà lezioni di morale. Quel governo andò sul balcone di palazzo Chigi, un altro pulpito, e sentenziò che era stata abolita la povertà grazie all’introduzione del reddito di cittadinanza.

Il papà del reddito

La povertà è purtroppo una cosa troppo seria, non si combatte con una tesserina gialla e infatti è aumentata. Non contento, nel 2022 Conte fece la campagna elettorale promettendo “più reddito per tutti”. Memorabili certe giornate al sud in cui il suo arrivo in piazza era salutato “arriva o papà del reddito”. Sapeva benissimo che non avrebbe potuto mantenere la promessa eppure la usò, della serie “votatemi e poi ci penso io”.

Il reddito non c’è più – era sbagliato il mezzo non l’obiettivo – e Conte continua a promettere. Tanto non costa nulla in un Paese con la memoria corta. Però non è serio e neppure eticamente corretto. Un po’ come quando ha promesso “case gratis per tutti” quando era già chiaro (estate 2022) che il 110% era un colabrodo da inibire seduta stante.

Le inchieste con Raggi e Appendino

Il pulpito è un luogo comodo finchè stai con i piedi lontani dalla terra tentatrice e subdola, come è la vita. Neppure Conte è esente.
Nelle due grandi città dove i 5 Stelle hanno governato sono finiti anche loro nelle carte della magistratura. Nella Capitale resta, tra le più eclatanti, la condanna in primo grado (9 anni) per l’ex presidente del consiglio comunale della giunta Raggi: si chiama Marcello De Vito e a proposito del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle diceva di voler “sfruttare la congiuntura astrale”.

A Torino l’ex sindaco Chiara Appendino, ora deputata, ha una condanna a un anno e 6 mesi per disastro, lesioni e omicidio colposo (la tragedia in Piazza San Carlo). E’ in attesa della Cassazione nel processo “Ream” (falso in bilancio). In Parlamento, tra i banchi 5 Stelle, siede anche Riccardo Tucci e per lui è stato chiesto il rinvio a giudizio per frode fiscale. Tutti innocenti fino a sentenza definitiva, stabilisce la Costituzione. Sacrosanto. Per Conte vale solo in casa propria, però.

Anche a Bari e in Puglia succede la stessa cosa: nel 2020 cinque 5 Stelle fanno partire la seconda giunta Emiliano quando i sospetti di pacchetti di voti che passano da una parte all’altra, in dote al vincitore, con il mezzo di solerti liste civiche, erano noti a tutti. Anche ai 5 Stelle. Se quel sistema è oggi sotto accusa – ma non ancora condannato – perché Conte lo ha tollerato per ben quattro anni?

Svuotare Elly Schlein e ridurre Emiliano ad un suo gregario è solo l’ultima recita del trasformista Conte. La scorsa legislatura, quella in cui ha fatto il premier due volte, circa duecento eletti su 320, cambiarono casacca.
Il pulpito affascina, ipnotizza, toglie la memoria. Infatti non li usano più neppure i sacerdoti.

(italiaoggi.it)