Le manette di Ilaria Salis e il doppiopesismo della sinistra (italiaoggi.it)

di Marco Bianchi

È diventata in pochissimo tempo la nuova eroina 
della gauche italica. 

D’altronde, in mancanza di figure carismatiche ai vertici dei partiti di opposizione, tutto fa brodo. Anche un’anonima attivista riesce ad assurgere al ruolo di opinion leader di una sinistra che ha decisamente perso i propri punti di riferimento.

A far da cassa di risonanza, utilissima alla campagna elettorale in corso, sono le immagini che rimbalzano dai Tribunali ungheresi. L’ingresso in aula di Ilaria Salis ammanettata mani e piedi fa il giro di social e televisioni, diventando subito trend topic. Sotto accusa c’è “l’odiato” Orban, considerato dalla sinistra antidemocratico.

E il trattamento riservato a Ilaria Salis ne sarebbe la prova più concreta. Ovviamente nessuno si sofferma sull’ipotesi di reato contestata. Che lei sia innocente viene dato per certo e assodato, in barba a qualsiasi tipo di istruttoria in corso; in barba ai suoi precedenti penali, che ne descrivono un curriculum non certo da educanda.

Nessuno si chiede cosa facesse in Ungheria e perché è stata arrestata. Così tutti, a partire del Capo dello Stato in giù, hanno mostrato il pollice verso, rispetto alle modalità di detenzione imposte. Ma, come sempre capita nel nostro Paese, il doppiopesismo è ormai brand esclusivo della sinistra. E l’esempio ce lo dà l’arresto di Filippo Turetta, carnefice di Giulia Cecchettin.

Il suo arrivo il 25 novembre dello scorso anno in Italia dalla Germania, dove era stato arrestato, è stato oggetto di innumerevoli commenti tutti incentrati sull’efferatezza del delitto di cui si è autoaccusato. Nessuno si è soffermato sulle modalità del suo trasferimento, incatenato mani e piedi sin dalla Germania e così tradotto in carcere a Verona.

Nessuno ha protestato né nei confronti del democratico Stato tedesco e nessuno si è permesso di tirare dalla giacca il Capo dello Stato. Eppure, le regole devono valere per tutti, a prescindere dal capo di imputazione. Non a caso anche un criminale come Matteo Messina Denaro è stato arrestato senza catene; anzi, nelle immagini era anche senza manette tra due poliziotti. In Italia le catene ai piedi sono state vietate nel 1992.

In Europa esiste una raccomandazione in tal senso dal 2006. Ma la Germania e il nostro Paese per l’arresto di Turetta se ne sono dimenticati. Se ne sono ricordati per Ilaria Salis, ma solo perché di mezzo c’è Orbán. Se l’arrestato fosse stato di destra e le catene utilizzate dalla Germania, non ci sarebbe stato nessuna protesta, in nome del solito doppiopesismo.

Più tutele, meno precari con il Jobs Act: abolirlo è un’illusione populista, il referendum impossibile di Landini (ilriformista.it)

di Maurizio Del Conte

L’iniziativa è infondata nei presupposti

La CGIL per scaldare le piazze ha scelto la via facile del ricorso al mito di un articolo 18 che fu, impossibile però da riesumare con il voto popolare

Landini: il Jobs Act va abrogato. Non rassegniamoci al precariato a vita”. A sostegno della raccolta firme per l’iniziativa referendaria contro la riforma varata nel 2015 dal governo Renzi, la CGIL rilancia sul proprio sito ufficiale il titolo di una lunga intervista rilasciata ieri a Repubblica dal segretario Maurizio Landini.

Sebbene ancora non siano stati resi noti, è la stessa organizzazione sindacale ad anticipare i temi dei quesiti. Saranno quattro e riguarderanno, nella sostanza, la disciplina dei licenziamenti definita dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le tutele contro i licenziamenti illegittimi nelle imprese fino a 15 dipendenti, la reintroduzione delle causali nel contratto a tempo determinato e la responsabilità del committente nelle catene degli appalti.

