Rassegnata stampa 12/04/2024 (diario.world)
L’angolo fascista
Non leggete “il Fango Quotidiano”
Un Paese civile non ha bisogno di forcaioli e bugiardi.
Tutte le condanne di Marco Travaglio
Maurizio Belpietro, La Verità e le condanne – Diario
Le condanne di Augusto Minzolini
Procedimenti giudiziari per Pietro Senaldi
Rassegna stampa estera 12/04/2024 (diario.world)
Il Superbonus è il nostro delitto dell’Orient Express, senza Poirot (linkiesta.it)
Voragini
Un giorno andrà studiata come dimostrazione da manuale di quale spirale autodistruttiva possa innescare l’egemonia di un movimento populista, quando non incontri alcun argine né tra i partiti né tra i cosiddetti intellettuali, scrive Francesco Cundari nella newsletter “La Linea”. Arriva tutte le mattine dal lunedì al venerdì più o meno alle sette
Come scrive oggi Federico Fubini sul Corriere della sera, sui bonus immobiliari (anzitutto il contiano Superbonus 110 per cento e il franceschiniano Bonus facciate) «continua a mancare un’assunzione di comune responsabilità» da parte della politica.
«Tutti i principali partiti che hanno governato in questi anni li hanno voluti. Li ha voluti l’intero centro-sinistra ai tempi di Giuseppe Conte. Sia centro-destra e centro-sinistra in maggioranza che Fratelli d’Italia all’opposizione hanno poi fieramente protestato nel 2021 e 2022, quando Mario Draghi e Daniele Franco cercavano di fermarli. Infine il governo e la maggioranza attuali per un anno e mezzo hanno lasciato che il Superbonus continuasse a gonfiare il deficit, crivellando di scappatoie i decreti che avrebbero dovuto determinare una stretta».
Questa, ricordata da Fubini, è la pura e semplicissima verità dei fatti. Ma più che di una mancata assunzione di responsabilità bisognerebbe parlare di una piena assunzione di irresponsabilità, da parte della politica e anche di gran parte del giornalismo, degli industriali e della cosiddetta società civile.
Ogni giorno che passa, infatti, si scopre una nuova voragine nei conti pubblici, e si apre un dibattito in cui il governo cerca di scaricare ogni responsabilità sull’opposizione e l’opposizione, con l’aiuto di giornali e talk show amici, nega l’evidenza della catastrofe o tenta di ridimensionarla accusando il governo di cercare solo «un alibi».
L’anno scorso il Fatto quotidiano aveva lanciato una campagna contro tutti quei politici che dopo averne fatto l’elogio e chiesto la proroga o l’estensione si erano scagliati contro il Superbonus, a cominciare da Giorgia Meloni, che ancora nel settembre del 2022, in piena campagna elettorale, si diceva pronta «a tutelare i diritti del Superbonus e a migliorare le agevolazioni edilizie».
Il Fatto invitava i lettori a votare «la più grande faccia da Superbonus», ma dovrebbe consegnare il premio al suo direttore, Marco Travaglio, che ieri a Otto e mezzo ha avuto il coraggio di sostenere che il provvedimento avrebbe dovuto essere «a tempo» e «prevedere un décalage» (ma va?) solo che il povero Conte «l’ha varato e dopo otto mesi l’hanno mandato a casa», dunque «Conte l’ha gestito per otto mesi, Draghi l’ha gestito per diciasette mesi».
Dimenticando di dire che in quei diciassette mesi – come ricordava Fubini – Draghi ha provato più volte a intervenire e ha ripetutamente criticato la misura (critiche che non sono state l’ultima delle ragioni della rottura con il Movimento 5 stelle e dunque della caduta del suo governo, forse anche più della questione ucraina) e a fare muro è stata proprio la santa alleanza bipopulista formata dall’intera maggioranza, e come si è visto pure da Fratelli d’Italia, guidata ovviamente dal Movimento 5 stelle e dal Fatto quotidiano.
Che ora gli ideatori e i massimi sostenitori del Superbonus accusino Draghi di non essere riuscito a fermarli dà la misura del livello di degrado raggiunto dal nostro dibattito pubblico. T
uttavia è l’intera vicenda che un giorno andrà studiata come dimostrazione da manuale di quale spirale autodistruttiva possa innescare l’egemonia di un movimento populista, quando non incontri alcun argine né tra i partiti né tra i cosiddetti intellettuali, ma solo innumerevoli tentativi di imitazione.
