Il “pasticciaccio brutto” di un anno di Elly Schlein (today.it)

di Francesco Curridori

"Non ci hanno visto arrivare". 

Si presentò così Elly Schlein quando, tra lo stupore generale, vinse le primarie. Ora, a distanza di un anno, è assai probabile che, dopo le Europee, la vedremo andarsene da Largo del Nazareno.

Il bilancio della sua segreteria sembra miserrimo. Chiamata e risollevare le sorti di un partito che era uscito sconfitto dalle Politiche del 2022 col 18% dei consensi, ora il Pd viaggia tra il 19 e il 20%. L’unica vittoria elettorale davvero rilevante si è avuta in Sardegna con una candidata imposta da Giuseppe Conte, la grillina Alessandra Todde.

Per il resto, quel che doveva essere il “campo largo” è sembrato più un “campo santo” dove seppellire la bruciante sconfitta in Abruzzo ad opera del governatore meloniano uscente Marco Marsilio e la figuraccia rimediata in Basilicata con il candidato presidente scelto last-minute. Se da un lato la nuova dirigenza schleiniana continua a vantarsi di aver stretto alleanze con i pentastellati nella maggior parte dei capoluoghi in cui si voterà il prossimo 8 e 9 giugno in concomitanza con le Europee, dall’altro lato, Sardegna a parte, Pd e M5s hanno perso in tutte le altre Regioni in cui si sono presentati insieme.

L’obiettivo iniziale della nuova segretaria di spostare l’asse del partito più a sinistra per recuperare i voti degli astensionisti di sinistra e rubare elettori al M5S è miseramente fallito. Questo porterà il Pd a cercare un modo di recuperare consensi puntando nuovamente verso il centro piuttosto che rincorrere un M5S che finora ha riservato solo sberle e voltafaccia ai democratici?

Non sarà facile e forse neppure necessario dialogare con il duo Renzi e Calenda, ma l’era dei radical-chic cresciuti nei centri sociali e caratterizzata più da una fascinazione maggiore per i diritti civili che per i diritti sociali sembra inevitabilmente destinata a volgere al termine.

Il leader del M5S, infatti, con l’avvicinarsi delle Europee, cerca sempre di più di distinguersi dalla Schlein sia in politica estera, abbracciando senza sé e senza ma la causa pacifista, sia in politica interna abbracciando la causa della legalità in Puglia. È proprio a Bari che il Pd è letteralmente esploso creando non pochi problemi alla segretaria che, dopo un anno, non è ancora riuscita a tenere a bada i due cacicchi più ingombranti: Vincenzo De Luca e soprattutto con Michele Emiliano con cui è costretta a scendere a patti.
Mentre l’ex premier può scegliere di agire indisturbato e scegliere autonomamente la linea politica da seguire, la segretaria del Pd deve barcamenarsi tra le diverse anime del partito. Il “pasticciaccio brutto” del nome sul simbolo è un’altra grave ferita nel rapporto, più subìto che voluto, tra la segretaria e i capi-corrente del Pd. Schlein, salita alla ribalta più di dieci anni fa per il famoso ‘Occupy-Pd’ ai tempi della mancata elezione di Romano Prodi al Colle, è ancora vista come un corpo estraneo.
La sinistra, per sua stessa natura, non ama chi vuol fare il ‘capo carismatico’ imponendo il proprio nome sul simbolo. Predilige la condivisione delle scelte e, in poche parole, chi governa ancora il Pd sono gruppi di potere che vogliono continuare a gestire il partito in maniera oligarchica e, perciò, dopo le Europee, la cosiddetta ‘ditta’ cercherà di riprendersi il suo “giocattolo”.

Dietro l’America in piazza (corriere.it)

di Federico Rampini

Gaza e le università

L’America sente nell’aria un nuovo Sessantotto.

A temerlo è soprattutto il partito democratico, visti i precedenti. Nel Sessantotto «originale» c’era la guerra del Vietnam; oggi c’è Gaza. Alla Columbia University di New York per la prima volta le autorità accademiche hanno chiamato la polizia nel campus, in occasione di proteste filo-palestinesi, e ci sono stati cento arresti. L’università continua a essere perturbata e deve spostare in remoto una parte dei corsi.

Pure Yale e Harvard, atenei di élite, sono in situazioni simili. In altre parti del Paese non è raro che i cortei blocchino il traffico, esasperando i pendolari. La protesta si radicalizza, si rinnovano gli atti di antisemitismo e le aggressioni contro studenti ebrei. La solidarietà con il popolo palestinese, l’indignazione per la tragedia umanitaria in atto nella Striscia, spesso si accompagna ad un aperto sostegno alla violenza di Hamas.