Temi molto diversi tra loro, ma il messaggio del sindacato guidato da Maurizio Landini si concentra sul Jobs Act come simbolo della precarizzazione del lavoro. In questa prospettiva, il minimo che dovremmo aspettarci è una esplosione dei contratti precari a far data dall’entrata in vigore, nel 2015, del Jobs Act. Del resto, lo stesso Segretario richiama il dovere di fare un bilancio della riforma e di riconoscere che è “sbagliata”.

Se, però, esaminiamo i dati Istat sulle forze lavoro, scopriamo che nel 2015 la quota dei contratti a tempo determinato era del 19,9%, mentre alla fine del 2023 è scesa al 13,9%. Merito del Jobs Act? Sarebbe uno sbaglio sostenerlo, perché è sempre azzardato stabilire semplicistiche correlazioni tra riforme del mercato del lavoro e numeri dell’occupazione. Ma, in mancanza di ogni fondamento fattuale, la domanda è: sulla base di cosa la CGIL stabilisce una correlazione tra aumento della precarietà e Jobs Act, al punto da rivolgersi al voto popolare per la sua abrogazione?

La sensazione è che si sia di fronte a una iniziativa tanto suggestiva e nobile nei fini (abrogare la precarietà), quanto velleitaria e infondata nei presupposti. Eppure il sindacato non può ignorare dove si annida la vera precarietà. Nella piaga endemica del lavoro irregolare, innanzitutto. Quello che sfugge ai troppo deboli controlli degli organi ispettivi, ma anche alla volontà politica delle istituzioni che, nei territori, spesso fingono di non vedere.

Il lavoro precario è nei falsi contratti autonomi, che finalmente possono essere contrastati grazie all’articolo 2 del D.lgs 81/2015, una norma rivoluzionaria introdotta dal Jobs Act (sì, proprio lui). Non è un caso che i rider, nuovi simboli del precariato povero, siano infine riusciti a ottenere le tutele del lavoro subordinato invocando quella norma.

Il lavoro precario è anche figlio della ubriacatura decrescista e del mantra “piccolo è bello”, che ha fatto terra bruciata attorno ai campioni dell’industria nazionale e ha indirizzato le già scarse risorse pubbliche in mille inutili rivoli, a sostegno di un tessuto micro-imprenditoriale destinato a soccombere alle prime scosse delle sempre più frequenti crisi globali.

Ma cosa c’entra il Jobs Act con tutto questo? Chi chiama i cittadini ad abrogare il Jobs Act dovrebbe sentire il dovere di informare i cittadini su cosa effettivamente esso sia.

Piaccia o no, si tratta dell’ultima e probabilmente più organica riforma del lavoro, partita da una legge delega del parlamento nel 2014 e attuata con ben 8 decreti legislativi del governo: il D.Lgs. 22/2015 relativo all’introduzione di nuovi ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria; il D.Lgs. 23/2015, sul contratto a tutele crescenti; il D.Lgs. 80/2015, sulla conciliazione tra tempi di vita e di lavoro; il D.Lgs. 81/2015 relativo al riordino dei contratti di lavoro e alla disciplina delle mansioni; il D.Lgs. 148/2015 sulla riorganizzazione della disciplina degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro; il D.Lgs. 149/2015 relativo all’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale; il D.Lgs. 150/2015 in materia di politiche attive; il D.Lgs. 151/2015 sulle semplificazioni in materia di lavoro e pari opportunità.

Pur non facendone tecnicamente parte, ne è stata il sostanziale completamento la legge 81/2017 sullo Statuto del lavoro autonomo e sul lavoro agile (il c.d. smartworking). Una riforma complessa che, nel suo insieme, ha retto l’urto della crisi economica del 2019, del Covid-19 e della crisi globale innestata dall’invasione Russa dell’Ucraina. Una riforma che ha ridotto le distanze tra il diritto del lavoro italiano e quello degli altri paesi europei, ai quali guardiamo spesso con malcelata invidia.

Forse è per questo che il referendum, in realtà, non punta affatto a demolire l’architettura del lavoro disegnata dal Jobs Act, ma concentra tutta la sua forza d’urto – ancora una volta, è il caso di dire – sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Si direbbe che, per scaldare le piazze, la CGIL abbia scelto la via facile del ricorso al mito.

