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L’ombra lunga del subnegazionismo (iltascabile.com)

di

Ritardismo, catastrofismo, divisionismo e altre 
nuove tattiche di chi nega il riscaldamento 
globale.

Alla COP28 di Dubai una piccola vittoria, va detto, c’è stata. Più sul piano simbolico che nel concreto, ma non per questo meno importante. Dopo trent’anni di conferenze sul clima, infatti, è stato scritto nero su bianco dalla comunità internazionale – 198 nazioni, fra cui gli stessi Paesi produttori di petrolio, gas e carbone – che la principale causa della crisi climatica sono i combustibili fossili.

Pochi giorni prima, all’inizio della conferenza, il presidente della COP ma anche CEO della compagnia petrolifera statale emiratina ADNOC Sultan Ahmed Al Jaber ha dovuto rettificare l’affermazione secondo cui non ci sarebbe nessuna scienza “che dica che l’abbandono graduale dei combustibili fossili permetterà di mantenere l’aumento di temperature entro 1,5 gradi”. Queste sue parole, risalenti a un’intervista di qualche tempo prima, erano state diffuse dal Centre for Climate Reporting. Le sue smentite e scuse in conferenza stampa hanno fatto il giro del mondo.

Sarà più difficile, d’ora in poi, per un ministro dell’ambiente di qualsiasi nazione, affermare di non essere sicuro dell’origine antropica del cambiamento climatico. Solo quest’estate, il nostro Pichetto Fratin aveva detto a tal proposito, riferendosi ai combustibili fossili: “È quello? Non è quello? Io non lo so”. Ecco, ora lo deve sapere per forza. Il documento finale della COP28 sconfessa apertamente il negazionismo climatico, o almeno quello più esplicito o meno ipocrita.

Toglie l’ultimo barlume di appoggio a chi ancora aveva il coraggio di dire che il riscaldamento globale non esiste, oppure che non è causato direttamente dall’essere umano e in particolare dall’utilizzo dei combustibili fossili. Dopo trent’anni quello raggiunto è, finalmente, il grado zero da cui partire. Eppure, se vediamo il negazionismo come una strategia più che una convinzione, allora ci accorgiamo che sono solo le tattiche a cambiare.

In Rigenerazione. Per una democrazia capace di futuro (Castelvecchi, 2022) il sociologo Marco Deriu ha coniato il concetto di “negazionismo di secondo tipo” o “subnegazionismo”, mentre in un capitolo della collettanea curata da Greta Thunberg The Climate Book (Mondadori, 2022), il climatologo Kevin Anderson parla apertamente di “nuovo negazionismo”, “riferibile all’atteggiamento cognitivo e politico di coloro che non negano il cambiamento climatico e la sua gravità come fatto in sé, ma poi si limitano a considerare solamente azioni e interventi di tipo tecnologico, economico, di mercato, completamente inappropriati o visibilmente fuori misura rispetto alla radicalità della sfida climatica ed ecologica.

La percezione della realtà, dunque, non viene del tutto rimossa ma ‘anestetizzata’ in modo da risultare tutto sommato ‘gestibile’ e ‘amministrabile’ così da congelare l’angoscia e il sentimento di inadeguatezza e di impotenza”.

Il documento finale della COP 28 sconfessa apertamente il negazionismo climatico, o almeno quello più esplicito o meno ipocrita.

Insomma, si assottigliano le schiere del negazionismo tout court e altri meno espliciti negazionismi prendono voce. Ma facciamo un passo indietro: il negazionismo climatico è una strategia di chi? Un rapporto pubblicato da Greenpeace Italia e ReCommon uscito a settembre 2023 e intitolato “Eni sapeva” rivela come degli studi interni risalenti agli anni Settanta e Ottanta – quando l’Eni, fra l’altro, era un’azienda completamente statale – mettessero già in luce “i possibili impatti distruttivi sul clima del pianeta derivanti dalla combustione delle fonti fossili”.

