Dopo 14 anni, tre sentenze di non luogo a
procedere, tre annullate e una assoluzione
cancellata in Cassazione,
il giornalista dovrà ora risarcire con 20mila euro la collega del Tg1
La Corte d’Appello Civile di Roma ha condannato il direttore del ‘Fatto Quotidiano’ Marco Travaglio a risarcire il danno, quantificato in 20mila euro, a Grazia Graziadei, vicedirettrice del Tg1. U
na vicenda nata dalla querela per diffamazione presentata nel 2010 dalla giornalista Graziadei nei confronti di Travaglio, autore di un articolo sulle intercettazioni pubblicato sul ‘Fatto Quotidiano’ il 4 luglio 2010, nel quale accusava la collega di avere, in un servizio andato in onda al Tg1 il 3 luglio 2010, “sparato cifre a casaccio spacciandole per dati ufficiali del Ministero della Giustizia”.
L’iter giudiziario è durato 14 anni. Dopo tre sentenze di non luogo a procedere emesse da tre diversi gup di Roma, tutte e tre annullate dalla Corte di Cassazione, un quarto gup ha rinviato a giudizio Travaglio, che è stato condannato per diffamazione nel 2018 in primo grado dal Tribunale penale di Roma e poi assolto nel 2020 dalla Corte d’Appello di Roma.
Contro questa assoluzione l’avvocato Fabio Viglione, che ha assistito Graziadei, ha presentato ricorso in Cassazione. La Suprema Corte, accogliendo il suo ricorso, nel 2022 ha annullato la sentenza di assoluzione, ravvisando gli estremi della diffamazione e rinviando “per nuovo esame al giudice civile, competente per valore in grado di appello”.
La Corte d’Appello Civile di Roma ha affermato, sulla base dei principi stabiliti dalla sentenza di cassazione con rinvio, “l’illiceità della condotta”, condannando Travaglio a pagare 20mila euro di danni alla Graziadei, per l’articolo pubblicato sul ‘Fatto Quotidiano’ nel 2010.
In questo tempo di crisi e incertezza servono stabilità, sicurezza e una direzione chiara, contrastando la narrazione fintamente pacifista delle forze populiste e sovraniste
Per chi vota la crisi internazionale? Le vele di quali partiti gonfieranno i venti di guerra che si stanno alzando? Probabilmente a giugno voteremo per le elezioni europee in un clima ancora più difficile di quello di oggi, forse saremo nella fase cruciale del conflitto tra Russia e Ucraina, forse dinanzi a una svolta (ma di che tipo?) nella vicenda di Israele, comunque sempre più vicini alla fatidica data del 5 novembre, il super-match tra Joe Biden e Donald Trump da cui tutto dipende e che segnerà in ogni caso una svolta a livello globale. La situazione europea intanto sta diventando pericolosissima. Non diciamo appesa a un filo, ma quasi.
L’intervista di Donald Tusk a Repubblica e altri giornali europei in questo senso è illuminante: «La guerra in Europa è un pericolo reale». Il suo Paese, la Polonia, che ben conosce la famelica attitudine guerresca della Russia, è in allerta. Gli europei cominciano davvero ad avere paura.
I giovani, soprattutto, cresciuti nell’ansia di non trovare un lavoro, di vivere in un clima malato e pressati da crescenti problemi di natura psicologica, avvertono il rumore di fondo di una catastrofe. Ha scritto Sergio Fabbrini sul Sole24Ore: «La minaccia della guerra ha un’eco diversa in parti diverse dell’Ue.
Essendo priva di un meccanismo (seppure basilare) di centralizzazione e legittimazione, l’Ue non è in grado di identificare una posizione collettiva (europea), ma è costretta a far coincidere l’interesse europeo con la somma degli interessi nazionali. Tuttavia, con gli allargamenti che si sono succeduti, in particolare con quello del 2004-2007-2013, la disomogeneità degli interessi nazionali è cresciuta drammaticamente». Il che peggiora le cose.
