Riflettere sulla crisi mondiale della democrazia muovendo dall’Italia – e utilizzando una formula recentemente coniata per far tacere le minoranze – non è provincialismo.
L’Italia, come si suole ripetere, è stata un laboratorio per la storia mondiale. Qui, infatti, nei primi vent’anni del Novecento, è stato elaborato il prototipo che sarà incessantemente perfezionato nei vari “modelli” che seguiranno, dal fascismo storico al nazismo tedesco (che si autodefiniva correttamente “fascista”) al peronismo, all’attuale dilagante sovranismo populista (da Trump a Putin, da Bolsonaro a Milei ecc.ecc.).
La storia ha messo alla prova il prototipo, stressandolo con crash test inimmaginabili, ma senza mai invertirne però la tendenza di fondo, piuttosto rettificandola, correggendola, adattandola al nuovo ambiente tecnologico, rendendola sempre più raffinata ed efficace. Possiamo chiamare “fascismo” questo fenomeno globale che chiude nell’angolo le “democrazie”. Va però tenuto sempre presente che con tale etichetta non si intende un “modello” o un “archetipo” ma, appunto, un prototipo o una tendenza. Solo i fascisti da baraccone che ogni anno si ritrovano a Predappio, indossando camicie nere e calzando improbabili copricapi, assumono il fascismo come un modello da ripetere.
I veri fascisti il fascismo invece non lo ripetono affatto ma lo continuano a creare in forme nuove, con un linguaggio diverso, con concetti adeguati ai tempi e con una violenza di nuovo tipo. Per questo non costerà loro molta fatica “dirsi, infine, antifascisti” come reclamano a gran voce i benpensanti di sinistra, quasi che bastasse una parola pronunciata al cospetto delle telecamere per cambiare di segno a un immane processo storico. E se lo faranno non sarà per malafede ma per onestà intellettuale.
Con tale ammissione, infatti, intenderanno in cuor loro una presa di distanza dagli errori compiuti nel passato nello sviluppare una tendenza che assecondano e che promuovono. Un prototipo è infatti per sua stessa natura gravido di errori e l’intelligenza dello sviluppatore consiste nel saperli riconoscere e nel correggerli.
Chi vuole realizzare praticamente un “sogno” deve negoziare con la realtà mettendo nel cassetto camicie nere, fez e manganelli insanguinati, anche se, riponendoli, non mancherà di rivolgere loro un ultimo sguardo nostalgico, come accade quando da adulti si ritorna con il ricordo agli errori commessi in gioventù per un eccesso di idealismo.
“I fascisti in Italia sono una trascurabile maggioranza” ridacchiava sornione Leo Longanesi nel dopoguerra. Leo Longanesi scriveva in una Italia molto diversa da quella attuale. Era l’Italia del neorealismo e della speranza, l’Italia generatasi con la sconfitta del fascismo storico, l’Italia dell’Arco Costituzionale e della conventio ad excludendum dei fascisti di Salò all’Almirante. Non c’è articolo della nostra Costituzione da cui non trapeli l’ansia di impedire materialmente il riaffiorare del fascismo.
Per certi aspetti la Costituzione è una sapiente macchina inibitoria di una tendenza latente e oscura di cui i “Padri della Patria”, molti dei quali venivano dalla Resistenza armata, erano perfettamente consapevoli. La si loda per il compromesso realizzato tra istanze liberali, cristiane e socialiste ma quel compromesso aveva la sua urgenza e la sua ragion d’essere nell’antifascismo militante.
E non è un certo un caso se proprio una revisione radicale della macchina costituzionale resti un obiettivo irrinunciabile per gli odierni sviluppatori del prototipo fascista.
Con il candore crudele della bambina della fiaba che dice quello che gli adulti non vogliono vedere (il “re è nudo!”), Longanesi esplicitava qualcosa che nella nuova Italia repubblicana e democratica doveva restare lungamente taciuto e che è indubbio merito del cinismo di Silvio Berlusconi, dopo la fine della Guerra Fredda, aver enunciato pubblicamente e trasformato in programma politico vincente.
Noi, ha detto una volta Berlusconi, parlando con ammirevole franchezza ai suoi accoliti, abbiamo sdoganato i fascisti, offrendo loro la chance di rientrare da protagonisti nell’arena politica. Per Berlusconi era una questione di voti e di coalizioni elettorali, che dovevano salvaguardare interessi economici particolari, ma lo “sdoganamento” ha prodotto effetti strutturali che vanno ben oltre la contingenza del momento.