Come ampiamente documentato dagli storici della scienza Naomi Oreskes ed Erik Conway nel loro Mercanti di dubbi (Edizioni Ambiente, 2019), anche altre grosse aziende petrolifere erano a conoscenza del problema, tanto che a partire dalla fine degli anni Ottanta Exxon coordinò una campagna internazionale che puntava a mettere in luce le incertezze della scienza del clima e in ombra decenni di studi sulla gravità dei rischi. Da allora Big Oil ha soffiato sul fuoco del negazionismo per scongiurare uno spostamento del mercato su fonti meno inquinanti.

Ora, come sappiamo una volta data una notizia falsa è molto difficile smentirla, e dopo l’avvento dei social questo meccanismo ha reso particolarmente semplice soffiare su quei fuochi. Più il rumore della scienza si faceva forte e unanime, più screditarlo richiedeva armi pesanti come il complottismo, ma a quel punto probabilmente non c’era nemmeno più troppo bisogno di soffiare: gli scettici si alimentavano a vicenda.

Gli sforzi di lobbying erano più utili in politica o durante le conferenze sul clima, affinché non si nominassero i combustibili fossili nei rapporti finali e le norme adottate non fossero mai troppo severe. Il diffondersi di movimenti ambientalisti ampi e l’aumento di frequenza degli eventi estremi degli ultimi due anni hanno convinto però la grande maggioranza degli esseri umani della realtà della crisi climatica, e sempre più anche della sua origine antropica.

Ed ecco che la narrazione cambia: Eni si tinge di verde con le pubblicità di Plenitude, il CEO di ADNOC afferma la necessità di allontanarsi gradualmente dall’utilizzo dei combustibili fossili, la comunità politica internazionale sigla l’origine antropica della crisi che gli scienziati davano per assodata da tempo.

Proliferano perciò nuove tattiche, che possono andare sotto il nome di negazionismo di secondo grado, o subnegazionismo, come proposto appunto da Marco Deriu e da altri. In un’intervista uscita a settembre su Vox, il climatologo dell’Università della Pennsylvania Michael Mann ne classifica diversi tipi: divisionismo, ritardismo, catastrofismo, deviazione, minimizzazione.

A identificarli non è stato Mann, che però li ha messi in fila sotto lo stesso cappello della disinformazione. Lui le chiama D-word perché in inglese cominciano tutte con la D come l’originale denialism. Cominciamo con delaying, il “ritardismo”: lo troviamo chiaro e tondo in quello stesso documento finale di COP28 uscito il 13 dicembre a Dubai, dove si fa riferimento ai sistemi di cattura e stoccaggio di CO2.

Trasmette l’idea che non ci si debba precipitare ad abbandonare il fossile perché in futuro questi impianti saranno in grado di eliminare gran parte delle emissioni grazie a sistemi di cattura e stoccaggio del carbonio atmosferico (CCS). In realtà, le stime ci dicono che al momento questi impianti, per arrivare a essere efficaci su ampia scala, consumerebbero troppa energia ed è molto difficile dire per certo se potremo farci affidamento.

Se vediamo il negazionismo come una strategia più che una convinzione, allora ci accorgiamo che sono solo le tattiche a cambiare.

Per non dover ricorrere a una drastica riduzione dei consumi, sempre in quel documento si parla di aumentare la produzione di energia da fissione, anche se costruire un’intera flotta di nuove centrali nucleari richiederebbe molti anni mentre i fossili andrebbero abbandonati da subito – discorsi simili riguardano la fusione nucleare, ancora di là da venire, e l’ingegneria climatica, che secondo la maggior parte degli scienziati pone davvero troppi rischi.

Di certezze su cui fare affidamento nel presente, però, ce ne sono: si chiamano fonti rinnovabili e riduzione dei consumi, ed è sulla realtà presente che ci si dovrebbe basare. Il ritardismo consiste invece nell’ipotecare il futuro in nome di soluzioni che forse troveremo ma che per ora non ci sono: nel frattempo continuiamo a estrarre e bruciare combustibili fossili e, se bisogna abbandonarli, “sì, ma di morte lenta”.

