7 nuove malattie associate ai vaccini… (butac.it)

di 

Identificati nuovi effetti collaterali? 
Forse nel 2021...

Sta circolando uno screenshot di quello che sembrerebbe un articolo:

Allerta COVID: scoperte 7 nuove malattie associate ai vaccini Pfizer, Moderna e AstraZeneca

In realtà, con quel titolo esatto, al momento non si trovano articoli pubblicati online in italiano, ed è molto probabile che si tratti di qualcosa di pubblicato poco dopo la partenza della campagna vaccinale del 2021. Il fatto che lo screenshot abbia ricominciato a circolare oggi genera, come sempre, confusione, specie in chi è già stato spaventato di suo negli ultimi quattro anni.

Purtroppo questo modo di comunicare e diffondere messaggi allarmanti è cavalcato da chi ha precisi interessi, politici e di potere, nel mantenere il proprio pubblico confuso e smarrito. Solo così può difatti convincerli a votare per determinati gruppi politici, o donare per specifiche cause, o promuovere narrazioni fuorvianti sui social dedicando tempo e impegno al tirare acqua gratis al mulino altrui.

Qui su BUTAC abbiamo affrontato l’argomento degli effetti collaterali dei vaccini in diversi articoli. Già da tempo abbiamo spiegato, tra i molti più competenti di noi che hanno affrontato l’argomento, che gli effetti collaterali come la miocardite sono stati associati ai vaccini mRNA, ma sempre sottolineando che questi casi sono rari e, nella stragrande maggioranza, risolvibili. È stato inoltre confrontato il rischio di sviluppare miocardite dopo l’infezione da COVID-19 rispetto a quello dopo la vaccinazione, riscontrando che il rischio è significativamente più alto in caso di infezione naturale rispetto alla vaccinazione​.

Per quanto riguarda i dati sulla trombosi e il vaccino AstraZeneca, è stato già sottolineato che, nonostante le preoccupazioni iniziali, gli eventi avversi come la trombosi con trombocitopenia indotta da vaccino (VITT) sono molto rari e la maggior parte dei casi può essere trattata efficacemente. Purtroppo una campagna mediatica fatta da soggetti interessati più al sensazionalismo che alle evidenze scientifiche ha fatto sì che ormai tutti rifiutino l’AstraZeneca.

Per non parlare delle tante volte che abbiamo parlato di reazioni avverse legate ai vaccini Pfizer. Reazioni che nessuno ha occultato, ma che, come nei casi precedenti, sono rare, nella maggior parte dei casi sono curabili; e comunque tutti gli studi fatti fino a oggi hanno dimostrato come i benefici dati dal vaccino superino abbondantemente i pericoli dati dai possibili rari effetti avversi.

Non tenere conto di questo e continuare un’assurda campagna basata principalmente sulla paura e sull’antiscienza è grave, perché porta il pubblico generalista a confusione. Come abbiamo già anticipato parlando della malattia X, dobbiamo essere il più possibile pronti ad affidarci alla comunità scientifica un’altra volta, quando sarà necessario ascoltare chi ha passato la vita a studiare pandemie e umanità. Continuare a dare ascolto a chi invece ci vorrebbe ignoranti e spaventati è pericolosissimo.

La Brexit è stata un disastro. E ora gli inglesi pagano il conto (lespresso.it)

di Eugenio Occorsio

FLOP ANNUNCIATI

Prezzi alle stelle, Pil in calo, disoccupati.

E la questione doganale è nel caos. Il “leave” sta mostrando tutti i suoi danni. E in Scozia potrebbero ripartire le spinte per tornare in Europa

Sadiq Khan, sindaco di Londra, è uno che, si direbbe in Italia, ci mette la faccia. Dal podio del prestigioso Mansion House Dinner 2024, di fronte a mezzo governo conservatore a partire dal premier Rishi Sunak e alle telecamere della Bbc, ha scandito: «La Brexit è un disastro per il Regno Unito. Sono stati persi due milioni di posti di lavoro, la metà dei quali nella finanza e nelle costruzioni (le due fondamenta dell’economia britannica, ndr)».