Nessuno sa dire dove si indirizzerà politicamente, da noi, questa nuova paura. Può darsi che il pacifismo, nelle sue varie forme, anche quelle più rozze, riesca a mobilitare in suo favore l’istintiva reazione ostile ai venti di guerra: è la scommessa, da ultimo, di Michele Santoro e della sua lista da talk show, ma anche di Giuseppe Conte, ostile da sempre a Kyjiv, e sull’altro fronte di Matteo Salvini, più chiaramente filo-putiniano e pacifista nel senso trumpiano del termine: se vince la Russia c’è la pace. Che poi la verità è opposta: se vince Putin, ha vinto la guerra.
Tutto questo ribollire gialloverde che va da Carlo Rovelli al pratone di Pontida, passando per la Cgil e l’avvocato del popolo, sembrerebbe crescere anche grazie all’apporto di quella parte importante del mondo cattolico che stressa le parole del Pontefice che sono quelle di un pastore di anime e non di uno statista.
Però è più probabile che si verifichi quello che ha scritto Stefano Folli su Repubblica: «Ora che la crisi internazionale è peggiorata si tende a riporre maggiore fiducia nei partiti più grandi». Diremmo noi, nei partiti più responsabili. Che non significa – sentiamo già le obiezioni – partiti guerrafondai, ma partiti ancorati all’Europa e alle grandi famiglie politiche.
Può darsi che le opinioni pubbliche cerchino un riparo laddove gli alberi sono più forti, nel segno della storia e della rinascita dell’Europa. È questa – c’è da sperare – la battaglia del Pd, di Stati Uniti d’Europa, di Azione, di Forza Italia.
Giorgia Meloni dovrà fare una chiara scelta di campo che potrebbe costargli l’urto con Salvini. Ma la partita non è nelle sue mani. È nei partiti con la testa sulle spalle.
Il cantiere da 1,3 miliardi di euro era stato
aggiudicato a un consorzio di imprese
guidato da Webuild,
favorito da una procedura più veloce che secondo l’ANAC non era legittima
L’autorità nazionale anticorruzione (ANAC) ha approvato le conclusioni di un’indagine sulle procedure di appalto della nuova diga foranea del porto di Genova, uno dei cantieri più grandi, impegnativi e costosi in corso in Italia.
Secondo le previsioni più ottimistiche la diga costerà 1,3 miliardi di euro, in parte garantiti dal fondo complementare del PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza con cui il governo italiano intende spendere i finanziamenti europei del Recovery Fund (il fondo dell’Unione Europea per aiutare i paesi dopo la crisi dovuta alla pandemia).
Il cantiere per la costruzione della nuova diga di Genova è iniziato il 4 maggio 2023. La diga viene definita “foranea” perché costituisce la prima protezione dal mare per le navi che entrano in porto. Servirà a far arrivare a Genova enormi navi portacontainer lunghe oltre 400 metri. L’attuale diga dista 550 metri dalla costa, mentre quella nuova sarà lunga 6,2 chilometri e costruita a una distanza di 800 metri per permettere alle navi più grandi di ruotare su loro stesse in caso di manovra.
Il primo atto formale risale al 2018, contenuto nel decreto Genova approvatodal governo dopo il crollo del ponte Morandi. La prima fase del cantiere dovrebbe finire entro il 2026 e secondo i piani costerà 950 milioni di euro, di cui 500 stanziati da fondo complementare del PNRR con risorse nazionali, 100 milioni di euro dal fondo per le infrastrutture portuali, 264 milioni dalla banca europea degli investimenti (BEI) e i rimanenti 86 milioni di euro dall’autorità portuale e dalle amministrazioni locali.
L’appalto per la costruzione fu vinto da un consorzio di imprese guidato dal gruppo Webuild, lo stesso che dovrà costruire il ponte sullo Stretto di Messina. All’appalto della diga di Genova partecipano anche Fincantieri Infrastructure Opere Marittime, Fincosit e Sidra.
Una prima contestazione dell’anticorruzione riguarda l’inserimento della nuova diga nel cosiddetto decreto Genova, che riguardava esclusivamente la costruzione di strade, ponti e collegamenti per ripristinare la viabilità dopo il crollo del ponte Morandi. Secondo l’ANAC la diga fu inserita in modo illegittimo e non sarebbe compresa in nessuna delle deroghe previste dal decreto.