Nepalesi a Kiev arruolati per fame dai russi (italiaoggi.it)
di Filippo Merli
Picchiati e digiuni. «I russi ci trattavano come cani.
Eravamo carne da cannone». Ganesh, 35 anni, è un mercenario nepalese tra i pochi a ritornare dall’Ucraina dopo essersi arruolato con i russi. «È stato spaventoso», ha raccontato, «Siamo stati attaccati dai droni, è stato terrificante».
Sono oltre 2 mila i soldati del Nepal che, spinti dalla povertà, hanno scelto di sposare la causa del Cremlino a Kiev. Per un paio di settimane sono stati nel centro di addestramento Avangard, accademia militare nei pressi di Mosca.
Concluso il breve periodo di esercitazione i paramilitari nepalesi sono stati schierati sul campo di battaglia e lasciati in balìa delle bombe ucraine. «I soldati russi erano dietro di noi, che eravamo in prima linea», ha detto Ganesh, che ha visto tre connazionali morire al fronte.
In Nepal lo stipendio medio mensile è meno di 170 euro, ma un non meglio precisato agente ha fatto sapere a Ganesh che avrebbe potuto guadagnare 1.800 euro al mese se si fosse unito alla campagna di Vladimir Putin. E lui, come molti altri, ha accettato. Per i nepalesi è illegale combattere per gli eserciti stranieri e a gennaio il governo ha vietato ai suoi cittadini di recarsi in Russia o in Ucraina e ha chiesto a Mosca di rimpatriare tutti i nepalesi reclutati.
Il sovrintendente Nawaraj Adhikari ha rivelato che la polizia sta reprimendo gli agenti che aiutano a smistare i documenti necessari per permettere ai combattenti improvvisati di entrare in Russia e di partecipare all’invasione dell’Ucraina. «La polizia ha già arrestato 22 sospetti», ha detto Adhikari. «Il problema è serio».
I parenti di 150 mercenari nepalesi hanno presentato ricorso al dipartimento consolare dopo aver perso i contatti con i loro parenti impegnati sul territorio ucraino. Molti dicono di essere stati convinti guardando i video di TikTok di reclute dall’aspetto felice che si addestravano in Russia.
«Su TikTok vedi uniformi fantasiose con pistole immaginarie, ma la realtà è diversa», ha dichiarato Ganesh, che dopo aver tentato la fuga è stato catturato, malmenato e arrestato dai soldati russi.
Secondo il governo nepalese 246 cittadini stanno ora combattendo per l’esercito russo e almeno 21 sono stati uccisi. Il ministero degli esteri ha svelato che le autorità russe avrebbero accettato di risarcire le famiglie delle vittime. Inoltre, il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, avrebbe assicurato alla sua controparte nepalese che si sarebbe occupato personalmente dei rimpatri dei soldati sopravvissuti e delle salme dei caduti, ma da Mosca non si è mosso nulla.
Quanto a Ganesh, dopo un mese e mezzo di detenzione è stato rimandato in Nepal. Oggi prega tutti i giorni per i suoi connazionali in un tempio di Katmandu. Quel che è certo è che la povertà ha spinto i nepalesi in un conflitto nel quale non hanno alcun interesse, combattendo e morendo per una causa che non li riguarda.
La “coerenza” del CamaleConte e la trappola del campo largo in cui è caduta Schlein (ilriformista.it)
di Massimiliano Panarari
Non c’è due senza tre…
I voti sull’Ucraina a Strasburgo (anche se tra vari dem serpeggia la tentazione di modificare la condotta tenuta sin qui), le regionali in Piemonte e ora la corsa per le amministrative a Bari. Le inchieste sul voto di scambio forniscono a Giuseppe Conte il destro per sfilarsi dalle primarie per il candidato sindaco del sinistracentro, proseguendo sulla strada dei distinguo e degli smarcamenti dal Pd.