Con i voti degli ex missini a tornare in campo era quella “maggioranza” che fino ad allora era rimasta sostanzialmente “trascurabile” perché, come pensava Longanesi, i tanti fascisti, gli indifferenti, i conformisti, nell’Italia del dopoguerra, si autocensuravano in omaggio a uno “spirito del tempo” che sembrava procedere in tutt’altra direzione.
La sociologa tedesca Elizabeth Noelle-Neumann, negli anni Settanta, riprendendo le considerazioni di Tocqueville sulla democrazia americana, ha battezzato questa autoesclusione “la spirale del silenzio”; ed è proprio questa spirale che la “discesa in campo” di Berlusconi nel ‘94 fa saltare in aria.
I benpensanti di sinistra trattano con sufficienza il populismo sovranista che si appresta a diventare maggioranza in Europa come nel resto del mondo occidentale. Ne constatano, allibiti, la potenza performativa, ma continuano bellamente a ignorarne la genesi ideale. Lo bollano come cripto fascista, senza comprendere che in quel “nuovo fascismo” batte un cuore molto “moderno” e molto “democratico”. Democrazia è potere fondato sul consenso.
Democratico è un esecutivo che sia espressione della volontà popolare. Parlare di “dittatura” per i vari Putin, Orban, Erdogan ecc. è quindi segno di una radicale incomprensione del fenomeno, se non addirittura di malafede. Il loro potere si basa sul consenso della maggioranza e svanisce, come neve al sole, non appena questo venga meno, quasi sempre per fattori esterni come guerre perse o disastri economici. E il consenso agognato, il consenso incessantemente ricercato, anche se prodotto con i mezzi della martellante propaganda, della paura e della menzogna, per essere un reale consenso, deve essere in ultima analisi un libero consenso.
È amaro doverlo riconoscere, ma questo valeva già per il fascismo storico (De Felice docet) come per il nazismo. Per questa sete inestinguibile di consenso il fascismo aspira sempre al plebiscito e confina il dissenso nell’ambito del non-umano e del criminale. Il costituzionalista del Nazismo, il citatissimo Carl Schmitt, non fissava forse nell’acclamazione da parte di una folla festante la sorgente della legittimazione del potere assoluto del Führer? Ciò che oggi fanno, ad ogni latitudine del pianeta, gli sviluppatori del prototipo fascista è allora aprirsi una via democratica per la realizzazione di un sogno antico.
All’acclamazione nazista sostituiscono un sapiente uso dei sondaggi dell’opinione pubblica, preventivamente mobilitata con fake news e paure immaginarie.
Il loro ossequio per la parola “democrazia” non è dunque di facciata. Basti pensare al ritornello che i suoi pifferai intonano a giustificazione di qualsiasi schifezza fatta a colpi di maggioranza: “è la democrazia, bellezza!” ribattono sistematicamente a chi denuncia l’ennesimo malaffare patrocinato dall’esecutivo. Non è dunque un deficit di coscienza democratica che deve essere loro rinfacciato, piuttosto un eccesso. Se poi, dopo una inattesa sconfitta elettorale, mandano degli scalmanati ad assediare il Parlamento non è per spregio della democrazia, ma perché si sentono interpreti della “volontà generale” che, come ha insegnato il padre della democrazia, Jean-Jacques Rousseau, non sempre coincide con la “volontà di tutti”.
Democrazia, si obietterà subito da parte liberale, non è solo questo. È anche l’insieme dei limiti posti all’esercizio del potere. Democrazia è la Costituzione e la separazione dei poteri, è la terzietà e l’indipendenza del potere giudiziario, non a caso sempre nel mirino dei sovranisti. Ma ciò che “muove” e che “commuove” negli slanci democratici è, in prima istanza, l’idea della autodeterminazione, vale a dire quella “sovranità del popolo” che è veramente l’irrinunciabile premessa del populismo ed è la ragione della sua virale diffusione. Si dirà da parte marxista che non è nient’altro che un mito, che non tiene conto dei condizionamenti materiali, della reale situazione di espropriazione quotidianamente vissuta dagli sfruttati, “padroni in casa propria” solo in modo immaginario, ma si trascura il fatto macroscopico che a “muovere” le masse sono sempre i “miti” e non le ragioni. Queste seguono e razionalizzano ciò che la forza instauratrice del mito ha reso possibile.