Quando il 13 aprile l’Iran lanciò 350 missili e droni alla volta d’Israele, in un raduno giovanile americano la notizia provocò subito un boato di entusiasmo (s’ignorava in quel momento che il bombardamento non avrebbe quasi fatto vittime). Le manifestazioni politiche penetrano perfino nei luoghi di lavoro, ne ha fatto le spese un’azienda-simbolo come Google: 28 licenziati per aver organizzato un sit-in di protesta in ufficio.

Il paragone con il Sessantotto si focalizza su quel che potrebbe accadere in agosto a Chicago.

La città di Barack Obama sarà la sede della convention democratica che proietterà Joe Biden verso la volata finale della campagna elettorale. Le organizzazioni pro-Hamas si organizzano fin d’ora per stringere d’assedio la convention: accusano Biden di appoggiare un genocidio fornendo aiuti militari a Israele.

Cinquantasei anni fa si tenne un’altra convention democratica a Chicago. Anno terribile: erano stati assassinati Martin Luther King e Robert Kennedy; il regime comunista del Vietnam del Nord aveva lanciato «l’offensiva del Tet»; diverse città americane erano in preda a disordini razziali.

La convention democratica attirò un mare di manifestanti contro la guerra, per lo più studenti universitari che non l’avrebbero combattuta (avevano il diritto di rinviare la chiamata alle armi per laurearsi; in Vietnam morivano i figli degli operai). La polizia reagì con estrema durezza. Furono giornate di caos, gli americani vedevano nei notiziari serali scene da guerra civile.

Impaurita, l’opinione pubblica moderata si spostò a destra. A novembre di quell’anno vinse la corsa alla Casa Bianca il repubblicano Richard Nixon, sconfiggendo il democratico Hubert Humphrey. Il presidente uscente Lyndon Johnson, anche lui democratico, aveva preferito non ricandidarsi, vista la débâcle del Vietnam e la crescente ostilità alla guerra nel suo partito.

Un’altra analogia con il Sessantotto chiama in causa Pier Paolo Pasolini. Lui compose una celebre poesia, in occasione degli scontri di Valle Giulia a Roma: si schierò con i poliziotti, figli di proletari, contro gli studenti figli di borghesi che li attaccavano. In America oggi «rivive Pasolini». L’epicentro della contestazione si trova in atenei da settantamila dollari di retta annua.

Fra gli studenti fermati dalla polizia, e subito rilasciati, si distinguono figli di celebrity, rampolli di politici e di banchieri. Le star di Hollywood portano solidarietà agli studenti. Chi indossa la divisa invece non ha studiato a Harvard, e probabilmente voterà per Trump anche se è black o figlio di immigrati latinos.

C’è ancora un’altra somiglianza con gli eventi di cinquantasei anni fa. Gli studi sociologici su quella grande rivolta giovanile evidenziarono che la generazione dei «sessantottini» era la prima cresciuta nel benessere. L’esplosione della contestazione era figlia del boom economico che aveva anche creato nuovi bisogni, potere d’acquisto, consumismo e libertà giovanili senza eguali nella storia.

Oggi la Generazione Z, come si definiscono i nati fra il 1997 e il 2012, è beneficiata anch’essa da un benessere senza precedenti. Negli Stati Uniti la metà di questa generazione ha già un lavoro; la disoccupazione giovanile è ai minimi. La Generazione Z americana che è già attiva ha incassato aumenti di stipendi pari al 13% annuo, più di quanto hanno conquistato le altre fasce di età.

È anche — a differenza che nel Sessantotto — ben rappresentata nei luoghi del potere Usa: un’inchiesta del settimanale The Economist ha censito ben seimila chief executive aziendali ventenni e mille politici loro coetanei.

Al tempo stesso la Generazione Z è afflitta da un’epidemia di ansietà, depressione, suicidi, disturbi psichici di varia natura. Alcuni esperti mettono sotto accusa i danni dei social media. Altri puntano il dito su una cultura apocalittica: il catastrofismo sul cambiamento climatico, l’idea che l’umanità intera soffre per colpa di noi occidentali, non favoriscono una visione serena del futuro. Il paradosso è che la Generazione Z già maggioritaria nei Paesi emergenti, dall’India all’Africa, è molto più ottimista della nostra.

