di BILL EMMOTT
L’ex hacker australiano sognava la trasparenza assoluta e il Web gratuito.
Ma ha finito per ostacolare il giornalismo d’inchiesta e favorire le fake news
L’epica vicenda giudiziaria di Julian Assange ha sempre provocato dissensi anche tra i giornalisti, nella terra da cui proviene, l’Australia, e in Gran Bretagna e in America dove lui e la sua creazione del 2006, WikiLeaks, hanno fatto il grosso del loro lavoro. La pubblicazione da parte sua nel 2010 di un cospicuo faldone di documenti diplomatici statunitensi riguardanti le guerre in Iraq e in Afghanistan ne hanno fatto un eroe della libertà di parola e della responsabilità democratica?
Oppure l’indiscriminata e sconsiderata pubblicazione da parte sua di quelle soffiate ha provocato morti non necessarie e arrecato danni a persone innocenti, rendendo di conseguenza molto più complesso il compito del vero giornalismo d’inchiesta?
Questo ragionamento, e l’intera controversia che circonda Assange, solleva la domanda di fondo più importante di tutte in relazione alla nostra adorata libertà di parola e di espressione. La domanda è se libertà significa che siamo tutti liberi di dire e pubblicare tutto quello che ci piace, a prescindere dalle conseguenze, o se debba invece esistere un limite a tale libertà, se questa deve continuare a essere rispettata e accettata dai più. Siamo esseri sociali, e di conseguenza gli effetti delle nostre azioni sugli altri e sulla società devono essere tenuti in debita considerazione.
Certo, Assange è riuscito a fare di sé qualcosa di simile a un martire della causa della libertà di espressione, ma perlopiù ciò dipende dal fatto che ha chiesto e ottenuto con successo asilo politico nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra nel 2012, per sottrarsi a un mandato di arresto europeo spiccato dalle autorità svedesi che volevano interrogarlo in relazione a presunte accuse di stupro.
Tutto questo lo ha ammantato di un’aura drammatica, molto telegenica, oltre ad alimentare teorie del complotto sull’autenticità o meno del mandato d’arresto svedese o sul loro presunto intervento per conto delle vendicative autorità americane.
L’immagine di Assange – una sorta di prigioniero politico perseguitato – gli ha attirato simpatie e sostegno in modo naturale, soprattutto nel clima caratterizzato da mille recriminazioni e infiniti sospetti all’indomani delle guerre in Iraq e in Afghanistan. In ogni caso, anche molti organi di informazione che avevano collaborato, pubblicando i documenti sottratti, sono entrati in vari contenziosi con lui, soprattutto in relazione alla possibilità che la loro pubblicazione potesse equivalere a mettere a rischio di assassinio o di incarcerazione persone qualsiasi.
La divergenza delle opinioni su Assange riflette alcune differenze di principio, ma anche il fatto che l’australiano è noto per il suo temperamento irritabile ed è in un certo senso alquanto egocentrico.
L’ascesa e la caduta di WikiLeaks, tuttavia, riflettono anche l’ascesa e la caduta di quello che potrebbe essere definito il fondamentalismo di Internet, di cui Assange si è voluto fare una sorta di sommo sacerdote.
Secondo il punto di vista dei fondamentalisti, nell’era di Internet l’informazione era destinata a diventare gratuita e aperta a tutti. Le origini di Assange – hacker negli anni Novanta, capace di introdursi in database segreti ed estrapolarne i contenuti da rivelare – lo hanno collocato naturalmente dalla parte della libertà e della piena divulgazione.
Così, quando Chelsea Manning, analista dell’intelligence degli Stati Uniti, ha passato a WikiLeaks un quantitativo enorme di documenti segreti americani, Assange ha voluto perseguire la strategia della massima diffusione per provocare il massimo imbarazzo alle autorità statunitensi.
Adesso, a quindici anni di distanza, l’intera faccenda non sembra più così semplice come pareva ai fondamentalisti di allora. Siamo circondati dalla disinformazione, e la trasparenza completa non sembra più un antidoto potente e fondamentale per l’eccessiva segretezza.
Le grandi fughe di notizie ci sono ancora, ma è sempre indispensabile soppesare nel miglior modo possibile i pro e i contro di una pubblicazione indiscriminata delle notizie e il danno sociale e individuale che potrebbero arrecare, proprio nello stesso modo di altre questioni connesse alla libertà di espressione, come la pornografia, la privacy e la diffamazione.
Che vi piaccia o meno come persona, Julian Assange ormai sembra un sommo sacerdote della cyberlibertà appartenente a un’altra epoca. Chelsea Manning, la donna trans che passò i documenti segreti a WikiLeaks è stata condannata a 35 anni di reclusione, sentenza poi commutata a sette anni dal presidente Barack Obama.
A prescindere da quali siano le vostre opinioni sulla questione della libertà di espressione, è ragionevole rallegrarsi del fatto che ad Assange sia stato garantito il diritto di presentare appello contro l’estradizione negli Stati Uniti, così da cercare di sottrarsi alla prospettiva di una condanna draconiana. In futuro, i presidenti potrebbero non essere compassionevoli come Obama.
* Traduzione di Anna Bissanti
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