Censure e autocensure
Le celebrazioni della Festa della Liberazione hanno avuto momenti disastrosi, non solo per il solito fanatismo ideologico antiamericano ma anche perché è stato allestito un teatrino di discriminazioni ignobili contro il popolo ebraico e quello di Kyjiv
Ormai a sinistra la mitridatizzazione al veleno antisemita è tale che, di fronte alla notizia dell’aggressione degli ebrei nelle manifestazioni del 25 aprile, la reazione del progressista collettivo medio è: «Embè?», e quella del mandarinato antifascista ufficiale diventa: «Se la sono cercata».
A parte – più su, più giù e più oltre, avrebbe detto il tenero Nicola Palumbo di “C’eravamo tanto amati” – ci sono gli emuli di Pietro Secchia, come il presidente dell’Anpi del Piemonte Nino Boeti, che ha fatto la sua bella intervista per spiegare che a Torino i veri «violenti» e «fascisti» sono stati i «provocatori radicali» dell’Associazione Adelaide Aglietta, che hanno preteso di sfilare con le insegne della Brigata Ebraica. Che razza di pretesa, eh?
D’altra parte, di quelle piazze che, nell’incombenza del genocidio di Gaza, era meglio rimanessero Judenfrei, non per un bando formale, ma per un interdetto sostanziale, era stata politicamente decretata dai vertici dell’Anpi anche la radicale de-ucrainizzazione, fosse mai che la resistenza dei nazisti di Kyjiv alla denazificazione putiniana venisse confusa con quella dall’occupazione nazifascista.
A completare questo quadro di mostruosa deformazione morale della Festa della Liberazione ovviamente non ha concorso solo il fanatismo ideologico dei combattenti e reduci del transpartito “Yankee go home”, con tutti gli annessi e connessi geopolitici post-colonialisti e anti-imperialisti del caso, ma anche la condiscendenza (forse irritata, forse indifferente) delle gerarchie nominalmente atlantiste e europeiste, ma fedeli alla linea del «nessun nemico a sinistra».
Così, a una destra coi busti di Mussolini in salotto e le teste e le coscienze ingombrate dai cimeli e dalle mitologie inabilitanti della marginalità post-fascista e anfetaminizzate da un consenso e da un potere inaspettato, il mondo sedicente democratico – antifa “from the river to the sea” ovviamente inclusi – in questi giorni non ha solo opposto una richiesta di abiura di prammatica, inutile anche come imputazione nel momento in cui Meloni & Friends vincono non malgrado, ma proprio perché non rinnegano la nostalgia vittimista dell’Italia vilipesa e tornano semmai ad annunciare la vendetta agli oltraggi subiti come ai tempi del Capoccione.
Però, per ragguagliarsi al situazionismo democratico della destra e per perdere anche quel minimo di legittimità morale che la pregiudiziale antifascista ancora costituzionalmente consente, a sinistra si è pure pensato bene di allestire uno spettacolo di censure e di autocensure e di discriminazioni ignobili, contro quelli che avrebbero dovuto essere i campioni delle piazze antifasciste e ne sono diventati i fantasmi, gli ospiti sgraditi, le presenze vilipese.
Tutto è culminato nel discorso più inutile e atteso, quello di Antonio Scurati, che rileggendo in Piazza Duomo il suo compitino televisivo e accusando la destra di non riuscire a «nominare mai, mai, mai la parola antifascismo» è riuscito a non dire una parola sugli ebrei insultati e malmenati lungo tutto il corteo e poi in quella stessa piazza o sugli ucraini che il titolare del palco antifascista, il mediocre travet del conformismo cossuttiano, Gianfranco Pagliarulo, vorrebbe da due anni disarmare in nome della “liberazione dalla guerra” e che il pure non pacifista Scurati ha pensato non sarebbe stato gentile nominare, in quel contesto arcobaleno, come simboli della resistenza al fascismo putiniano.