Quali riflessi avrà tutto ciò sull’elezione americana di novembre? Chicago sarà un remake del caos che regalò all’America la presidenza Nixon? Il 5 novembre i giovani pro-Hamas voteranno per qualche candidato indipendente e radicale (Robert Kennedy Junior, Cornel West) privando Biden di consensi decisivi? Nella misura in cui andrà a votare, anche questa generazione potrà avere un impatto smisurato sulla storia.

Altro colpo di genio del Pd, ora la linea su Ucraina e Israele è ignorare i suoi capilista (linkiesta.it)

di

Cattiva Strada

Mentre scoppia il caso della deroga a Patrizia Toia, l’ex direttore di Avvenire Marco Tarquinio parla di pulizia etnica a Gaza. E, come la figlia del fondatore di Emergency, non voterà per nuovi aiuti militari all’Ucraina

Il Partito democratico ritiene che Israele stia conducendo una pulizia etnica? Non risulta. Non c’è nessuna presa di posizione ufficiale in questo senso. Però è quello che sostiene Marco Tarquinio, candidato numero quattro nella circoscrizione del Centro: «In Palestina non parlerei di genocidio, è una parola pesante che va usata a ragion veduta, ma Israele sta compiendo un’operazione di pulizia etnica. C’è una tendenza a svuotare un territorio da quelli che lo abitano, si chiama «domicidio», la distruzione sistematica delle case». Le parole sono importanti. «Pulizia etnica» era quella di Milosevic e Karadzic in Kosovo.

Piano piano, a sinistra il termine si sta adoperando con facilità a proposito di Israele, alimentando l’equiparazione indegna tra il paese ebraico e i nazisti. Nel “tarquinese”, infatti, «pulizia etnica» pare un modo gentile per non dire genocidio: ma da quelle parti siamo.

Allora sarebbe utile sapere perché nel Pd, se non si è d’accordo, nessuno dice niente. Già sentiamo la risposta: e che ci mettiamo a discutere in campagna elettorale? Sta bene, ma ci si renda conto che non dicendo niente si alimenta l’idea di una ambiguità, di una doppiezza, se non addirittura di una presa per i fondelli degli elettori che forse non hanno chiaro che votando Pd indirettamente aiutano anche l’ex direttore di Avvenire, finito ormai sulle posizioni dei (non molti) studenti che fanno casino nelle Università.

Dopodiché si può legittimamente passare sopra questa macroscopica contraddizione per qualche superiore bene del partito, ma la contraddizione resta e non la si può cancellare appellandosi al pluralismo delle candidature: c’è un limite oltre il quale il pluralismo diventa furbizia, e questo pare proprio il caso.

Lo stesso discorso vale per Cecilia Strada, capolista al Nord ovest, che ha già giurato (come il solito Tarquinio) che a Bruxelles non voterà per nuovi aiuti militari all’Ucraina. Nemmeno questa è la posizione ufficiale del Pd. Si parte dunque con i dissensi già incorporati e con la doppiezza come tattica elettorale.

Meno grave, ma altrettanto sconcertante, è quanto sta avvenendo nel rush finale della composizione delle liste proprio al Nord ovest, dove Patrizia Toia, già quattro legislature (vent’anni) a Bruxelles, ha ottenuto l’ennesima deroga dal partito e dunque sarà ancora in lista.

La Direzione, da remoto, ha ratificato ieri sera la deroga proposta dalla segretaria del rinnovamento, giacché Elly Schlein non ha saputo opporsi alle pressioni di Confindustria e dei cattolici del Pd in favore di Toia, ex popolare e apprezzata europarlamentare, persona molto competente che in questi anni ha padroneggiato diversi dossier.

Dopo tanti anni avrebbe però potuto favorire lei stessa un ricambio, magari a favore di altri deputati altrettanto rilevanti a Bruxelles, se non di più. In assenza di questa generosità, la giovane leader poteva alzare il ditino e chiederle per favore di fare un passo indietro, dopo vent’anni. E invece no.

(italiaoggi.it)

L’ultima del procuratore Gratteri: «Carceri invase da telefonini» (ildubbio.news)

di Valentina Stella

Il magistrato snocciola numeri e dati di una 
presunta invasione di mini apparecchi nelle mani 
dei boss. Costa (Azione): 

«Se non sono a casaccio, il Dap che fa?»

«O il ministero della Giustizia smentisce Nicola Gratteri o il ministero prenda provvedimenti»: non ha usato mezzi termini il responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa, nel commentare l’intervista rilasciata dal Procuratore di Napoli in cui, tra l’altro, ha dichiarato: «cominciamo col dire che mediamente in ognuna delle nostre strutture (carcerarie, ndr) ci sono 100 telefonini attivi in questo momento» e ancora: «detenuti di mafia organizzino chiamate collettive anche da carcere a carcere».