Il mito di un articolo 18 che fu, ma che negli anni ha subito tali e tante modifiche che la sua resurrezione per via referendaria sarebbe comunque impossibile. Tant’è che l’operazione avrebbe l’esito, semmai, di far rivivere l’articolo 18 nella versione della legge Fornero del 2012.

Certo, abrogare è più facile che indicare nuove traiettorie e, soprattutto, lavorare per realizzarle. A guardare oltre ogni pregiudizio e ogni scorciatoia, il vero problema del Jobs Act, oggi più che mai, è che è rimasto incompiuto in una sua parte fondamentale, quella delle politiche attive del lavoro e della costruzione di un sistema di formazione professionale continua e di massa.

Il sindacato tutto, CGIL compresa, è consapevole che è lì l’origine e la possibile soluzione dei più gravi problemi del mercato del lavoro italiano. Se in un equilibrio, come quello attuale, straordinariamente favorevole alla offerta (scarsa) rispetto alla domanda (sempre in crescita) di lavoro, gli stipendi italiani continuano ad essere tra i più bassi di Europa, è evidente che stiamo pagando un enorme deficit di competenze. Di quel valore, cioè, che oggi è cruciale per le imprese e per il quale soltanto sono disposte ad aumentare le retribuzioni.

Nel 2016 il segretario Maurizio Landini ha firmato, da leader della FIOM, il primo contratto collettivo nazionale in cui veniva enfaticamente affermato il diritto soggettivo dei lavoratori alla formazione. Una svolta che pareva preludere a una nuova stagione della politica sindacale, pronta a raccogliere la sfida della rivoluzione tecnologica e battersi per il diritto dei lavoratori di aggiornare le proprie competenze non solo in funzione della conservazione del posto di lavoro, ma anche nella prospettiva di una mobilità nel mercato.

Ma lo stesso Landini sa bene che quel diritto è rimasto largamente inattuato e, nei fatti, del tutto insufficiente a realizzare quell’obbiettivo. A fronte di una occupazione che cresce, anche e soprattutto nella componente a tempo indeterminato, restiamo intrappolati in quello che l’OCSE ha definito come low-skills equilibrium, basso livello di competenze generalizzato, che frena la produttività e la creazione di valore, con una drammatica ricaduta sui salari. Purtroppo l’iniziativa referendaria non ha nulla a che fare con tutto ciò.

E così siamo ancora qui, nel 2024, ad assistere all’ennesima battaglia sull’articolo 18 che potrà, forse, scaldare i cuori facendo leva sull’effetto nostalgia, ma non potrà offrire alcuna risposta concreta ai veri problemi che affliggono il lavoro di oggi e le sue prospettive future.

La finta conversione dei filoputiniani diventati finti europeisti per un pugno di voti (linkiesta.it)

di

I sovranpacifisti

Molti sovranisti e simpatizzanti di Russia Unita, a partire da Matteo Salvini e dal generale Vannacci, fingono di essere passati dalla parte dell’Ucraina perché dopo le Europee sognano di sedersi ai tavoli che contano

Sull’onda del mondo al contrario del generale Roberto Vannacci, Matteo Salvini pubblica un libro con il titolo non proprio originale “Contromano”. L’occasione editoriale fa fiorire le interviste anche sugli aspetti personali, dei quali francamente non ci frega nulla.

Sarebbe interessante invece per capire come sia passato dalla parte dell’Ucraina, un passaggio chiaramente ipocrita e del tutto contraddittorio con il fatto di essere stato l’unico esponete di un governo, in Europa, ad applaudire alla rielezione di Vladimir Putin.

Ma è chiaro il suo intento nelle sue due parti in commedia, condito dall’affermazione che il patto con Russia Unita non c’è più da quando i russi hanno invaso l’Ucraina (cosa che in questi due anni di guerra non mai detto in maniera così esplicita). Il suo scopo è di entrare nel dibattito per guidare l’Unione europea. Come Mario Sechi ha scritto già nel titolo dell’intervista al leader leghista pubblicata ieri su Libero.