Minimazzare (downplaying) l’impatto o i rischi del cambiamento climatico è un’altra tattica molto efficace. Negli ultimi trent’anni ci siamo fatti raccontare che gli impatti non sarebbero stati poi così gravi, del resto ci sembravano ascrivibili a un generico futuro.

Ora che li vediamo da vicino possiamo comunque credere che la situazione non peggiorerà poi troppo, che gli scienziati esagerano, che Greta Thunberg è una specie di Cassandra. Ma possiamo anche dire che quelle stesse tecnologie di cui parlavamo prima risolveranno tutti i nostri problemi, e che se ci sarà siccità basterà inseminare le nuvole per stimolare la pioggia in un clima più caldo, come già si fa in Arabia Saudita o a Panama.

Il “divisionismo” (dividing) punta invece sul ben noto principio del dividi et impera: Mann si riferisce a divisioni interne fra gli ambientalisti, come fra vegani e non vegani o fra chi sceglie di non usare più auto o aerei e chi invece continua ad avere una vita “normale”.

In realtà mi sembra più interessante interpretare il divisionismo climatico da una prospettiva di classe: raccontare che la lotta alla crisi climatica è appannaggio della sinistra benestante, o mettere l’accento sulle disuguaglianze a cui porterebbe una transizione energetica, aggiungendo magari che si perderanno posti di lavoro e che saranno i più svantaggiati a rimetterci.

E questa narrazione è efficace perché in parte è vera: leggi come quella francese da cui nacquero i gilet jaunes, che alzava indiscriminatamente il prezzo del carburante proprio dopo aver tagliato alcune tratte ferroviarie di provincia, non fanno altro che seminare timore fra chi la macchina non può fare a meno di usarla e a pagare la benzina ci arriva appena.

Non è diverso dallo storico ricatto fra salute e lavoro che esperienze come l’ILVA di Taranto ci ricordano: la salute (propria o del pianeta) la sceglie solo chi può permetterselo, a meno che non si esca da questa dicotomia.

Si assottigliano le schiere del negazionismo tout court e altri meno espliciti negazionismi prendono voce.

La deviazione (deviating) è uno dei subnegazionismi più efficaci perché attecchisce anche sulla sensibilità degli stessi ambientalisti. Si tratta di spostare l’attenzione dalle emissioni delle grandi aziende a quelle del singolo cittadino; dalla (sovra)produzione di un bene all’acquisto da parte del consumatore; dal sistema economico al comportamento dell’individuo.

Deviare il discorso è raccontare che il problema è che io salga o no su quell’aereo, invece di dire che quell’aereo non dovrebbe volare – il che non vuol dire eliminare tutti gli aerei, ma ridurli drasticamente e sostituire dove possibile con tratte ferroviarie.

Concentrarsi sull’acquisto consapevole (e spesso costoso) e sulla dieta vegana, anziché puntare i fari sull’industria intensiva dell’agroalimentare e sulla grande distribuzione; sulla raccolta differenziata certosina della plastica, quando in ogni caso al mondo ne viene riciclato solo il 10%, e il punto è che non se ne dovrebbe produrre così tanta.

La dieta vegana, la raccolta differenziata, prendere il treno invece dell’aereo sono tutti comportamenti molto importanti se pensati collettivamente, ma restano gocce se non si agisce a monte. L’individualismo dà l’illusione di avere la situazione sotto controllo, il compiacimento di assumere un comportamento virtuoso e il diritto di giudicare gli altri anche senza prendere in considerazione il costo di certe scelte.

Un’osservazione interessante proposta da Mann è che questa ondata di deviazionismo climatico fa leva sull’idea che l’azione per il clima consista nel controllare lo stile di vita delle persone – uno spauracchio della destra, soprattutto americana. Il punto, comunque, è che l’individualismo funziona perché è rassicurante e ha il potere di capovolgere i pesi e sposare l’attenzione sugli effetti anziché sulle cause.