Gramsci se ne era reso conto nella fase di gestazione del fascismo storico e infatti voleva correggere il razionalismo asfittico dei compagni socialisti con una dose di pragmatismo e di volontarismo soggettivista che molto doveva a quegli stessi filosofi, Sorel in primis, che diventeranno i numi tutelari del Mussolini “rivoluzionario” interventista e prefascista. Va ricordato che il sindacalismo rivoluzionario soreliano – siamo nei primissimi anni del ‘900 – aveva coniugato sotto il vessillo del “mito” socialismo e nazionalismo (e, in parte, anche antisemitismo), suscitando l’entusiasmo della estrema destra francese che vi scorgeva la possibilità di sferrare finalmente un colpo mortale all’ordine liberal-democratico generatosi con la grande rivoluzione del 1789. Tutti i più innovativi concetti gramsciani nascevano dalla presa d’atto di questa situazione di crisi della democrazia liberale: non solo l’“egemonia culturale” e il “blocco storico”, ma anche, e direi soprattutto, la sua idea machiavellica del Partito come “Nuovo Principe”. Contrariamente a quello che generalmente si crede, Gramsci era consapevole del carattere intrinsecamente minoritario del socialismo e del carattere intrinsecamente maggioritario del suo avversario fascista. Una democrazia realizzata richiedeva perciò una minoranza agguerrita, dotata cioè di una metis, di una intelligenza pragmatica, che la rendesse atta a costruire come a sciogliere alleanze locali, a istituire blocchi sociali eterogenei, a governare processi, a osare arditi “compromessi” che fossero in grado non solo di arginare la tendenza avversa, ma di infletterla astutamente nella propria direzione. Ai materialisti dialettici che pensavano che la storia fosse regolata da una legalità inflessibile, Gramsci replicava che la politica è sperimentazione e che la matrice della società civile è la guerra di posizione. L’idea gramsciana di Partito ha qui la sua radice.
La cronica insofferenza per le minoranze degli sviluppatori del prototipo fascista è dovuta, in ultima analisi, al fatto che vi scorgono il loro nemico mortale. E hanno perfettamente ragione. Sono le minoranze che hanno realizzato la democrazia e sono le minoranze che possono salvarla dalla sua degenerazione populista. Inutile nascondersi dietro la retorica: la Resistenza è stata opera di una minoranza “militante”. La Carta costituzionale, la Repubblica, le libertà civili e i diritti sociali, sono stati i risultati di lotte guidate dall’intelligenza strategica di minoranze determinate. L’antifascismo, ancora oggi, resta di fatto la posizione di una minoranza. Va allora reinterpretata la martellante critica che i populisti fanno delle élites e dei “poteri forti”. Essa ha in realtà di mira proprio la capacità operativa delle minoranze di dettare la linea a dispetto della legge dei numeri. Che ci sia un potere che non passa attraverso il principio della numerosità, ma che è efficace per se stesso, perché intrinsecamente “giusto”, è intollerabile per il nuovo fascista. Alcuni semplici esempi di questo “potere” tratti dalla cronaca: il potere veritativo della scienza, la sua sovrana indifferenza ai desiderata del “popolo sovrano”; il potere di rettificare i comportamenti collettivi e di controllare l’uso del linguaggio (il “politicamente corretto”) da parte di minoranze agguerritissime (LGBQT+); il potere di spostarsi per cercare condizioni migliori di sopravvivenza, costi quel che costi; il potere di accogliere e di alleviare le sofferenze dei migranti e degli ultimi, un potere che risponde alla sola voce della coscienza e se ne infischia della volontà generale; la potenza di autodeterminazione del magistrato, infine, che risponde solo alla Legge e non al dettato dell’esecutivo. Tutte queste minoranze, con linguaggi diversi e sovente tra loro contraddittori, si mettono di traverso e producono una mitologia resistente e seducente, alternativa e conflittuale con quella del “popolo sovrano”.
La minoranza non va però confusa con un fatto contabile. Così la intendono e così la vorrebbero le maggioranze. Gilles Deleuze, un filosofo caro a tutti quelli che amano la libertà, diceva che la meta dell’azione delle minoranze non è diventare maggioranza, piuttosto infettarla, farla uscire dai cardini, resisterle e aggirarla. Aveva in mente quello che aveva prodotto il 68. Non aveva certo rovesciato il potere, ma aveva creato mille via di fuga, incrinandone la compattezza. Dopo quella stagione di sperimentazione collettiva i capisaldi dell’ordine, famiglia, Stato, religione, erano un po’ meno stabili. Alle minoranze credo che oggi si debba chiedere di essere consapevoli della loro potenza operativa, quella potenza che non fa dormire sonni tranquilli ai generali della Folgore. Devono resistere alla tentazione identitaria, alla semplice richiesta di riconoscimento e di tutela come minoranza, per diventare la “vecchia talpa” che scava sotto il terreno dove marcia il “popolo sovrano”.