Ecco allora la strategia del fu Capitano, che arranca per non farsi scavalcare alle Europee da Forza Italia: mai con Ursula von der Leyen, la candidata del Partito popolare europeo, ma disposto a far parte delle trattative per il nuovo governo europeo. Salvini lo fa sulla scia di Marine Le Pen, che ha virato, anche lei, verso una posizione moderatamente pro Ucraina.

Una parte dei sovranisti di Identità e Democrazia ha capito che solo prendendo fintamente le distanze da Mosca può essere ammessa al gran ballo di Bruxelles. Il bluff cade e cadrà quando si tratterà di sostenere il piano da cento miliardi lanciato dal segretario della Nato Jens Stoltenberg. Quando cioè si dovrà passare dalle chiacchiere e dalle dichiarazioni al concreto sostegno a Kyjiv.

E infatti, per stanare i due leader sovranisti, bisognerà chiedere loro già oggi fino a che punto sono disposti a sostenere il rafforzamento dei confini orientali e la capacità di deterrenza della Nato a trazione europea, compreso l’aumento della spesa per armamenti in modo da evitare che la possibile offensiva di primavera di Putin abbia successo.

Ai sovranpacifisti non si può lasciare margini di ambiguità. Non bisogna permettere di essere Giani bifronte nella campagna elettorale che entrerà nel vivo proprio in coincidenza dell’altra campagna, quella militare dei carri armati con la Z.

Le Pen ha chiesto pubblicamente a Giorgia Meloni di dire che non sosterrà mai von der Leyen, ricordando che in Italia l’unico che mai lo farà è Salvini. Bene, chiediamo alla leader del Rassemblement National di dire cosa farebbe su questioni specifiche, se eletta presidente della Francia al posto di Emmanuel Macron.

Se una volta all’Eliseo continuerebbe a partecipare agli incontri di Weimar con il tedesco Olaf Scholz e il polacco Donald Tusk che cercano, con tutte le contraddizioni del caso, di essere l’avanguardia europea contro l’offensiva russa, oppure farebbe asse con Orbán che quel piano da cento miliardi lanciato da Stoltenberg lo vuole bloccare? E dei defence eurobond che servirebbero a finanziare la difesa e la sicurezza presente e futura dei Paesi baltici e confinanti con la Russia, che ne pensa madame Le Pen che in Francia vola nei sondaggi?

Le stesse domande dovrebbero essere rivolte a Salvini che, oltre a battere le mani a Putin, osanna Donald Trump, antico avversario dell’Europa e amico di Nigel Farange, il protagonista della Brexit con il quale l’ex presidente americano coltiva ancora una personalmente amicizia – tanto che l’altro ieri gli ha fatto gli auguri di compleanno.

La campagna elettorale dovrà essere fatta sui temi che riguardano la sopravvivenza di un’Europa libera e non tremolante di fronte a Putin. Chiedendo ai candidati eccellenti della Lega, come lo sarà Vannacci (la scelta sembra fatta), quale sarebbe il ruolo di primo piano al quale ambisce in Europa perché a lui non piace fare la comparsa: «Non mi piace fare lotte ideologiche, sono una persona pragmatica».

Ora, essendo militare esperto di teatri guerra, la cosa più naturale è aspettarsi che nelle interviste (ieri sulla Stampa) parli della guerra in Ucraina, di come vede sul campo le truppe, cosa dovrebbe fare l’esercito di Kyjiv, l’Europa, l’Occidente, la Nato, appunto. Dovrebbe dare suggerimenti tecnici e politici visto che è stato addetto militare a Mosca.

Ma non lo fa, non lo può fare perché ha sempre parlato della Russia come la terra della sicurezza, di Putin come un grande statista, come per lui lo era Mussolini, perché vorrebbe la resa e non il Piano preparato dal segretario generale della Nato Stoltenberg.

Il possibile futuro europarlamentare leghista nelle interviste non viene incalzato sulle sue competenze. Vannacci parla contro l’ambientalismo ideologico, di auto elettriche, della sua che ha ventitré anni che con un litro di gasolio fa venti chilometri. Parla di statistiche che non rendono normali gli omosessuali, delle scuole dove «dobbiamo preservare la nostra identità: in migliaia sono morti sul Carso per tramandarcela.

