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I repubblicani negli Stati Uniti non hanno sempre portato “anni di pace”, come dice Salvini (pagellapolitica.it)

di CARLO CANEPA

LA DICHIARAZIONE
«Gli anni di governo dei repubblicani a Washington sono sempre coincisi con anni di pace e di prosperità»
FONTE: YOUTUBE | 23 MARZO 2024

Il 23 marzo, intervenendo all’evento Winds of change organizzato dal suo partito, il leader della Lega Matteo Salvini si è augurato che Donald Trump vinca le elezioni presidenziali statunitensi di novembre 2024. «Mancano pochi mesi a una grande occasione di rilancio di pace, giustizia e benessere anche negli Stati Uniti», ha detto Salvini, che ha giustificato la sua posizione dicendo che quando gli Stati Uniti sono stati governati dai repubblicani, ci sono sempre stati «anni di pace e di prosperità».

Salvini ha fatto (min. 10:47) una dichiarazione simile il giorno dopo, nel suo intervento di chiusura della “Scuola di formazione politica” della Lega. «Mi auguro con tutto me stesso» che «tornino a governare i repubblicani negli Stati Uniti, perché quando governano i democratici c’è guerra», ha detto il vicepresidente del Consiglio.

Già più di due anni fa Salvini aveva sostenuto la stessa tesi: «Guarda caso, quando governano i repubblicani negli Stati Uniti viviamo anni di pace, quando vincono i democratici, che teoricamente sono i pacifisti di sinistra, boom! E partono le bombe, riparte la guerra», aveva detto il leader della Lega a giugno 2022 ospite di Dritto e rovescio su Rete 4.

Mettendo da parte il riferimento agli «anni di prosperità», un’espressione vaga e generica, abbiamo controllato se è vero che i presidenti repubblicani degli Stati Uniti non hanno mai iniziato o portato avanti guerre, come sostiene Salvini. In breve: quello che dice il leader della Lega non è vero.

Le guerre dei presidenti repubblicani

Due delle guerre principali che hanno visto coinvolti gli Stati Uniti dal 2000 in poi sono state la guerra in Afghanistan e la guerra in Iraq.

Entrambi i Paesi sono stati invasi dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, rispettivamente nel 2001 e nel 2003, quando il presidente degli Stati Uniti era George W. Bush. Bush è stato il quarantatreesimo presidente degli Stati Uniti, è stato eletto presidente per due mandati consecutivi, dal 2001 al 2009, ed è un rappresentante del Partito Repubblicano.

Bush è il figlio di George H. W. Bush, altro presidente repubblicano che ha governato gli Stati Uniti dal 1989 al 1993. Nel 1991 Bush ha dato il via alla guerra del Golfo, in risposta all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, guidato da Saddam Hussein. Hussein è stato poi catturato nel 2003, durante la guerra in Iraq, ed è stato giustiziato tre anni più tardi.

Secondo i numeri del Dipartimento della Difesa statunitense, nella guerra in Iraq sono morti oltre 4.400 soldati statunitensi, mentre nella guerra in Afghanistan i morti tra i soldati statunitensi sono stati più di 2.300. Per avere un ordine di grandezza, la sola guerra in Afghanistan è costata agli Stati Uniti più di 2.300 miliardi di dollari.

Secondo le stime del Watson Institute for International and Public Affairs della Brown University (Rhode Island), ai quasi 7 mila militari statunitensi morti nelle due guerre vanno aggiunti anche più di 250 mila civili rimasti uccisi nei bombardamenti e negli scontri.

Andando indietro nel tempo, anche altri presidenti repubblicani hanno iniziato conflitti o mandato truppe statunitensi in altri Paesi, come mostra un dettagliato report del Congressional Research Service, un centro di ricerca del Congresso degli Stati Uniti. Uno degli esempi più famosi è quello del 1983, quando il presidente repubblicano Ronald Reagan ordinò l’invasione e l’occupazione di Grenada, un’isola dei Caraibi, per rovesciare il governo del militare Hudson Austin.

Negli scorsi anni è stato lo stesso Donald Trump, in varie occasioni, a sostenere di essere stato l’unico presidente degli Stati Uniti in più di 70 anni a non essere coinvolto in «nessuna guerra». Le cose però non stanno così, come ha spiegato lo scorso gennaio un fact-checking del Washington Post.

