Su Bari la sinistra si lecca le ferite ma gli scioglimenti sono “opera” loro… (ildubbio.news)

di Tiziana Maiolo

L’ANALISI

Dodici anni fa l’allora ministra Cancellieri, Governo Monti, sciolse per “contiguità” il comune della città sullo Stretto

Michele Emiliano dovrà farsene una ragione. Il sindaco di Bari Antonio Decaro, per quanto possa avere appuntata sul petto la stella fulgida di eroe dell’antimafia, non può rappresentare un’eccezione nell’applicazione di una legge che, per quanto illiberale, ha già determinato lo scioglimento di 379 consigli comunali e 7 aziende ospedaliere.

È una norma ingiusta, illiberale e devastante, ma piace molto soprattutto alla sinistra. E di recente, in modo sorprendente, anche a qualcuno del centrodestra. Non hanno nessuna rilevanza, quando i prefetti e il ministro dell’interno puntano il “sospetto” su un Comune, quando emettono una sorta di diagnosi arbitraria, né la buona reputazione del sindaco e degli amministratori, e neppure, per dirla con il ritornello di Michele Emiliano, che il vaso sia già in cocci.

Cioè che l’infiltrazione mafiosa sia già in atto. Perché la legge, voluta nel 1991 dall’ultimo governo Andreotti, ha previsto una misura di prevenzione, basata solo sul sospetto, su una previsione, anche la più evanescente. Ce lo dice la storia.

«È uno scioglimento per contiguità e non per infiltrazioni» mafiose, disse quel giorno del 2012 in una conferenza stampa a Palazzo Chigi la ministra dell’interno Anna Maria Cancellieri mentre condannava a morte la città di Reggio Calabria, primo capoluogo di provincia sciolto per decreto del governo. Governo Monti, tecnico a tendenza di sinistra.

Se il criterio è questo, potrebbe capitare anche a Bari, per ora solo oggetto di accesso agli atti da parte della commissione prefettizia già arrivata in città. Potrebbe capitare ed è inutile fare gli offesi. Anche nel caso di Reggio Calabria gli uomini della Dda avevano preso di mira una società di servizi partecipata del Comune e arrestato un consigliere.

Mai indagato per reati di mafia il sindaco di allora, Demetrio Arena. Che è stato poi assolto, undici anni dopo, «perché il fatto non sussiste» in un processo per falso in bilancio, cui lo scioglimento del Comune, come aveva precisato la ministra, era totalmente estraneo.

Comprensibile che il sindaco Decaro non gradisca l’ipotesi di avere la sorte del suo ex collega. E abbia messo un carico da novanta alla sua protesta, definendo la decisione del ministro Piantedosi un «atto di guerra» e poi aggiungendo lacrime e alti lai, compresa la mossa demagogica dell’annuncio di rinuncia alla scorta. Normale essere sconvolto.

Ma il sindaco deve anche sapere che Bari non è una città speciale, come lo è stata Roma ai tempi di quella “mafia capitale” che poi mafia non era. E il suo mentore, il governatore Emiliano, deve sapere che neppure la toga che lui ha sempre nel cuore e nello status, può giustificare atteggiamenti arroganti fino a concedersi visite alla sorella del boss per “affidarle” il pupillo Decaro. E poi raccontarlo in piazza come fossero barzellette. Ci spieghi magari, sempre nel nome dell’antimafia, in che cosa consistesse quell’affidamento.

Quando fu sciolto il comune di Reggio Calabria, il segretario del Pd si chiamava Pierluigi Bersani, quello che non è mica lì a pettinar le bambole. Disse subito di esser preoccupato per «le infiltrazioni delle organizzazioni criminali», proprio dopo che la ministra Cancellieri aveva precisato che il sospetto era quello di «contiguità» e non di «infiltrazioni».

E il leader di Sel Nichi Vendola aveva sottolineato «quanto la cattiva politica in contiguità con la ‘ ndrangheta abbia soffocato il passato e soffochi il presente e il futuro di questa terra meravigliosa». Nessuno di loro si era preoccupato di sottolineare il fatto che né al sindaco né agli amministratori veniva addebitata alcuna responsabilità penale né il sospetto di “contiguità” con ambienti mafiosi. Sarebbe stato giusto farlo allora, come è giusto ora. Forse il sindaco Arena era allora meno per bene o meno apprezzato dai cittadini di quanto non lo sia oggi Antonio Decaro?