Ultima D-word, o forma di nuovo negazionismo climatico, è il catastrofismo (doomism). Dire che ormai è troppo tardi è un ottimo invito all’inazione e raccontare che quel+1,5 gradi è uno spartiacque fra il tutto e il niente è scorretto e pericoloso.

Non siamo né l’ultima generazione sulla terra né l’ultima che può fare qualcosa. Una volta superato quel il grado e mezzo di aumento della temperatura globale media rispetto i livelli precedenti alla rivoluzione industriale ci sarà in ogni caso da lottare per allontanarsene il meno possibile: ogni centesimo di grado è importante, ogni contributo è fondamentale ora e lo sarà in futuro.

Il catastrofismo, inoltre, neutralizza il discorso politico insito nella lotta alla crisi climatica: racconta una catastrofe uguale per tutti, nascondendo l’impatto ben differenziato su fasce di popolazione più agiate e fasce più vulnerabili, luoghi del mondo più ricchi e quindi capaci di adattarsi e zone più povere ed esposte agli effetti del cambiamento climatico.

Il ritardismo consiste invece nell’ipotecare il futuro in nome di soluzioni che forse troveremo ma che per ora non ci sono.

Abbiamo detto all’inizio che il negazionismo, in tutte le sue forme vecchie e nuove, è una strategia più che una convinzione: a volte può essere stata portata avanti con vere e proprie campagne di disinformazione, delegittimazione e greenwashing, ma spesso la banalità del male consiste semplicemente nel soffiare su fuochi già accesi, sulle paure e sui sospetti, in alcuni casi legittimi.

Per questo ha senso chiedersi chi siano i negazionisti. Per cominciare, ci sono certamente quelli che hanno molto da perdere, come le grandi compagnie che fondano il loro business sui combustibili fossili, ma anche i colossi della tecnologia, dell’agroalimentare, della grande distribuzione, della logistica. Loro alleati possono essere i politici: alcuni perché hanno interessi personali, altri perché magari temono che il proprio Paese ci rimetta nella transizione energetica se intanto le altre nazioni continuano a investire e guadagnare sul fossile.

Poi ci sono le persone, con i loro fuochi su cui soffiare. C’è chi ha qualcosa da perdere, come uno stile di vita che effettivamente ha o anche solo che vorrebbe conquistare. Tenderà a minimizzare, a pensare che le conseguenze non saranno poi così gravi o almeno non lo riguarderanno troppo da vicino, o a volersi fidare di tecnologie futuribili, o ancora a dirsi che in fondo siamo sopravvissuti ai totalitarismi, alla guerra fredda, alla crisi petrolifera, e ora pure a una pandemia: in qualche modo supereremo anche questa.

E poi c’è chi ha paura di essere schiacciato dalla transizione e chi, più o meno consapevolmente, annusa che il capitalismo verde rischia di costruire una società ancora più diseguale. E allora osteggerà la transizione temendo di perdere il lavoro ma anche di non potersi più permettere un weekend fuori porta perché i treni costano troppo.

E odierà chi lo giudica perché ogni tanto prende un aereo. Magari non si renderà conto del fatto che i costi della crisi ricadranno su di lui con un peso ancora maggiore, ma le sue paure sono legittime. Infine c’è la maggioranza silenziosa, quella che ritiene, anche fosse tutto vero, di non poterci fare niente e che dunque esuli dalla propria vita.

Per stare in pace con l’impotenza ci si rivolge, a seconda dei casi, a un semplice disinteresse che minimizza il problema, fino ad arrivare al massimo complottismo o, per qualcuno, a un aperto catastrofismo.