Per esempio il democratico «Jimmy Carter, presidente dal 1977 al 1981, non solo non dichiarò mai formalmente guerra né chiese al Congresso l’autorizzazione all’uso della forza durante la sua presidenza, ma i registri militari mostrano che non un solo soldato morì in azioni ostili durante la sua presidenza», ha sottolineato il Washington Post.

Da parte sua, Trump ha intensificato l’intervento militare statunitense in Iraq e in Siria, contro i terroristi dell’Isis, e a gennaio 2020 ha ordinato l’uccisione del potente generale iraniano Qasem Soleimani, morto dopo essere stato colpito da un attacco missilistico statunitense. Un paio di mesi prima, a ottobre 2019, un attacco missilistico statunitense aveva ucciso in Siria l’allora leader dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi.

Il verdetto

Secondo Matteo Salvini «gli anni di governo dei repubblicani a Washington sono sempre coincisi con anni di pace e di prosperità». Quello che dice il leader della Lega non è corretto.

Solo per citare alcuni esempi, dal 2001 in poi il presidente repubblicano George W. Bush ha iniziato le guerre in Afghanistan e in Iraq. Suo padre, anche lui repubblicano, iniziò la guerra nel Golfo nel 1991.

MATTEO SALVINI

Europee e i pacifisti a doppio taglio: Vannacci e Tarquinio agitano Lega e Pd, Raggi e Di Battista più ‘spericolati’ di Conte (ilriformista.it)

di Giulio Baffetti

I piani per le elezioni di giugno

Le loro posizioni sull’Ucraina preoccupano i moderati di Salvini e i riformisti di Schlein. Nel M5S Raggi e Di Battista in pressing per il post voto

Quanto vale il voto dei cosiddetti pacifisti? In che misura influiranno sul risultato delle elezioni europee le opinioni degli italiani che non vogliono più l’invio di armi all’Ucraina invasa dalla Russia di Vladimir Putin? Non sono soltanto i sondaggisti a porsi queste domande.

La corsa a compiacere quella parte di elettorato che sta virando sempre di più verso l’equidistanza con Mosca coinvolge quasi tutti i partiti. La Lega e il M5s, innanzitutto. Ma anche il Pd di Elly Schlein. Con una competizione a sinistra che si è fatta più serrata dopo l’annuncio della discesa in campo della lista pacifista di Michele Santoro. Il movimento del giornalista, secondo la rilevazione del 25 marzo di Swg per il TgLa7, all’esordio è quotato all’1,6%. Per molti osservatori si tratta di una performance ragguardevole.

Una spia di ciò che si muove nell’opinione pubblica. Perciò le forze politiche fanno a gara a corteggiare personalità dall’impronta pacifista, di sicuro non strenui sostenitori della resistenza ucraina contro l’invasore. Una corsa che rischia di turbare gli equilibri interni alle coalizioni e agli stessi partiti. La cronaca impone di partire dalla dialettica dentro il Pd.

Al Nazareno ieri si è riunita la segreteria nazionale. All’ordine del giorno c’erano le candidature per le prossime elezioni europee. Un quadro complesso da definire per la segretaria. Che deve fare i conti con il mantenimento di un fragile equilibrio tra le correnti. E anche in questo caso la divaricazione più evidente è proprio sulla politica estera. Segnatamente sulla guerra in Ucraina.

I ‘pacifisti’ dem per coprire l’emorragia a sinistra

I riformisti più vicini a Kiev corrono il rischio di essere penalizzati nella composizione delle liste, a beneficio di candidati in grado di attirare gli agognati voti pacifisti, nel tentativo di coprire l’emorragia a sinistra verso il M5s, Alleanza Verdi e Sinistra e il cartello elettorale di Santoro. Così, tra i possibili capolista, si fanno largo i nomi di Sandro Ruotolo, che dell’ex conduttore antiberlusconiano è stato collaboratore per molti anni e ora fa parte della segreteria nazionale dem.

Poi c’è Cecilia Strada, figlia di Gino, fondatore di Emergency. Ed è scoppiato un caso sul nome di Marco Tarquinio, ex direttore di Avvenire. Infatti, se Strada, pur da una posizione pacifista, si è mantenuta su una linea più morbida del tipo «inviare armi non è l’unica opzione», il giornalista è decisamente contrario agli aiuti militari all’Ucraina.

Per questo motivo non dovrebbe correre come capolista. In ogni caso, nel Pd, si confrontano due orientamenti opposti. Quello dei riformisti come l’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini, della deputata Lia Quartapelle o dell’europarlamentare uscente Pina Picierno, graniticamente al fianco di Kiev. E quello dei vari Ruotolo, Strada, Tarquinio, pronti a candidarsi alle europee di giugno.