Una nuova école barisienne, nel senso che quanto avvenuto a Bari “fa scuola”, e ribadisce che c’è del metodo nella condotta contiana. E c’è una paradossale “coerenza”, chiamiamola così, nel CamaleConte, a dispetto della linea strategica senza piano B che il Partito democratico ha strutturato negli anni del Conte II, a partire dall’indefettibile dottrina dell’«alleanza organica» di Goffredo Bettini (prontamente fatta propria anche dal kingmaker Dario Franceschini).
E se i dati di fatto si incaricano di smentire queste architetture politiche, peggio naturalmente per la realtà. E dire che il realismo politico era stato un patrimonio di rilievo di alcuni settori del fu Partito comunista italiano, poi i suoi eredi entrati hanno deciso di procedere a oltranza nella direzione (utopistica) di “romanizzare i barbari”, dalla Lega fino, per l’appunto, al Movimento 5 Stelle.
Nella convinzione che la cultura politica italiana dell’ultimo ventennio almeno sia egemonizzata dal populismo che doveva venire “rieducato”. Il M5S, nel frattempo, si è pure convertito nel partito personale di Giuseppe Conte, dopo essere stato quello bipersonale di Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo. Con l’ex premier fortemente impegnato in una competizione con Elly Schlein per decidere chi debba guidare il fronte progressista.
Ma, al medesimo tempo, capace di avvalersi ampiamente dell’opzione exit dal “campo largo” quando insoddisfatto, privo di un candidato unitario “made in 5 Stelle” o con una prospettiva elettoralmente più proficua nel caso di corsa in “splendida solitudine”.
A conferma, per l’appunto, della natura intimamente populista e post-ideologica del Movimento, spostatosi nel quadrante progressista per ragioni che rimangono fondamentalmente tattiche e di opportunità, e in grado di fare incetta di maggiori consensi se si ripropone nella versione “classica” al di là della destra e della sinistra.
Una visione difatti “coerente” (siamo sempre dalle parti dei “paradossi postmoderni”) con un politico che fa del funambolismo e del gattopardismo la propria cifra distintiva presentandosi legibus solutus dalle regole di ingaggio di un’«alleanza organica» col Pd, da cui prende le distanze ogni volta che gli conviene.
A considerare la coalizione come strutturale, dunque, è soltanto la linea della segreteria dem che privilegia sempre e comunque il rapporto con il Movimento, considerando il nocciolo duro giallorosso come il motore del campo largo – in verità, “strutturalmente” più ristretto perché il potere di veto contiano nei confronti dei centristi viene esercitato con decisione, trovando per l’appunto una sponda assai in sintonia nel gruppo dirigente schleiniano.
Presso il quale si invoca innanzitutto l’«imprescindibile» esigenza aritmetica di poter contare sul Movimento 5 Stelle per provare a vincere (e questo argomento presenta dei fondamenti innegabili), dando però l’impressione che si tratti di una scelta politica “a prescindere”, che tende così a escludere chi non si allinea al primato giallorosso.
E, allora, si potrebbe agevolmente obiettare, proprio guardando ai dati elettorali, che la somma matematica non si traduce mai esattamente “in modo aritmetico” e che, in ogni caso, l’accoppiata Pd-M5S allargata a sinistra non è sufficiente per rendere il campo largo davvero competitivo. Il punto riguarda, infatti, la natura profonda dell’alleato a geometrie variabili M5S.
Peraltro intento, come tutti, a cercare di massimizzare alle europee la propria percentuale che, come da tradizione, si flette invece significativamente nelle elezioni amministrative. Così, accanto al tema del populismo genetico di questa formazione che col Pd non si amalgama al meglio («diciamo»…), c’è quello della sua marcata trasformazione, come si ricordava poc’anzi, nel “PdC”, il “Partito di Conte”.
Un ircocervo di partito notabilare-movimentista, sotto la guida non contendibile di un “Principe” che si considera molto machiavellico, e che effettivamente fa un po’ come gli pare nel fronte che dovrebbe essere progressista ma, dal grillismo in avanti, è diventato sempre più populista. Ovvero, il “campo giusto” (per Conte)…
CONTE: ANATOMIA DI UN QUALUNQUISTA
di Cristofaro Sola
Giuseppe Conte,
il grillino non-grillino; lo “sfasciacarrozze”, l’uomo di tutte le stagioni; il becchino del campo largo. Epiteti e appellativi maliziosi ci stanno tutti per qualificare un personaggio politico ambiguo, pericoloso, che per i commentatori della politica rimane un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma, per dirla con Winston Churchill.