Forse allora la lotta per il clima dovrebbe farsi carico della propria radicalità, e raccontare una storia diversa, di giustizia climatica e redistribuzione. Un mondo in cui un Macron prima implementi (e non cancelli) i treni nelle zone di provincia, e poi alzi il prezzo del carburante; in cui si accompagnino gli agricoltori nella transizione ecologica: forse così ci saranno meno trattori a bloccare le strade, perché gli agricoltori non manifestano contro la transizione, ma contro il costo per loro insostenibile della produzione; in cui non si debba scegliere fra salute e lavoro ma si possa avere entrambi.

Soprattutto, in cui un cambio di sistema economico e di produzione, oltre a migliorare la salute dell’ambiente, migliori (anziché peggiorare) lo stile di vita delle persone e sia di per sé redistributivo sul piano economico ma anche sanitario, e anzi redistribuisca anche il tempo, il benessere, l’aria pulita. Questa transizione, oltre a essere l’unica giusta, è anche l’unica efficace.

Il Superbonus ha sfasciato i conti (italiaoggi.it)

di Alessandra Ricciardi

Parla Nicola Rossi, economista: serve una 
Commissione d’inchiesta. 

E ora sarebbe il caso di spiegare agli italiani che non possiamo permetterci livelli di servizi pubblici di altre economie

Il 110% ha sfasciato i conti pubblici italiani, inutile girarci intorno. «Credo che ci siano gli estremi per il varo di una Commissione parlamentare di inchiesta per accertare le responsabilità nel disegno e nella concreta attuazione del Superbonus», dice Nicola Rossi, economista dell’Università Tor Vergata, già parlamentare del Pd.

E probabilmente 4 anni, tanti ne stima il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, nel Def, il documento di economia e finanza, base programmatica della prossima leggedi bilancio, non basteranno per rimettere le cose a posto. «Il prossimo quadriennio comincia a settembre. Conti in ordine ogni anno, dunque, e per parecchi anni. Se fossimo un paese normale, il risanamento strutturale delle finanze pubbliche dovrebbe essere un obiettivo nazionale, capace di unire maggioranza e opposizione.

Ma», argomenta Rossi, «temo che non ci si renda conto di quanto lo squilibrio delle finanze pubbliche incida sui margini di manovra della politica economica e sulla autonomia del paese». Ora «sarebbe il caso di spiegare agli italiani che non possiamo permetterci livelli di servizi pubblici che altre economie, più solide e dinamiche della nostra, possono permettersi».

Domanda. Il quadro dei conti pubblici delineato con il Def è devastante per l’impatto dei vari crediti dell’edilizia: tra superbonus e altre agevolazioni pesano per 219 miliardi sul bilancio dello stato. Come è stato possibile arrivare a queste cifre?

Risposta. Le gravi responsabilità nel disegno e nella concreta attuazione del Superbonus sono tanto chiare quanto note e facilmente ripartibili fra il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Economia dell’epoca. E sono responsabilità che non possono essere sminuite dal fatto che quasi tutte le forze politiche hanno evitato successivamente di prendere le distanze, come avrebbero potuto e dovuto. Personalmente credo che ci siano gli estremi per il varo di una Commissione parlamentare di inchiesta intesa ad accertare se ed in quale misura le personalità citate fossero state avvertite circa il potenziale dirompente di misure come il Superbonus.

D. Perché così dirompente?

R. Il potenziale si è potuto esprimere pienamente nel momento in cui si è passati dallo strumento delle deduzioni e detrazioni, che trovano un limite nella capienza dell’imposta personale, a quello dei crediti di imposta tout court. Non è obbligatorio – come è certamente vero nel caso di specie – che le autorità politiche abbiano cognizioni anche elementari di economia, e può anche accadere che le stesse autorità non avvertano la necessità di dotarsi delle competenze necessarie, ma è comunque essenziale che le amministrazioni – in tutte le loro articolazioni – forniscano loro tutti gli elementi del caso. Se ciò fosse accaduto – come mi auguro vivamente – la natura strettamente politica della politica dei bonus, nel senso meno nobile del termine, emergerebbe con chiarezza. Il voto di scambio non è solo quello che si sostanzia nel passaggio di mano di una banconota da 50 euro.