La Lega divisa su Vannacci

Seppur con sfumature e proporzioni diverse, si registra una dinamica per certi versi simile all’interno della Lega. C’è il segretario Matteo Salvini, che ogni giorno alza l’asticella, fino alla contiguità con il Cremlino. Salvini non ha espresso dubbi sulla regolarità delle elezioni farsa in Russia. Il leader leghista ha bollato il presidente francese Emmanuel Macron come un “pericoloso guerrafondaio”, dopo che il numero uno dell’Eliseo aveva aperto alla possibilità di inviare truppe occidentali in Ucraina.

Per questa ultima frase il vicepremier e ministro delle Infrastrutture si è beccato un controcanto netto da parte di Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli Venezia Giulia, espressione di un Carroccio più moderato e più lontano dalle intemperanze della destra radicale filo-Putin. “Macron non è un pericoloso guerrafondaio”, ha detto Fedriga lunedì in un’intervista a Il Messaggero Veneto e Il Piccolo.

E se nel Pd impazza il caso Tarquinio, a Via Bellerio tiene banco il caso Vannacci. Che è Roberto, il generale autore del discusso bestseller Il Mondo al Contrario, accusato di omofobia e razzismo.

Ma non solo: non mancano le ombre sul periodo trascorso da Vannacci a Mosca, dove è stato addetto militare dell’ambasciata italiana dal febbraio del 2021 a maggio del 2022.

Per fermare la disinformazione serve un’agenzia ad hoc. Parla Borghi (Iv) (formiche.net)

di Gabriele Carrer

Il senatore di Italia Viva e membro del Copasir 
propone un terzo servizio sotto il Dis, oltre 
ad Aise e Aisi, che si occupi di sicurezza 
cognitiva. 

“Nessuno scenario orwelliano, dobbiamo modernizzare gli strumenti a tutela della corretta e libera informazione”, spiega. Con la presentazione del disegno di legge “vogliamo aprire il dibattito, siamo aperti al confronto anche sulle forme di organizzazione”, aggiunge

All’Italia serve un’agenzia per la disinformazione e la sicurezza cognitiva. Ne è convinto Enrico Borghi, capogruppo di Italia Viva in Senato e membro del Copasir, che oggi ha presentato un disegno di legge in merito.

Dove si dovrebbe collocare l’agenzia nell’architettura istituzionale italiana e con quali funzioni?

Il disegno di legge prevede una nuova agenzia d’informazione, da affiancare ad Aise e Aisi sotto il coordinamento del Dis, che si occupi di disinformazione e sicurezza cognitiva, con la funzione di monitorare e interpretare l’andamento dei fenomeni di disinformazione per consegnare a governo e parlamento, secondo le forme previste dalla legge 124 del 2007, la fotografia di ciò che accade. Ma siamo aperti al confronto anche sulle forme di organizzazione, che possono essere diverse, prendendo anche in considerazione un’agenzia fuori intelligence ma comunque alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei ministri.

Anche alla luce della velocità dell’informazione e delle capacità di reattività richieste a chi si occupa di fact-checking, che esposizione pubblica dovrebbe avere l’agenzia contro la disinformazione?

La risposta sta nel dibattito che intende aprire. Su questo, anche il contributo dei professionisti di giornalismo e comunicazione è importante. Lo strumento deve consentire alla moneta buona di scacciare quella cattiva, considerato che quest’ultima, la disinformazione, ha minori costi e maggiori opportunità del giornalismo tradizionale. Sapere che è in atto un’attività pianificata e ostile di diffusione di notizie false può consentire anche, nella libertà e nell’autonomia dell’editoria, di compiere scelte che siano coerenti con rispetto del principio di verità.

Non pensa che una simile struttura finisca per essere considerata una sorta di agenzia della verità di sovietica memoria?

È il rischio che dobbiamo assolutamente evitare e nel disegno di legge non viene alcuna competenza censoria. Al contrario, credo che una struttura pubblica a garanzia della sicurezza delle comunicazioni si debba fondare sul principio della libertà stampa e sull’articolo 21 della Costituzione, e per qualche misura esserne complemento e corredo. “Una cosa di cui i pesci non sanno assolutamente niente è l’acqua”, diceva Marshall McLuhan: oggi siamo immersi, come i pesci, dentro un flusso informativo continuo di cui non sappiamo nulla. Sappiamo che qualcuno può inquinare l’acqua in cui viviamo, ora serve trovare il modo per depurarla.