Non è finita: «La Brexit è causa primaria dell’inflazione (arrivata nel 2022 al 12%, due punti in più dell’Europa e tre dell’America, ndr). Quindi della crisi del costo della vita, che non finisce perché l’inflazione sta scendendo più lentamente che altrove». Più chiaro di così non poteva essere. David Cameron, che da premier lanciò il referendum nel giugno 2016 e oggi è ministro degli Esteri, ha lasciato la sala anzitempo.

«La Brexit è un fattore negativo sul commercio britannico e contribuisce a una caduta nell’offerta di lavoro, fattori che pesano sulle prospettive di crescita a lungo termine del Regno Unito», sentenzia la Bce in un report.

Londra è l’epicentro della crisi: secondo un rapporto di Cambridge Econometrics, in città sono stati persi 290 mila posti di lavoro, l’economia si è ridotta di 30 miliardi, il londinese medio guadagna 3.400 sterline l’anno in meno. Per l’intero Paese il mancato guadagno è di 2.000 sterline e il costo dello sganciamento dall’Ue è di 140 miliardi.

Cruciale è la perdita del mercato europeo: «L’export dei servizi finanziari verso l’Ue – conferma Ben Laidler, “strategist” di eToro, comunità di investitori con 34 milioni di iscritti – è crollato del 15% e il flusso degli investimenti verso il Paese è sceso del 10%. La Gran Bretagna non è più la porta d’ingresso verso l’Europa». Secondo un sondaggio della Camera di Commercio britannica su 1.100 imprese, il 77% di quante commerciano con l’Ue afferma che la Brexit non le ha aiutate a espandere l’attività.

L’Office for Budget Responsibility calcola una caduta del 15% anche del commercio estero in generale, e una riduzione del 4% nella produttività. Prospettive nere anche per il medio termine, malgrado le proteste del governo. «L’aspetto più irritante è che la campagna per il “leave” si basava sulla liberazione da lacci e lacciuoli imposti da Bruxelles e sullo snellimento della burocrazia, ma nulla di tutto questo si è visto, anzi le pastoie se possibile sono peggio di prima», commenta Lorenzo Codogno, ex capo economista del Tesoro e oggi a capo di Lc Macro Advisors a Londra.

«La Gran Bretagna è stata sfortunata – ammette Codogno – perché nella cruciale fase riorganizzativa, fra il referendum e l’entrata a regime del “distacco”, è incappata nella pandemia, nell’inflazione con i rialzi dei tassi, nelle guerre. Mantenere la lucidità per un “reset” così importante, non è facile». Puntualizza Brunello Rosa, docente alla London School of Economics: «Pensare di fare da soli è stato un gravissimo errore geopolitico. Il mondo è diviso di nuovo in blocchi. Cambia l’identità rispetto alla guerra fredda: oltre agli Stati Uniti, c’è la Cina e c’è l’Unione europea.

Puoi avere tutta la tradizione, la forza intrinseca e il blasone che vuoi, ma anche se ti chiami Regno Unito sei destinato a ricoprire un ruolo secondario». La sindrome dell’isolamento travolge perfino la Bank of England, l’istituzione di Threadneedle Street creata nel 1694 e sovraccarica di citazioni e rispetto: «La banca ha dovuto chiamare – spiega Rosa – un consulente del livello di Ben Bernanke, ex capo della Fed nonché premio Nobel, per rivedere il processo di forecasting, cioè le previsioni dell’inflazione che sono alla base delle decisioni monetarie da quando nel 1992 (anno del famoso attacco speculativo ordito da George Soros che travolse lira e sterlina, ndr) la valuta fluttua liberamente sui mercati e quindi va governata con criteri diversi. Gli stessi peraltro di dollaro ed euro, solo che la sterlina è espressione di un’economia più piccola e isolata».