D. Ma il 110% non doveva servire a dare slancio all’economia? Perché gli effetti positivi sul bilancio non si vedono?

R. La mia convinzione è che l’impatto sull’andamento del prodotto ci sia stato ma – come era immaginabile – sia stato molto inferiore a quanto solitamente ipotizzato. L’effetto moltiplicatore della spesa pubblica – certamente di quella in conto corrente ma anche di quella in conto capitale – è tale da far pensare che nella stragrande maggioranza dei casi e salvo che non si presenti una emergenza, e, in quel caso, solo per la durata dell’emergenza stessa, la spesa pubblica in disavanzo sia uno strumento i cui effetti netti sono quasi sempre negativi.

D. Di fatto, Superbonus e agevolazioni ci costano più dei fondi PNRR che l’Italia ha a disposizione…

R. Questo lo dicono le cifre. Con la differenza che il PNRR è un programma di spesa pubblica propriamente detto inteso, in linea di principio, a far fare un salto di qualità al paese. Non è detto che l’obbiettivo sia raggiunto e, anzi, ci sono non pochi motivi per essere particolarmente cauti al riguardo. Molto diversa è invece la politica dei bonus il cui impatto principale non è solo o tanto quello finanziario quanto quello contenuto nel messaggio paternalistico e corruttivo che vi è implicito.

D. Nel Def si stima un Pil per il 2024 all’1%, in contrazione rispetto alle stime, una leggera crescita fino al 2026 e poi il ritorno nel 2027 allo 0,9% del 2023. Quali sono i fattori che determinano questo andamento?

R. Per quanto, come dicevo, l’impatto della spesa pubblica sui ritmi di crescita sia con ogni probabilità inferiore a quanto solitamente immaginato, è lecito supporre che un qualche impatto si osservi e questo spiega, credo, i tassi di crescita tendenziali del prossimo triennio che si collocano su livelli di qualche decimo superiori a quelli osservati in media negli ultimi due decenni. Ma quando gli effetti della spesa pubblica finanziata dal debito si saranno esauriti, visto che l’impatto delle riforme sulla crescita è altamente dubbio, cosa resterà della capacità di crescita dell’economia italiana? E di conseguenza come potrà mai essere sostenibile il debito pubblico che stiamo creando a piene mani, se non attraverso anni di scelte di bilancio tutt’altro che facili e probabilmente dolorose?

D. Giorgetti ha preso tempo per indicare tagli alla spesa pubblica. Dove mettere le mani? I tagli ai ministeri hanno normalmente scarso impatto.

R. L’elenco è noto da tempo. Con ogni probabilità non si tratta di cifre risolutive ma, nelle condizioni date, è bene partire dalla constatazione che anche le cifre più piccole possono contribuire significativamente alla disciplina delle finanze pubbliche. Così come può contribuirvi anche l’evitare scelte potenzialmente dannose per gli equilibri della finanza pubblica e mi riferisco in particolare al tema della autonomia differenziata, che, sia chiaro, non considero affatto come “la secessione dei ricchi”. Più in generale, sarebbe il caso di spiegare agli italiani che non possiamo permetterci livelli di servizi pubblici che altre economie, più solide e dinamiche della nostra, possono permettersi.