Come?

La tutela della libertà stampa e il rispetto della deontologia professionale dei giornalisti sono due risposte. Un’altra è dettata dall’esigenza di identificare gli agenti dell’inquinamento comunicativo. Un’agenzia simile non ha nulla a che fare con scenari orwelliani. È semplicemente la risposta all’esigenza di modernizzare gli strumenti a tutela della corretta e libera informazione considerato che le competenze in materia di disinformazione, di AgCom e delle attuali agenzie d’informazione, sono limitate e parziali. Nel testo, comunque, le autorità preposte all’intervento a valle rimangono quelle indipendenti.

C’è un precedente poco felice, quello degli Stati Uniti: il Consiglio per la governance della disinformazione del dipartimento della Sicurezza interna degli Stati Uniti ha avuto un direttore (Nina Jankowicz) per meno di un mese, nel 2022, per poi essere stoppato. Un altro rischio è quello di rendere l’agenzia un parafulmine?

Il rischio c’è, ma si tratta di capire che tipo di funzione attribuire a questa agenzia. Con questo disegno di legge vogliamo aprire un dibattito nel Paese e siamo aperti a qualsiasi possibilità di approfondimento e miglioramento, anche sull’organizzazione. Dobbiamo fare tesoro di tutte le esperienze nel mondo occidentale, come l’agenzia per la difesa psicologica in Svezia, Viginum in Francia che è posta nell’ufficio del primo ministro. Ma anche quella americana, per non commettere gli stessi errori.

Come si integra la nascita di questa agenzia con la necessità di una strategia che affronti tutti i vettori dell’influenza esterna come, solo per fare un esempio, le penetrazioni economica e accademica?

Con due risoluzioni distinte, il Parlamento europeo ha evidenziato il tema delle ingerenze straniere nei confronti delle democrazie occidentali e quello delle ingerenze russe in occasione delle prossime elezioni europee. È necessario dotarsi a livello nazionale di strumenti per tutelarsi da questi rischi, nella consapevolezza che la disinformazione è un tassello di una guerra ibrida combattuta su vari livelli e con vari strumenti che soltanto all’apparenza sono sganciati tra loro. Serve la consapevolezza che le attività ostili verso l’Occidente vengono portate avanti con modalità diverse da attori distinti che però hanno un obiettivo comune: renderci subalterni.

Ovvero?

Vediamo una posizione ostile e bellica da parte della Russia. Una simile posizione da parte dell’Iran ma attraverso i proxy come gli Houthi. E un’attività ostile silenziosa da parte cinese, che porta avanti una colonizzazione economica endemica e attacchi silenziosi ma mirati, di cui anche io sono stato vittima. E ahimè c’è chi, come Massimo D’Alema, va in Cina a magnificare la leadership del Partito comunista cinese mentre lo stesso conduce queste attività ostili nei confronti dei rappresentanti del suo Paese, che ha anche servito come presidente del Consiglio.

Il vero nemico di Ilaria Salis è suo padre Roberto (italiaoggi.it)

di Domenico Cacopardo

Il caso è politico e può essere risolto più 
facilmente senza fare troppo chiasso. 

La sua scomposta agitazione complica la soluzione del caso

Il caso di Ilaria Salis sembra impantanato sull’arenile profondo degli errori e delle ingenuità poste in essere da varie parti, in particolare da suo padre. Riavvolgiamo la pellicola e torniamo al punto.

Può essere Ilaria Salis l’aggressore di un nutrito gruppo di neonazisti, pronti a menare le mani? Anche se con lei c’erano un altro paio di italiani, potevano essere ritenuti un pericolo per il raduno dei nazisti di mezza Europa che Viktor Orban si onora di ospitare ogni anno? Sembra una barzelletta, visto lo schieramento di polizia a protezione dei neonazisti, una tutela completa e insuperabile oltre che chiaramente orientata a favore dei partecipanti al raduno.

La messa in scena orchestrata da Orbàn

Prima di compiere il passo successivo, dobbiamo ricordare a noi stessi e ai tanti che si stanno occupando di lei, a sinistra e a destra, che secondo le regole in vigore in Europa, finché non sarà stata condannata per turbativa di manifestazione(?) o per aggressione (??) Ilaria Salis è da considerare innocente in attesa di giudizio.