La sterlina è la prima vittima della Brexit, e ha perso dal referendum più del 14%. «Il “sentiment” degli investitori per la valuta resta negativo», dice Michael Hall di Spectrum Markets. Oltretutto, Bloomberg conferma che «l’economia Ue cresce in media del 2,3% in più di quella britannica, e dal 2016 il Pil dell’Ue è cresciuto del 24% contro il 6% di Londra.

Quanto al Pil pro capite, negli ultimi otto anni in Europa è aumentato del 19% in più del Regno Unito». Eppure, sarebbe ancora più destabilizzante un contro-referendum. Il leader laburista Nick Thomas-Symonds, probabile vincitore delle elezioni di fine anno, ha ammonito: «Niente ritorno al mercato unico né all’unione doganale». Intanto, l’immagine iconica del caos è il confine “marittimo” di fronte al porto di Liverpool per l’export manifatturiero verso l’Irlanda: si è creata una dogana galleggiante per evitare di ingolfare quella di Belfast (e non ripetere le code di camion a Dover e Calais) mantenendo fluido il passaggio terrestre verso l’Eire come stabilì l’accordo del “Good Friday” del 1998 che pose fine alla guerra civile, intoccabile ora che il partito Sinn Féin ha vinto le elezioni sia in Irlanda del Nord sia nella Repubblica irlandese.

Basterebbe un incidente per riaprire una pagina dolorosissima, o semplicemente per portare alla riunificazione dell’Irlanda sotto l’egida dell’Ue. A quel punto anche in Scozia potrebbe risvegliarsi la pulsione europeista: la Brexit avrebbe avuto l’effetto paradossale di trasformare la Gran Bretagna in Piccola Inghilterra.

Il negazionismo ideologico di Landini e la crisi del sindacato (ilfoglio.it)

di LUCIANO CAPONE

PRIMO MAGGIO AL CONTRARIO

L’occupazione è a livelli record e cresce quella stabile. Ma la Cgil lancia i referendum contro la precairetà dilagante, quando il problema vero è il rinnovo dei contratti. Il movimentismo politico come spia della crisi del sindacato

Quest’anno la Festa dei lavoratori sarà sicuramente piena di rivendicazioni, ma dovrebbe contenere uno spazio – anche piccolo – in cui i sindacati facciano un bilancio delle proprie analisi e azioni. Lo scorso Primo maggio il governo Meloni, con il decreto Lavoro, effettuò una corposa decontribuzione (6-7 punti percentuali) e modificò la disciplina dei contratti di lavoro a termine.

La Cgil di Maurizio Landini (e al suo traino la Uil di Pierpaolo Bombardieri) disse che le risorse erano insufficienti, sebbene un taglio del cuneo fiscale fino a 7 punti fosse superiore alle richieste del sindacato di pochi mesi prima. Con riferimento alle riforme dei contratti, il decreto Lavoro venne ribattezzato “decreto precarietà”: la norma che consente dopo 12 mesi la proroga dei contratti a termine per altri 12 mesi, ma solo con una giustificazione prevista dal contratto collettivo, venne definita un “insulto” ai lavoratori.

Ma cos’è successo dopo un anno? Quante delle tetre previsioni di Landini si sono verificate? L’Italia ha un mercato del lavoro forte come non mai: gli occupati sono arrivati alla cifra record di 23,8 milioni, con un tasso di occupazione al 62 per cento. Per giunta, il lavoro è diventato anche più stabile e meno “precario”.

Se prendiamo i dati di febbraio 2024, gli ultimi disponibili (in attesa di quelli di marzo che l’Istat rilascerà dopodomani), su base annua c’è stato un aumento degli occupati di 350 mila unità. E questo incremento è più che integralmente dovuto all’aumento degli occupati a tempo indeterminato: i dipendenti permanenti, infatti, in un anno sono cresciuti di 600 mila unità.