Il secondo rilievo riguarda l’inserimento della diga tra le opere del PNRR che possono essere approvate più velocemente per rispettare le scadenze imposte dall’Europa. In particolare il progetto della diga è stato affidato con una procedura negoziata che consente di aggiudicare i lavori direttamente, senza un bando di gara.
È una procedura che può essere seguita soltanto in casi di particolare urgenza. L’ANAC dice che sulla base di tutta la documentazione analizzata la diga non rientra in questi casi urgenti. «Ciò in considerazione anche del fatto che l’opera era prevista da tempo ed era stata infatti inserita nella programmazione risalente al 2010», ha scritto l’ANAC nella delibera con cui ha sintetizzato l’indagine.
Nella prima gara, bandita nel giugno del 2022, i due consorzi partecipanti – guidati da Webuild e da Eteria, nata dall’accordo tra i gruppi Gavio e Caltagirone – si ritirarono scoraggiati dall’aumento dei prezzi dei materiali che rendeva l’appalto poco conveniente.
L’autorità portuale decise quindi di ricorrerea una procedura negoziata che consentiva di aggiudicare i lavori direttamente, senza un bando di gara. A questa procedura furono invitate Eteria e Webuild e l’appalto fu aggiudicato a quest’ultima nell’ottobre del 2022.
L’ANAC sostiene che tutto questo non si poteva fare. Si sarebbe dovuto ricominciare da capo con un nuovo bando “esplorativo” per ricevere proposte e in questo modo rispettare le norme sulla concorrenza. In un’altra contestazione l’autorità anticorruzione dice che la prima gara di appalto era stata presentata sulla base di prezzi dei materiali non aggiornati. Questa circostanza ha ristretto la concorrenza per via di una base d’asta troppo bassa, cosa che poi è effettivamente avvenuta.
«La stazione appaltante ha infatti, in maniera irrituale, soddisfatto le richieste formulate dai concorrenti che riguardavano aspetti rilevanti del contratto di appalto, tra cui le modalità di contabilizzazione del corrispettivo e di revisione prezzi e una modifica del contratto originariamente posto a base di gara in relazione alla possibilità di apportare varianti per “incerto” geologico», ha scritto l’ANAC.
Un altro punto piuttosto critico riguarda una modifica contrattuale concessa a Webuild: in pratica se la ricognizione sull’area del cantiere dovesse comportare delle modifiche al progetto o alle modalità di esecuzione del cantiere, queste modifiche sono considerate varianti e quindi dovranno essere pagate in più rispetto alla base di appalto. Ma secondo l’ANAC le probabilità che le caratteristiche geologiche si rivelino diverse dalle previsioni sono elevatissime, praticamente certe.
L’ANAC infine ha indicato anche un possibile conflitto di interessi dell’ingegner Marco Rettighieri, che nella primavera del 2021 si dimise da responsabile “dell’attuazione del programma straordinario dell’autorità portuale”, cioè da responsabile del progetto della diga, e poco dopo venne nominato presidente di Webuild Italia.
L’autorità anticorruzione ipotizza che la nomina di Rettighieri sia un caso di pantouflage, che si verifica quando dipendenti pubblici che negli ultimi tre anni di servizio hanno esercitato poteri negoziali per la pubblica amministrazione vengono poi assunti dagli stessi privati destinatari dei provvedimenti di cui erano responsabili: è una pratica proibita dalla legge.
Secondo Repubblica Genova la delibera dell’ANAC è già stata trasmessa alla procura di Genova e alla Corte dei Conti che da mesi stanno indagando su queste contestazioni. Finora i rilievi di procura e ANAC non hanno portato a un’interruzione dei lavori e non è chiaro cosa possa succedere ora, se alcune procedure saranno annullate e riproposte oppure se saranno fatte sanzioni.
In quasi un anno di lavori le aziende impegnate nel cantiere hanno posato oltre un milione di tonnellate di ghiaia sul fondale, raggiungendo il 40 per cento dell’obiettivo, in linea con le previsioni. Finora sono state realizzate 1.320 colonne sommerse di ghiaia ed è stato completato il 70 per cento della bonifica bellica subacquea, cioè la ricerca di eventuali bombe sul fondale del mare.