E poiché entrambi i reati di cui si parla non sono così gravi da rendere necessaria una detenzione preventiva di oltre un anno e l’attesa di un ulteriore anno per il processo, risulta evidente che questa messa in scena del regime autoritario e liberticida di Budapest è una messa in scena decisa di certo per il motivo di far vedere al mondo libero che con il despota ungherese non si scherza, come non si scherzava un tempo con le Croci Frecciate, e forse anche per un motivo in più, sottile e strettamente politico.

Il processo a carico dell’Italiana è politico

Mostrare alla sua amica Giorgia Meloni che una sua concittadina non merita il rispetto del regime ungherese, visto che, nello sviluppare la sua politica europea, la premier italiana ha sostanzialmente abbandonato al loro destino le ricattatorie richieste del partner magiaro.

Le ragioni per le quali ho considerato e considero ancora esclusivamente «politico» quanto imbastito a carico di Ilaria Salis sono propriamente queste, anche perché la dichiarazione della presidenza di Viktor Orban «che l’autorità giudiziaria in Ungheria è indipendente dal potere esecutivo» fanno -direbbe un mio amico romano- «sbudellare dalle risate». Visto che, fra l’altro, l’ordinamento giudiziario di quel paese è all’attenzione dell’Unione europea proprio per la sua subordinazione al potere esecutivo.

La somiglianza con il caso di Giulio Regeni

In qualche misura, ciò che sta accadendo a Ilaria Salis va assimilato a ciò che di ben peggiore è accaduto al giovane Giulio Regeni. Entrambi si sono recati in paesi nei quali non è possibile comportarsi come ci si comporterebbe in Italia. E se Regeni è stato assassinato (e un discutibile processo non solo non lo rimetterà in vita, ma non darà ad alcuno la soddisfazione di vedere ristretto un una galera uno dei colpevoli di omicidio), Ilaria Salis, meno sfortunata deve acconciarsi a trascorrere in prigione tutto il tempo che il regime di Budapest vorrà.

Se Roberto Salis si agiterà, sarà peggio

E più il padre Roberto Salis si agiterà, più il disappunto del governo ungherese si sfogherà su sua figlia che è in sua mano, ostaggio delle ubbie di un despota secentesco. Ed è ingenuo ritenere che qualcuno, al di fuori di Giorgia Meloni (ovviamente svillaneggiata dallo stesso Roberto Salis) possa tentare o fare qualcosa a favore di Ilaria. Anche la lettera a Sergio Mattarella (Leggi anche: caso Salis, il padre scrive a Mattarella: intervenga sul governonon ha avuto alcun seguito a parte una telefonata al signor Roberto che non poteva che lasciare il tempo che aveva trovato. Insomma un ennesimo espediente inutile e controproducente.

Il tranquillo tran tran dell’ambasciata d’Italia a Budapest

A ciò si deve aggiungere che un caso come quello della Salis cade sugli esponenti del corpo diplomatico italiano in terra d’Ungheria (una bella ambasciata in una via tranquilla in prossimità del Piazzale degli eroi, una sede di tutto riposo cioè alla quale sono destinati diplomatici in attesa di quiescenza o giovani virgulti come Armando Varricchio che prestò servizio proprio a Budapest e per il tempo minimo necessario per spiccare il volo) in sembianza di una sciagura irrimediabile e che ne mette a soqquadro il placido tran-tran cui sono adusi, tra una manifestazione e l’altra di un Istituto italiano di cultura che non ha mai sfigurato nel panel delle attività culturali e artistiche di Budapest.

Sa, il personale diplomatico, che il caso è politico e quindi esula da ogni sua possibilità di gestione e di influenza. Al massimo possono suggerire uno o più legali che possano assistere l’imputata e sobbarcarsi a qualche sgradevole visita, dato che fatalmente la Salis riverserà sul malcapitato visitatore il proprio cahier de doléance, cui lo stesso non riuscirà a dare mai una risposta di una qualche concretezza.

Salis punti sul governo per fare leva su Orbàn

Se Roberto Salis ama, come di certo ama, sua figlia, finisca di fare il teatrino e punti sulla politica vera, quella che ha il governo e che può usarne le leve, magari inserendo il caso in un complesso di dare ed avere con il governo ungherese. E non si illuda e non illuda sua figlia Ilaria. Se il caso è -come è- politico deve essere in mano a un politico vero e influente. Non ad altri.