Immediata la reazione, dunque, del deputato e membro della Commissione Giustizia: «100 cellulari per ciascuno dei 190 istituti significa quasi 20mila cellulari attivi nelle carceri. O Gratteri spara numeri a casaccio o Nordio dovrebbe cacciare uno a uno quelli del Dap e i direttori degli istituti».

Ma come stanno in realtà le cose? Lo abbiamo chiesto in primis a Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UilPa Polizia penitenziaria: «Nessuno conosce il numero esatto dei telefoni presenti al momento all’interno degli istituti di pena. Però la percezione è che siano tantissimi». Per De Fazio «le responsabilità sono da addebitare al sistema che consente l’introduzione e la detenzione di questi telefoni, insieme a droga e armi».

La falla «è all’inadeguatezza degli equipaggiamenti e nell’insufficienza degli organici, visto che mancano 18 mila agenti penitenziari. I controlli non sempre vengono effettuati così come dovrebbero essere effettuati su tutto il personale. La stessa polizia penitenziaria dovrebbe essere controllata al suo ingresso in carcere. Chiaramente questo non è possibile e si fanno controlli a campione. Maggiore attenzione è riservata agli estranei».

Ma come entrano i telefoni? «O tramite droni, o lanciandoli oltre il muro di cinta, o dalla porta principale, nascosti persino, quelli piccolissimi, nelle parti intime. Delle volte purtroppo ci sono anche agenti infedeli, ma in altre circostanze si sono resi responsabili pure i volontari, i medici, gli appartenenti a tutte le professionalità che lavorano negli istituti carcerari. Un anno e mezzo fa, se non ricordo male, fu scoperto persino un cappellano mentre introduceva cellulari».

Nel 2022, quando fu audito in commissione Giustizia del Senato, l’attuale Procuratore Nazionale Antimafia, Giovanni Melillo, ricordò come, quando era a lui a capo della procura partenopea, «a Secondigliano in un solo giorno, anzi in una sola ora, erano in funzione 253 telefonini». Le soluzioni? Il responsabile di Via Arenula, rispondendo a febbraio scorso a una interrogazione parlamentare del deputato di Fratelli d’Italia Marco Padovani, che sollevava appunto il problema, chiarì: «Abbiamo avviato una sperimentazione con l’impiego dei jammer reattivi, che sono quelli che dovrebbero appunto schermare.

L’esperimento si è concluso nel gennaio del 2024 e abbiamo ottenuto risultati positivi, però non le nascondo che non è un problema molto facile. La gran parte delle nostre carceri è costituita da istituti abbastanza vetusti per i quali la schermatura tecnicamente è molto difficile da far funzionare, per di più rischierebbe di compromettere anche le comunicazioni delle abitazioni circostanti.

Regina Coeli è piazzata nel centro di Roma e le carceri dove questa scrematura funziona, essenzialmente quelle americane, sono piazzate in mezzo al deserto dell’Arizona o dello Utah o del Texas e sono formate da moduli modernissimi che vengono regolati a distanza e lì questa sorta di schermatura è più facile».

Quindi l’unica soluzione è la prevenzione. In particolare per contrastare l’introduzione di telefoni cellulari all’interno degli istituti penitenziari il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha provveduto negli ultimi anni ad acquistare e distribuire diversi strumenti tecnologici che sono attualmente in uso. In primo luogo, metal detector, sia a portale che portatili, per il controllo di zone di transito e di accesso, oltre a metal detector manuali.

Sono inoltre in uso apparecchiature a raggi X per il controllo dei pacchi destinati alla popolazione detenuta, nonché rilevatori radio di telefoni cellulari. A breve, infine, sarà sperimentata una nuova tecnologia per l’inibizione di telefoni cellulari.

Ma torniamo alla domanda con cui abbiamo aperto l’articolo: ci sono davvero 20 mila cellulari attivi nelle mani dei detenuti in questo momento? Gli ultimi dati ufficiali del ministero della Giustizia risalgono ormai a quattro anni fa: mediante il proprio canale di informazione online via Arenula– ricordava Padovani nell’atto di sindacato ispettivo – «ha divulgato i relativi dati statistici, dai quali si rileva che, solamente nei primi 9 mesi del 2020, sono stati 1.761 gli apparecchi rinvenuti nelle carceri italiane, requisiti all’interno o bloccati prima del loro ingresso. Nello stesso periodo del 2019, erano stati 1.206».