Il sistema di prevenzione è un vero mostro giuridico, che concede ai prefetti un potere enorme, che consente loro di agire in situazione di totale discrezionalità anche in presenza di sensazioni fluide, evanescenti, il famoso “odore di mafia” nell’aria. I Comuni o le aziende presi di mira non hanno inoltre nessuna possibilità di difendersi, non esiste contraddittorio, ma solo “accesso agli atti”.

Che vuol dire: io ti do le carte, tu emetti la sentenza. Se a questo si aggiunge il fatto che il sindaco è un eletto e che i prefetti non consultano certo i cittadini prima di cacciarlo, la forzatura antidemocratica appare evidente. Anche se celebrata nel nome dell’insindacabile sacralità della politica “antimafia”.

Ora il governatore Emiliano, che ha voluto mettere il suo corpo e il peso della propria storia giudiziaria e politica a capo di quella piazza che ha protestato per l’affronto subito dal suo sindaco, dovrà ammettere che c’è stata molta distrazione su quel che stava succedendo. Non tanto la distrazione invocata dalla Dda e dal ministro da parte dell’amministrazione su quella società controllata dal Comune che ha portato alle indagini e ai 130 arresti. Ma a quel che è accaduto prima.

Prima che la bomba arrivasse a Bari. Quanti chilometri, soprattutto nel sud d’Italia, ha percorso la bomba, a colpire sindaci e comuni prima che qualcuno se ne accorgesse? L’associazione dei comuni italiani, l’Anci presieduta da Antonio Decaro, per esempio. Non è stata un po’ distratta?

Ci voleva Bari, per uscire dalla disattenzione? E non sarebbe importante oggi che i partiti della maggioranza e quelli dell’opposizione, lasciassero la squallida gara a chi presenta più interdittive agli avversari politici e si coalizzassero al contrario per cambiare questa legge illiberale che non conviene a nessuno?

Giace nei cassetti del Parlamento ancora la proposta di legge di Enza Bruno Bossio della scorsa legislatura. Se c’è ancora alla Camera o al Senato un liberale, anche uno solo, la tiri fuori dalla polvere e la ripresenti, per favore. O un’altra analoga.

Nel nome dello Stato di diritto, che è più importante del «prendiamoci Bari» così come del «giù le mani da Bari, che è roba nostra».

Assange, il fondamentalista di Internet nella trappola della propaganda (lastampa.it)

di BILL EMMOTT

L’ex hacker australiano sognava la trasparenza 
assoluta e il Web gratuito. 

Ma ha finito per ostacolare il giornalismo d’inchiesta e favorire le fake news

L’epica vicenda giudiziaria di Julian Assange ha sempre provocato dissensi anche tra i giornalisti, nella terra da cui proviene, l’Australia, e in Gran Bretagna e in America dove lui e la sua creazione del 2006, WikiLeaks, hanno fatto il grosso del loro lavoro. La pubblicazione da parte sua nel 2010 di un cospicuo faldone di documenti diplomatici statunitensi riguardanti le guerre in Iraq e in Afghanistan ne hanno fatto un eroe della libertà di parola e della responsabilità democratica?

Oppure l’indiscriminata e sconsiderata pubblicazione da parte sua di quelle soffiate ha provocato morti non necessarie e arrecato danni a persone innocenti, rendendo di conseguenza molto più complesso il compito del vero giornalismo d’inchiesta?

Questo ragionamento, e l’intera controversia che circonda Assange, solleva la domanda di fondo più importante di tutte in relazione alla nostra adorata libertà di parola e di espressione. La domanda è se libertà significa che siamo tutti liberi di dire e pubblicare tutto quello che ci piace, a prescindere dalle conseguenze, o se debba invece esistere un limite a tale libertà, se questa deve continuare a essere rispettata e accettata dai più. Siamo esseri sociali, e di conseguenza gli effetti delle nostre azioni sugli altri e sulla società devono essere tenuti in debita considerazione.

