Maneggiare la questione morale non è una faccenda banale. Se non si ha la caratura di Enrico Berlinguer, la battaglia per la moralizzazione dei partiti può facilmente esplodere in mano. Incrinando il consenso, indebolendo le leadership, disintegrando alleanze.

Come insegna il caso pugliese, dove le inchieste su mazzette e voto di scambio hanno travolto il sistema Emiliano, in Italia il tema dell’etica pubblica è un problema che riguarda tutte le forze politiche.

Ma, nel contempo, è una zavorra che pesa soprattutto sulla sinistra. Non che i conservatori siano immuni da scandali e cattivi esempi: fondato da Silvio Berlusconi, un pregiudicato che ha creato Forza Italia insieme a un amico dei boss mafiosi finito in carcere per concorso esterno, il centrodestra ha collezionato nei lustri immoralità di ogni tipo.

Solo che, a differenza di quanto avviene nel campo progressista, il dibattito sulla rettitudine difficilmente intacca il consenso dell’elettorato di riferimento dei sovranisti, né causa psicodrammi ricorrenti dentro la coalizione.

Solo per restare ai fatti più recenti, la ministra Daniela Santanchè, accusata di reati gravissimi, è ancora al suo posto (proprio oggi si è chiusa l’inchiesta sul falso in bilancio di Visibilia), e stesso benevolo destino è riservato ai sottosegretari Andrea Delmastro Claudio Durigon (capace di comprare case scontatissime da enti previdenziali e farsi pagare i lavori dal sindacato di cui era segretario). Per non parlare dei dirigenti leghisti condannati per finanziamento illecito che siedono ancora in parlamento e ai vertici di via Bellerio.

Legati da un patto di potere, saldati insieme da un fasullo garantismo che nasconde una voglia matta di impunità, i figliocci di Berlusconi di sanzioni e prediche se ne fregano altamente. Non solo, anche se in competizione tra loro (vedi Giorgia Meloni e Matteo Salvini) non sono usi a sfruttare gli inciampi giudiziari per allestire campagne politiche basate sulla turpitudine dell’alleato. Un patto omertoso non scritto, ma che tutti rispettano.

A sinistra – per fortuna – la storia è diversa. La superiorità morale che il Pci opponeva al pentapartito durante la Prima repubblica è rimasta convincimento politico e arma di propaganda anche durante la Seconda, a causa della deriva dei valori imposta dal laissez faire etico del berlusconismo.

Peccato che – soprattutto al Sud, ma non solo – per vincere i dem abbiano spesso imbarcato dirigenti e colletti bianchi con un curriculum che ha poco da invidiare alle deviazioni di leghisti, fratelli vari e forzisti. Un fenomeno deleterio che negli anni Dieci ha contribuito in modo determinante al successo dei Cinque stelle.

Non sorprende, dunque, che oggi Giuseppe Conte rivendichi la battaglia storica dell’onestà, nonostante strumentalizzazioni irritanti (è evidente che l’ex premier stia alzando l’asticella per speculare voti a scapito del Pd) e ipocrisie nascoste: non solo rappresentanti del Movimento e il loro personale politico sono finiti in passato invischiati in inchieste penali a raffica, ma lo stesso Conte era uso – appena pochi mesi prima di entrare in politica – fare affari milionari collaborando senza fare un plissé con pregiudicati condannati in via definitiva per reati gravi.

Se Conte, come dicono a Napoli, fa il gallo sulla monnezza pugliese, la vicenda ha segnalato pure come Elly Schlein rischi troppe volte di apparire a rimorchio del grillino. Nella vicenda la leader dem è apparsa attendista, flemmatica nella risposta politica, in affanno costante.

Non ha alcuna responsabilità diretta sugli scandali, ovviamente: eletta contro i quadri del partito che alle primarie hanno votato in maggioranza Stefano Bonaccini, ha però promesso un rinnovamento totale del Pd che (anche a causa della forza di correnti e signori delle tessere) procede a fatica.

Lo scandalo giudiziario pugliese – nonostante i molti segni premonitori sul territorio – non l’ha visto arrivare. E quando è deflagrato, la segretaria ha sbagliato strategia. In condizioni politiche normali la lentezza può pagare, nelle crisi di sistema no: lasciare a Conte l’iniziativa è stato un passo falso.

Schlein poteva scegliere due strade, pur diverse: quella identitaria, chiamando per esempio il presidente Emiliano al Nazareno, provando a imporgli una ristrutturazione della giunta prima che lo facesse Conte (che tra l’altro aveva annunciato le sue mosse con grande anticipo sui giornali), per ergersi lei stessa a paladina della legalità.

O, al contrario, attaccare duramente le manovre dell’avvocato del popolo, e rompere per prima un’alleanza sempre più indigesta nonostante da molti (e non a torto) sia alla lunga considerata inevitabile. Quello che un leader non può fare è rimanere nel mezzo, senza una linea chiara da dare al partito e all’opinione pubblica. Sennò si rischia di fare il gioco degli avversari. Quelli della destra, e quelli che ti accoltellano mentre fanno finta di abbracciarti.