La vicenda giudiziaria barese, che ha coinvolto amministratori locali del Partito Democratico, è la più recente manifestazione d’imperscrutabilità del leader del Movimento Cinque Stelle. Nel capoluogo pugliese la scorsa domenica avrebbero dovuto tenersi le primarie del centrosinistra per la scelta del candidato sindaco alle ormai prossime elezioni comunali. In campo due contendenti.
Uno per il Pd (Vito Leccese), l’altro appoggiato dai Cinque Stelle (Michele Laforgia). Una passeggiata, visti i sondaggi che davano per sicuro vincente alla successione dell’uscente sindaco Antonio Decaro un rappresentante del centrosinistra sul candidato del centrodestra. Poi però, l’uragano. Arresti e perquisizioni ordinati dalla magistratura del capoluogo pugliese che ficca il naso nel sistema territoriale di potere del Partito Democratico.
In rapida successione: un indignato non-ci-sto di Decaro contro l’ipotesi di scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose; Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia in quota dem, che interviene in suo soccorso ma con l’infelicissimo racconto di un aneddoto sigla un clamoroso autogoal.
Poi altri arresti e squallide storie – ancora da dimostrare – di voti comprati e di corruzione elettorale dilagante; dimissioni “spintanee” di una gentile signora assessore regionale ai Trasporti della Regione Puglia (Anita Maurodinoia), esperta di navigazione a vela dal centrodestra al centrosinistra; presa di distanze tardiva del partito della superiorità morale persa a carte in un angiporto della Bari vecchia.
Obiettivamente, il quadro non è esaltante. Per dirla tutta: è pessimo. Purtuttavia, Bari è una terrazza che affaccia sull’Adriatico e la sua gente ha nel Dna lo stesso gene che accomuna la gente di mare. Per costoro vale l’esperienza per la quale dalla nave che affonda i primi a scappare sono i topi. In piena tempesta politico-giudiziaria sarebbe stato giusto attendersi dal capo dei pentastellati un forte richiamo all’unità.
Non certo l’eroico spirito ungarettiano da Allegria di naufragi, ma almeno un dignitoso “restiamo uniti”. Invece, no. Il foggiano Conte fugge dalle primarie e si porta via il candidato. Non aspetta di sentire la partner Elly Schlein, scappa. E lo fa in nome di quell’onestà e di quel moralismo che sono stati il sepolcro imbiancato del grillismo della prima ora. E della seconda. Non è stata viltà, piuttosto miserevole opportunismo. Conte che non sa di filosofia, come non sa di politica, è un campione a fare di conto.
E il calcolo che ha sviluppato sul cadavere del Pd pugliese lo ha condotto a concludere che, per le sue mire di potere su un campo che ancora non esiste e che comunque non gli apparterrebbe, la cosa più conveniente da fare sarebbe stata quella di pugnalare alle spalle la compagna Elly, ferendola. Il convincimento del sicario è che, successivamente, i sodali di partito della giovane leader, alle idi di un imprecisato mese di quest’anno o dell’anno che verrà, avrebbero finito il lavoro con l’assassinio rituale del Segretario, come da prassi nel Pd.
Far vincere a Bari il centrodestra con la conseguenza di affossare la Schlein per poi costringerla a consegnargli le chiavi del centrosinistra nell’improbabile ipotesi che potesse indossare lui i costumi di scena del salvatore della patria.
Ecco dunque il progetto meschino di un novello Ghino di Tacco in un mondo nel quale i leader di partito, salvo lodevoli eccezioni, sono costruiti con materiali di scarto. Qualcuno a sinistra lo ha chiamato sciacallo. Può darsi che lo sia, visto il gesto vorace di assalire il cadavere del Pd pugliese ancora caldo.
Ma non è la nostra opinione. Giuseppe Conte è la personificazione del qualunquismo, che è la matrice ideologica sulla quale è nato e ha fatto presa sulla società il grillismo del Movimento Cinque Stelle. Per troppo tempo una lettura confusa del fenomeno Beppe Grillo ha spinto gli analisti a identificare l’esperienza pentastellata con una forma innovativa e vincente di populismo del Terzo millennio.