Certo, Assange è riuscito a fare di sé qualcosa di simile a un martire della causa della libertà di espressione, ma perlopiù ciò dipende dal fatto che ha chiesto e ottenuto con successo asilo politico nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra nel 2012, per sottrarsi a un mandato di arresto europeo spiccato dalle autorità svedesi che volevano interrogarlo in relazione a presunte accuse di stupro.

Tutto questo lo ha ammantato di un’aura drammatica, molto telegenica, oltre ad alimentare teorie del complotto sull’autenticità o meno del mandato d’arresto svedese o sul loro presunto intervento per conto delle vendicative autorità americane.

L’immagine di Assange – una sorta di prigioniero politico perseguitato – gli ha attirato simpatie e sostegno in modo naturale, soprattutto nel clima caratterizzato da mille recriminazioni e infiniti sospetti all’indomani delle guerre in Iraq e in Afghanistan. In ogni caso, anche molti organi di informazione che avevano collaborato, pubblicando i documenti sottratti, sono entrati in vari contenziosi con lui, soprattutto in relazione alla possibilità che la loro pubblicazione potesse equivalere a mettere a rischio di assassinio o di incarcerazione persone qualsiasi.

La divergenza delle opinioni su Assange riflette alcune differenze di principio, ma anche il fatto che l’australiano è noto per il suo temperamento irritabile ed è in un certo senso alquanto egocentrico.

L’ascesa e la caduta di WikiLeaks, tuttavia, riflettono anche l’ascesa e la caduta di quello che potrebbe essere definito il fondamentalismo di Internet, di cui Assange si è voluto fare una sorta di sommo sacerdote.

Secondo il punto di vista dei fondamentalisti, nell’era di Internet l’informazione era destinata a diventare gratuita e aperta a tutti. Le origini di Assange – hacker negli anni Novanta, capace di introdursi in database segreti ed estrapolarne i contenuti da rivelare – lo hanno collocato naturalmente dalla parte della libertà e della piena divulgazione.

Così, quando Chelsea Manning, analista dell’intelligence degli Stati Uniti, ha passato a WikiLeaks un quantitativo enorme di documenti segreti americani, Assange ha voluto perseguire la strategia della massima diffusione per provocare il massimo imbarazzo alle autorità statunitensi.

Adesso, a quindici anni di distanza, l’intera faccenda non sembra più così semplice come pareva ai fondamentalisti di allora. Siamo circondati dalla disinformazione, e la trasparenza completa non sembra più un antidoto potente e fondamentale per l’eccessiva segretezza.

Le grandi fughe di notizie ci sono ancora, ma è sempre indispensabile soppesare nel miglior modo possibile i pro e i contro di una pubblicazione indiscriminata delle notizie e il danno sociale e individuale che potrebbero arrecare, proprio nello stesso modo di altre questioni connesse alla libertà di espressione, come la pornografia, la privacy e la diffamazione.

Che vi piaccia o meno come persona, Julian Assange ormai sembra un sommo sacerdote della cyberlibertà appartenente a un’altra epoca. Chelsea Manning, la donna trans che passò i documenti segreti a WikiLeaks è stata condannata a 35 anni di reclusione, sentenza poi commutata a sette anni dal presidente Barack Obama.

A prescindere da quali siano le vostre opinioni sulla questione della libertà di espressione, è ragionevole rallegrarsi del fatto che ad Assange sia stato garantito il diritto di presentare appello contro l’estradizione negli Stati Uniti, così da cercare di sottrarsi alla prospettiva di una condanna draconiana. In futuro, i presidenti potrebbero non essere compassionevoli come Obama.