D. L’obiettivo è rimettere a posto i conti pubblici in 4 anni. Fattibile?

R. L’obiettivo primario è quello di mantenere fin dal prossimo autunno una politica di bilancio ispirata alla prudenza, al realismo e alla disciplina. Indicare l’obiettivo del quadriennio può lasciare immaginare che “ci penseremo fra quattro anni”. Non funziona così. Il prossimo quadriennio comincia a settembre. Conti in ordine ogni anno, dunque, e – temo – per parecchi anni. Se fossimo un paese normale, il risanamento strutturale delle finanze pubbliche dovrebbe essere un obiettivo nazionale, capace di unire maggioranza e opposizione. Ma temo che non ci si renda conto di quanto lo squilibrio delle finanze pubbliche incida sui margini di manovra della politica economica e sulla autonomia del paese. Del resto, questo nostro paese non ha esitato a dare dignità costituzionale alla difesa degli animali ma non ha battuto ciglio quando nel 2011 si è riscritta la Costituzione sostanzialmente abbattendo quel poco che rimaneva dell’articolo 81 voluto dai padri costituenti. Per questo paese, le generazioni future valgono meno degli animali domestici.

D. Il ministro Giorgetti ha avanzato l’auspicio che nuova Commissione UE possa allungare i tempi per l’attuazione del Pnrr. Il commissario Gentiloni ha confermato la scadenza. La questione è politica o di efficacia di investimenti?

R. È saggio tenere ferma per ora la scadenza del 2026. Lo sforzo messo in atto dai singoli paesi non può e non deve scemare. Ma sarà altrettanto saggio, arrivati al 2025, ipotizzare di portare a conclusione i progetti che dovessero eventualmente sforare marginalmente i tempi previsti.

Un Ponte che impoverisce l’Italia (lavoce.info)

di 

Arriva la valutazione costi benefici per il Ponte 
sullo Stretto di Messina, dopo che la decisione 
di costruire l’opera è già stata presa. 

Il risultato è positivo solo grazie all’alto valore economico attribuito alla riduzione delle emissioni di CO2.

Prima la decisione, poi la valutazione

La pelle dell’orso è stata ripetutamente venduta dal ministro delle Infrastrutture che non perde occasione per ribadire che il Ponte sullo Stretto si farà e si farà in fretta con apertura dei cantieri già entro il 2024. Solo adesso viene resa disponibile l’analisi costi-benefici dell’opera redatta a cura della società “Stretto di Messina” e non, come invece sarebbe opportuno, di un soggetto terzo.

Nella storia infinita del Ponte sullo Stretto, prima si decide, poi si valuta. Non sembra il modo più razionale di procedere. Il risultato della analisi, ça va sans dire, è positivo: inimmaginabile la pubblicazione di una valutazione che sconfessasse l’operato di Matteo Salvini. Come sosteneva qualche decennio fa Henry Kissinger: “quando un ragguardevole prestigio burocratico è stato investito in una politica è più facile vederla fallire che abbandonarla”.

Ma le sorprese non mancano. Una è clamorosa: i numeri forniti dagli estensori dell’analisi (che non considera possibili soluzioni alternative) dicono infatti che l’investimento, sotto il profilo strettamente economico, è fallimentare.

Costi e benefici economici

Per costi di costruzione e gestione, al netto del valore residuo al termine del periodo di analisi, stimati pari a 10,6 miliardi, i benefici economici, dati dalla somma di risparmi di tempo e riduzione di costi operativi dei mezzi di trasporto, assommano a 9,1 miliardi (figura 1).

Figura 1 – Valore attuale netto economico della costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina

Fonte: Stretto di Messina, 2023. Aggiornamento dell’analisi costi benefici (Acb) sviluppata dal CERTeT- Università Bocconi nel corso del 2012

Desta più di una perplessità il fatto che i risparmi di tempo per i veicoli merci siano stimati, nel primo anno di esercizio, pari a 365 milioni (figura 2), ossia quasi il triplo rispetto a quelli per i passeggeri, nonostante che il numero di mezzi pesanti che oggi si servono dei traghetti sia intorno alle 800 mila unità, contro più di dieci milioni di persone che ogni anno attraversano lo Stretto.