Ha ragione Piero Sansonetti che dalle colonne del suo giornale, l’Unità, ha tuonato contro Conte rivendicando in qualche misura la nobiltà del populismo. Per il vecchio comunista che piace alla buona borghesia – e a Mediaset – la differenza sostanziale tra il populismo e il qualunquismo sta nel fatto che mentre il primo avesse comunque dei contenuti di merito – per quanto discutibili – e che tali contenuti potessero talvolta essere definiti di sinistra, il secondo fosse assenza totale di visione della società mescolata ad azione politica intesa come strumento rivolto alla conquista del potere fine a sé stesso.
È così, e aggiungiamo: il qualunquismo non è ideale ma umorale. Si affida alla captazione delle pulsioni dell’opinione pubblica per assemblare una qualche linea di condotta, non necessariamente sensata. Grazie a questo trasformismo camaleontico, Giuseppe Conte ha potuto recitare tutte le parti in commedia. È stato conservatore a braccetto con Matteo Salvini quando per stare a Palazzo Chigi servivano i voti della Lega ed è stato progressista quando a corteggiarlo sono stati i progressisti.
Trumpiano con Donald Trump regnante; europeista anti-trumpiano con Emmanuel Macron e la signora Angela Merkel a dare le carte in Europa. Ha indossato il gilet giallo nella Parigi messa a fuoco e fiamme dalla protesta sociale, nel mentre a Bruxelles votava per Ursula von der Leyen presidente della Commissione degli eurocrati. In Nato è stato lo scolaro zelante, tra i primi a dire sì all’aumento delle spese militari e nel Parlamento italiano è stato quello che più di tutti ha urlato contro l’aumento delle spese militari.
E anche adesso che in quel di Bari riscopre l’importanza di essere onesti sbattendo la porta in faccia al Pd, dimentica di far dimettere dal proprio incarico Rosa Barone, assessore regionale al Welfare e plenipotenziario del Movimento Cinque Stelle nella Giunta Emiliano.
Tanta ambiguità, che rasenta l’insolenza, trova una sola spiegazione logica: il qualunquismo. Attenzione, però. La forma propugnata dal Cinque Stelle non è la stessa del qualunquismo storico impersonato a metà degli anni Quaranta del Novecento da un personaggio pubblico che, a suo modo, godeva di buona fama: Guglielmo Giannini.
Il qualunquismo contiano è fermo allo stato larvale perché è mancante della “pars construens” di cui era dotato il modello originale. Non è un dettaglio. L’assenza totale di un’offerta politica praticabile spinge il progetto contiano su una pericolosa china. A differenza dei partiti tradizionali, il cui abbattimento costituisce l’obiettivo primario dell’antipolitica qualunquista, il Movimento pentastellato non si candida a guidare l’opinione pubblica – a educarla, se necessario – ma a inseguirla.
Ciò depaupera l’istituzione partito, anche nella versione surrogata di movimento, della capacità di compiere scelte impegnative e percettibilmente impopolari per il bene della nazione. Guglielmo Giannini, che era uomo d’ordine, non mancò di pensare che nel Pantheon del qualunquismo storico potesse trovare posto Amnesis, una simil dea greca dell’oblio come Lete, sorella gemella di Mnemosine, la cui azione sarebbe stata tanto più necessaria in quel preciso momento storico per consentire a un’umanità dolente e rancorosa, appena riemersa dall’immane catastrofe della Seconda guerra mondiale, di dimenticare, di allontanarsi dal peccato per poter, nel tempo, perdonare.
Per questo motivo il “qualunquista” Giannini non era affatto contrario alla clemenza di Stato esercitata mediante l’amnistia. Un abisso rispetto al suo epigono che bazzica la politica ai giorni nostri.
Alla luce di tutto ciò, non è consigliabile tifare perché il leader Cinque Stelle riesca nell’intento di silurare Elly Schlein pur di prenderne il posto alla guida del futuribile campo largo del centrosinistra. Con la segretaria Pd, benché sgangherata, resterebbe in campo la politica.
Con Giuseppe Conte al timone di una sinistra che non gli appartiene in nulla, le scelte più adeguate a beneficio del Paese i beneamati progressisti le farebbero giorno per giorno non prima di aver ascoltato i vaticini degli aruspici e di aver letto i presagi nel comportamento degli uccelli.