* Traduzione di Anna Bissanti

Leggi anche: Mosca sul caso Assange, ‘i tribunali Gb sono una farsa’

Putin e l’Occidente: errori e bugie (corriere.it)

di Federico Rampini
Aveva appena celebrato un voto che sembrava 
confermare la solidità del suo potere assoluto, 
e di colpo è apparso come un leader che non ha il controllo della situazione, non sa garantire la sicurezza del suo Paese

L’uomo dei servizi segreti è stato tradito dalle sue spie? Vladimir Putin viene dal Kgb, l’intelligence dell’Unione sovietica, fu quello il suo trampolino verso il potere politico. È sconcertante la lunga serie di fallimenti recenti dei suoi servizi segreti. Nel febbraio 2022, mentre lo Zar negava pubblicamente di voler invadere l’Ucraina, l’intelligence americana annunciava il suo attacco imminente: segno che a Mosca ci sono «talpe» pronte a tradire Putin?

Poi lo Zar fu colto di sorpresa dalla clamorosa rivolta della Divisione Wagner. Infine l’ultimo smacco, il più tragico per le sue conseguenze. L’intelligence Usa aveva avvisato Putin del rischio imminente di attentati dell’Isis. Lui non solo aveva ignorato l’avviso, ma lo aveva platealmente sbeffeggiato. In un discorso pubblico che i russi oggi sicuramente ricordano, aveva liquidato quella preziosa informazione americana come un «ricatto», un tentativo di guastargli la festa della rielezione.

La strage di Mosca è avvolta da troppi misteri. Putin aveva appena celebrato un voto che sembrava confermare la solidità del suo potere assoluto, e di colpo è apparso come un leader che non ha il controllo della situazione, non sa garantire la sicurezza del suo Paese.

In una Russia che ormai lui dichiara ufficialmente «in guerra», e dopo gli avvertimenti Usa, lascia sconcertati l’assenza di poliziotti al concerto preso di mira dall’Isis. La stessa polizia russa pronta ad arrestare un’anziana signora che manifesta dissenso con un innocuo foglio bianco, non c’era quando un commando di terroristi è entrato in azione per fare una carneficina. Putin da parte sua ha atteso ben 19 ore prima di apparire in tv per parlare alla nazione. Hanno reagito con più tempestività tanti leader occidentali, intervenuti a esprimere cordoglio e solidarietà.

Ora Putin cerca di rimediare al proprio terribile fallimento con le bugie. Il tentativo di collegare in qualche modo l’Isis all’Ucraina è ignobile oltre che insostenibile.

Però la Russia è «in guerra», da qualche giorno lo dice proprio lui, uscendo dall’ambiguità ipocrita della «operazione militare speciale» con cui aveva descritto a lungo la sua aggressione contro una nazione libera e indipendente. L’orrore della strage, la sofferenza atroce inflitta a tanti innocenti, l’umiliazione patita da Putin, verranno gestite in questo nuovo clima marziale.

Lo Zar anche stavolta farà pagare ad altri i suoi errori.
Nella sua paranoia, chissà come Putin rivisita la decisione dell’Amministrazione Biden, poi imitata da altri governi occidentali, di avvertirlo sui rischi di attentati? Quali teorie del complotto starà rimuginando, per assolversi oppure per indottrinare il suo popolo? Che cosa inventerà per collegare all’Ucraina dei jihadisti le cui basi sono ben lontane da Kiev, in Afghanistan?

La soffiata di Washington, che avrebbe potuto salvare tante vite innocenti se fosse stata ascoltata, ha in realtà una spiegazione molto razionale. L’America sta cercando da tempo una via d’uscita dal conflitto ucraino. Una soluzione puramente militare — anche quando ci si illudeva sulle «controffensive» annunciate da Zelensky — non fu mai considerata sufficiente; soprattutto dai maggiori esperti di guerra cioè i vertici del Pentagono (basta rileggersi cosa diceva in pubblico l’allora capo di stato maggiore generale Mark Milley nel settembre 2023).

L’offerta di un aiuto concreto e prezioso a Putin sul terreno dell’anti-terrorismo, rientrava in questa logica: trovare dei terreni di cooperazione, dei canali di dialogo, pur evitando di «svendere» il popolo ucraino all’aggressore.

La politica estera si fa anche in questo modo. Un’America che spesso descriviamo inadeguata — in Medio Oriente e altrove — o alla vigilia di un’Apocalisse elettorale il 5 novembre, continua in realtà ad applicare una certa razionalità alla sua azione internazionale.