Dobbiamo insegnare le radici italiane nelle scuole. In una classe tutta di stranieri è difficile insegnare l’italianità». Forse, al posto dei morti della Prima guerra mondiale sarebbe il caso di parlare di quelli di oggi.

È proprio il mondo al contrario, ma le Europee sono l’occasione per smascherare i finti sovranpacifisti che improvvisamente si sono convertiti sulla via di Kyjiv per uno strapuntino di potere a Bruxelles.

I veri dati sugli stranieri a scuola sconsigliano le scorciatoie (avvenire.it)

di Maurizio Ambrosini

La preoccupazione per i risultati scolastici 
degli alunni di origine immigrata è fondata. 

Si tratta di oltre 870.000 iscritti, pari al 10,6% della popolazione scolastica complessiva. Diagnosticare i problemi di abbandono, ritardo scolastico, difficoltà di apprendimento, è il primo e necessario passo per investire in interventi di sostegno e accompagnamento.

Porre la questione in termini di nazionalità, ossia d’incidenza degli alunni “stranieri” sul totale, incanala però il dibattito su binari sbagliati: fa pensare che sia l’origine in sé a rappresentare una sorta d’invisibile handicap che condiziona i processi cognitivi. Il deficit di competenza linguistica a cui immediatamente si può pensare riguarda principalmente chi è arrivato per ricongiungimento.

I dati statistici ci rivelano però che questa componente del problema è in via di superamento: oltre i due terzi degli alunni stranieri (il 67,5%) sono infatti nati in Italia, e con poche eccezioni, hanno compiuto tutto il loro percorso di crescita, socializzazione e istruzione in Italia. La percentuale è all’83,1% nella scuola dell’infanzia, al 73,6% nella scuola primaria, al 66,9% nella scuola secondaria di primo grado (Dossier immigrazione 2023).

Gli alunni ricongiunti prevalgono ormai soltanto, e di poco, nella secondaria di secondo grado (48,3% in nati in Italia). La netta maggioranza degli alunni “stranieri” è di fatto culturalmente e linguisticamente italiana, sebbene possa trascinare qualche difficoltà per il fatto di parlare in famiglia un italiano non troppo raffinato.

I risultati scolastici confermano una collocazione degli alunni nati in Italia su livelli più alti della controparte arrivata dopo la nascita, e più prossimi a quelli degli alunni di nazionalità italiana. Per esempio, il 36,4% tra gli stranieri nati in Italia e iscritti alle scuole superiori frequenta un liceo.

Bisognerebbe aggiungere: le ragazze vanno meglio dei maschi, come e più che fra gli studenti italiani, a conferma del fatto che limitarsi alla dicotomia italiani/stranieri non aiuta molto né a comprendere né a risolvere il problema.

Anche le risposte annunciate peccano di semplificazione. La concentrazione di alunni “stranieri” in certe classi o istituti non è una loro scelta: deriva dalle forme d’insediamento sul territorio, ossia dal trovare casa in certi quartieri o paesi, dalla fuga delle famiglie italiane da quelle scuole (il cosiddetto “white flight”), dalle scelte dei responsabili scolastici che cercano di tenere bassa la quota di alunni di origine immigrata spingendo le famiglie a iscriverli nelle scuole più sensibili e attrezzate per accoglierli. Se va bene, fissare un’eventuale soglia quantitativa al 20% potrà incidere un po’ sul terzo fattore, non sui primi due.

Ciò che invece servirebbe davvero sarebbero investimenti sull’accompagnamento educativo, sul rinforzo dell’apprendimento linguistico, sulla compensazione di altre eventuali lacune, senza trascurare gli alunni italiani con bisogni simili.

Servono più insegnanti specializzati e più mediatori culturali, anche per raggiungere le famiglie. Servono più risorse per l’educazione extrascolastica, fornita da quella fitta rete d’iniziative, a base volontaria e parrocchiale, che da anni lavora per compensare le difficoltà scolastiche di alunni italiani e stranieri e per favorirne la socializzazione in luoghi idonei e protetti.

Il futuro delle nuove generazioni multietniche è il futuro del Paese, la scuola è la fabbrica di questo futuro. Merita un’attenzione che si traduca in investimenti effettivi, non scorciatoie a basso costo destinate a rivelarsi illusorie.