E adesso? Per ora nessuna comunicazione ufficiale è giunta dal Dicastero, quindi la domanda o meglio l’esortazione a fare chiarezza e/o prendere provvedimenti dell’onorevole Costa rimane sospesa. Tuttavia fonti del Dap ci hanno fatto sapere che «sono stati 3606 i cellulari sequestrati in totale nel 2023». In pratica il 18 per cento del totale ipotizzato da Nicola Gratteri. Pur volendo supporre che quelli sequestrati non equivalgono a quelli effettivamente in uso ai reclusi, perché come abbiamo visto ci sono dei buchi nel sistema, come si fa ad arrivare a 20mila?

“Fa pulizia etnica”. Tarquinio spacca il Pd su Israele

di Marco Leardi

Il giornalista, ora candidato alle europee col 
Pd: "Israele sta compiendo un'operazione di 
pulizia etnica". 

Ma tra i dem c’è chi non la pensa così. Si riaccende il dibattito

Pd al bivio. In vista delle ormai imminenti elezioni europee, il partito guidato da Elly Schlein deve fare una scelta. E decidere da che parte stare. Sulla politica estera e in particolare sul sostegno a Israele e Ucraina, infatti, i dem si sono sinora trincerati dietro a posizioni ondivaghe: da una parte hanno appoggiato Tel Aviv e Kiev, dall’altra hanno dato spazio a voci e a candidature apertamente schierate per il pacifismo più convinto.

Ebbene, ora l’ambiguità di questo atteggiamento rischia di deflagrare e di innescare fratture potenzialmente insanabili.

Ad accentuare la diversità delle posizioni in campo è stato proprio nelle scorse ore Marco Tarquinio, ex direttore di Avvenire oggi candidato alle Europee con il Pd. “In Palestina non parlerei di genocidio, è una parola pesante che va usata a ragion veduta, ma Israele sta compiendo un’operazione di pulizia etnica. C’è una tendenza a svuotare un territorio da quelli che lo abitano, si chiama ‘domicidio’, la distruzione sistematica delle case“, ha affermato il giornalista, intervenendo in mattinata sulle frequenze di Giornale Radio.

Dichiarazioni destinate a riaprire il dibattito nell’area dem, all’interno della quale c’è invece chi auspica una presa di posizione netta in favore dello Stato ebraico e della sua legittimità.

Lorenzo Guerini, atlantista convinto ed ex ministro della Difesa, già all’indomani delle stragi del 7 ottobre aveva espresso una linea molto chiara: “Il Pd è dalla parte giusta, con Israele come già con l’Ucraina“. E ancora: “Contro il terrorismo i progressisti si schierano con libertà e democrazia“. Considerazioni ribadite con coerenza anche di recente.

Ma ora la segreteria guidata da Elly Schlein si appresta a mandare in Europa candidati che non la pensano esattamente così. “Sono contrario da sempre all’invio di armi in qualunque teatro di guerra. Sono per stare accanto in ogni altro modo possibile ai popoli aggrediti. La guerra in Ucraina, due anni dopo e in uno scenario che abbiamo inzeppato di armi, si sta solo aggravando“, ha sostenuto Tarquinio nel proprio recente intervento radiofonico.

Le posizioni dell’ex direttore di Avvenire non sono però nuove e infatti, nelle scorse settimane, l’ipotesi (poi concretizzatasi) di una sua candidatura nelle liste Pd aveva provocato mal di pancia in una parte del partito.

Io non ho né l’autorità né la propensione individuale a porre o mettere veti sulle persone. Ho invece l’interesse a far sì che il nostro partito, pur nel rispetto del pluralismo che come dice lei è una ricchezza, mantenga una linea chiara e intellegibile sull’Ucraina, che è in questo momento la questione delle questioni e non ammette spazi per ambiguità“, aveva osservato lo stesso Guerini in una lunga intervista all’Huffington Post.

Ora certe divergenze rischiano di acutizzarsi in concomitanza con le europee e con il loro esito. Anche e soprattutto in riferimento a Israele.

Se il Pd cambierà idea sull’invio di armi? Se un partito di sinistra non è in grado di tenere alta l’idea che la politica e la diplomazia valgono più delle armi e che la pace è l’obiettivo da realizzare, ma che cosa sta dicendo al mondo, alla società alla quale si rivolge, all’Europa che vogliamo fare? Questa è la dimensione costitutiva“, ha aggiunto Marco Tarquinio in radio. Ecco, appunto: nell’Europa futura, che posizione avrà il Pd?