Così fa l’Occidente nel suo insieme. Offrire informazioni a Putin per prevenire un massacro di civili russi era al tempo stesso la cosa giusta da fare eticamente, e l’azione più astuta politicamente. È tragico che lui l’abbia trasformata in un’altra occasione di risentimento, sospetti, odio.

D’altronde gli americani stavolta si sono ricordati del «miglior Putin» (prima della deriva paranoica, prima della sindrome patologica da «accerchiamento»): colui che agli albori della sua carriera da presidente offrì sincera cooperazione agli Stati Uniti contro Al Qaeda subito dopo l’11 settembre 2001. Era logico allora, resta logico oggi, fare fronte comune contro un nemico che ci vede tutti uguali.

Perché il mondo osservato attraverso il fanatismo islamista dell’Isis è molto diverso da come lo rappresentiamo noi. L’Isis fece strage due mesi fa in Iran: colpevole di essere sciita. A Putin non perdona l’appoggio che fornisce al regime di Assad, o la guerra in Cecenia. Tutti siamo nel mirino, dobbiamo stare in guardia e tornare ai massimi livelli di vigilanza.

Alla Russia fu offerto un ramoscello d’ulivo e un avviso salva-vita, averlo ignorato si aggiunge al lungo elenco dei crimini di Putin contro l’umanità: inclusa la sua popolazione.

Il governatore toscano: “L’ex direttore di Avvenire non è la persona giusta per il nostro territorio” (quotidiano.net)

di David Allegranti

Il presidente della Toscana, Eugenio Giani, 
sostiene l'apertura delle liste elettorali del 
Pd alla società civile per le Europee, 

escludendo la possibile candidatura di Marco Tarquinio e sottolineando il valore di altri potenziali candidati.

Esprime preoccupazione per la possibile esclusione dalla rielezione della vicepresidente del Parlamento Ue Pina Picierno.

Ècorretto aprire le liste elettorali del Pd alla società civile, dice a Qn Eugenio Giani (nella foto), presidente della Toscana: “Un fatto positivo; serve il giusto mix fra persone che hanno esperienza politica e persone che raccolgano sensibilità provenienti dalla società”, dice parlando della composizione della prossima squadra di candidati alle Europee.

Con un paletto, però, individuato: il no alla possibile candidatura di Marco Tarquinio, ex direttore di Avvenire, proprio nella circoscrizione dell’Italia Centrale. “Tarquinio? Ritengo che in questo collegio ci siano già persone in grado di rappresentarlo. Da Dario Nardella a Nicola Zingaretti, alla stessa segretaria Elly Schlein. Ci sono poi Matteo Ricci e Alessia Morani. Il Pd eleggerà probabilmente 4 eurodeputati e queste persone sarebbero già un valore positivo per il nostro territorio”.

Oltretutto, Giani dice di non aver condiviso le posizioni di Tarquinio sull’Ucraina, “che sta combattendo una battaglia per la democrazia e per l’Europa”. Anzi, il presidente della Toscana è preoccupato che resti fuori dall’Europarlamento proprio una persona che, su questo fronte, è stata in prima linea: la vicepresidente del Parlamento Ue Pina Picierno.

“È giovane e ha tanto da dare all’Europa, sarebbe un errore se non venisse rieletta”. Una partita complessa, quella di Picierno, visto che la circoscrizione dell’Italia meridionale potrebbe essere affollata quanto quella centrale, tra Lucia Annunziata, Antonio Decaro e Sandro Ruotolo.

Lia Quartapelle: “Tarquinio candidato tra i dem? Se il Pd vuole cambiare rotta lo dica” (huffingtonpost.it)

In un post la dem commenta la possibilità che 
il giornalista corra tra le fila del suo partito

“Tra le cose che leggiamo sui giornali, ormai da mesi, sulle liste per le elezioni europee, si ventila anche la possibilità che Marco Tarquinio, giornalista esperto e opinionista dalle posizioni nette e note, venga candidato dal Pd.

I giornali sottolineano sia la sua linea contraria all’autodifesa dell’Ucraina, sia le affermazioni a sostegno della famiglia tradizionale e contro il diritto di abortire in modo sicuro … leggi tutto