Figura 2 – Valorizzazione economica dei risparmi di tempo ottenuti con la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina

Fonte: Stretto di Messina, 2023. Aggiornamento dell’analisi costi benefici (Acb) sviluppata dal CERTeT- Università Bocconi nel corso del 2012

Occorre poi ricordare che, storicamente, le valutazioni economiche delle grandi opere sono soggette a optimism bias (pregiudizio dell’ottimismo): quasi sempre a consuntivo i costi risultano superiori a quelli stimati inizialmente (in media per i ponti del 26 per cento) e i benefici più limitati.

In ogni caso, anche qualora si considerino corrette tutte le assunzioni e i risultati della valutazione, la costruzione del ponte impoverirebbe gli italiani per un ammontare di 1,5 miliardi di euro.

Benefici climatici

Il fattore che fa cambiare di segno all’analisi è rappresentato dai benefici in termini di riduzione delle emissioni climalteranti, valutati pari a 10,6 miliardi a valori correnti (figura 3). Detto altrimenti, se non esistesse il cambiamento climatico, il ponte sullo Stretto sarebbe non solo economicamente ma anche socialmente dannoso.

Figura 3 – Valorizzazione economica della riduzione delle emissioni climalteranti ottenuta con la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina

Fonte: Stretto di Messina, 2023. Aggiornamento dell’analisi costi benefici (Acb) sviluppata dal CERTeT- Università Bocconi nel corso del 2012

Questo elemento risulta decisivo per il via libera all’opera, sembra dunque opportuno approfondire alcuni aspetti della sua quantificazione.

Non entriamo nel merito di quella “fisica”: secondo gli autori della analisi costi benefici, grazie alla costruzione del ponte e alla conseguente eliminazione dei traghetti tra Messina e Villa San Giovanni, al trasferimento su ferrovia di una parte dei passeggeri che oggi utilizzano l’aereo e delle merci trasportate via nave, si conseguirebbe una riduzione di emissioni pari a 12,8 milioni di tonnellate di CO2.

Per la quantificazione economica del beneficio ambientale si è fatto riferimento alla pubblicazione della Commissione europea, Technical guidance on the climate proofing of infrastructure in the period 2021-2027; il “costo esterno” – che va da 100 €/tonnellata di CO2 nel 2020 a 800 €/tonnellata nel 2050 – non rappresenta, come d’abitudine, il danno provocato dall’inquinante, ma corrisponde al costo minimo da sostenere per raggiungere l’obiettivo di azzerare le emissioni nel 2050. Il beneficio di una riduzione delle emissioni viene equiparato a tale costo di abbattimento.

Figura 4 – Costo “ombra” delle emissioni di CO2 dal 2020 al 2050

Fonte: European Commission, 2021. Technical guidance on the climate proofing of infrastructure in the period 2021-2027.

Coerentemente con lo scenario di azzeramento di tutte le emissioni al 2050, negli anni successivi a quell’orizzonte temporale i benefici della riduzione delle emissioni di gas serra dovrebbero essere nulli. Traghetti e aerei ancora in servizio in Italia e in Europa sarebbero infatti a emissioni zero a partire da quell’anno. Così però non è: nell’analisi sono quantificati benefici per tutto l’arco di tempo considerato: nel 2063 ammontano a 400 milioni.

Dal rapporto tra valorizzazione economica (10,6 miliardi) e ammontare di CO2 abbattuta (12,8 milioni), si determina un beneficio unitario pari a 828 euro.

Come termine di paragone, il valore attuale delle quote di emissione di gas serra nel sistema europeo di scambio è di 60 euro e il valore massimo raggiunto nel febbraio 2023 è stato pari a 105 euro.

È stato altresì stimato che oggi la maggior parte delle emissioni mondiali di CO2 potrebbe essere abbattuta con un costo di gran lunga inferiore a quello preso come riferimento nell’analisi (figura 4).

In sintesi, si può dire che la fattibilità socio-economica del Ponte “è appesa” a una ipotesi di riduzione delle emissioni straordinariamente inefficiente.

Figura 5 – Curva dei costi di abbattimento delle emissioni di CO2

Fonte: Goldman Sachs, 2023. Carbonomics