Mentre i dipendenti a termine, i cosiddetti “precari”, sono diminuiti di 200 mila unità, così come sono diminuiti gli occupati indipendenti di circa 50 mila unità. Non solo il mercato del lavoro è cresciuto, ma è diventato più stabile. Ed è ancora molto robusto, dato che da quasi due anni – secondo l’Istat – il tasso di posti vacanti è ai massimi storici dell’ultimo decennio (2,3 per cento): vuol dire che le imprese cercano personale, ma fanno fatica a trovarlo.

E quando lo trovano se lo tengono stretto: assumono con contratti a tempo indeterminato per evitare di affrontare in futuro nuovi costi di ricerca e selezione del personale. Insomma, quello che si vede a distanza di un Primo maggio è l’esatto contrario della catastrofe preannunciata da Cgil e Uil. Ma la cosa più grave che è la situazione è anche l’opposto del mondo al contrario che Landini (mica Vannacci) continua a descrivere oggi.

Il segretario della Cgil, infatti, continua a parlare di una precarietà dilagante, usando dati manipolati o malcompresi dell’Inps che considerano solo i nuovi rapporti di lavoro attivati invece della variazione netta. E sulla base di questa rappresentazione distorta della realtà ha avviato una raccolta firme per promuovere quattro referendum per abolire il Jobs Act (ciò che ne resta) e la precarietà.

Si tratta, in tutta evidenza, di un sindacato che da un lato si è chiuso in una sorta di negazionismo rispetto alla realtà del mercato del lavoro, e dall’altro si è lanciato in una campagna movimentista e politica che ha come obiettivo l’indebolimento del governo. E’ la strada che ha scelto la Cgil dal 2021 quando, dopo sette anni da quello contro il Jobs Act, indisse uno sciopero generale contro il governo Draghi. E se lo fece contro un governo di unità nazionale, figurarsi contro uno di destra guidato da Giorgia Meloni.

Così, ormai, sono tre anni consecutivi – e, inevitabilmente, con questo quattro – che Cgil e Uil (ma non la Cisl di Luigi Sbarra) fanno scioperi generali. Proprio nella fase in cui il mercato del lavoro corre. Ciò non vuol dire che tutto vada bene. Anzi. L’Italia è il paese Ocse dove, durante la fiammata inflattiva, i lavoratori hanno subìto la più forte perdita di potere d’acquisto: meno 9 per cento nel terzo trimestre 2023 rispetto al 2019. Il paradosso è che il mercato del lavoro va bene, mentre i salari vanno male.

E per giunta, non potrà più essere lo stato a proteggere i salari a colpi di decontribuzione: i deficit fiscali al 7-8 per cento annui non sono più sostenibili e, con il ritorno delle regole fiscali europee, l’Italia dovrà costruire rapidamente un consistente avanzo primario per contenere un debito pubblico crescente. Ma in questo quadro difficile si apre una finestra di opportunità. Perché siamo in una fase di rinnovi contrattuali: alcuni sono stati recentemente firmati (si pensi a quello del commercio), ma 4,6 milioni di dipendenti (il 35 per cento del totale) sono in attesa di rinnovo.

Per giunta, il forte calo dell’inflazione e la crescita dei profitti acquisita nel triennio passato dalle imprese lasciano spazio per un importante recupero dei salari. E’ forse dei rinnovi contrattuali, più che dell’opposizione politica alla Meloni, che dovrebbero occuparsi i sindacati: avere come controparte i datori di lavoro più che il governo, magari chiedendo a quest’ultimo di agevolare i rinnovi.

Eco, il nuovo mensile di economia diretto da Tito Boeri, è stata pubblicata una ricerca di quattro economisti – Agnolin, Anelli, Colantone e Stanig – che indica una crisi profonda del sindacato: il tasso di sindacalizzazione è in forte contrazione negli ultimi 20 anni. “L’Italia – scrivono i ricercatori – rischia di raggiungere i livelli di partecipazione sindacali più bassi dell’Europa occidentale, quelli della Francia, che ha sindacati agguerriti ma con bassa adesione tra i lavoratori”.

E’ proprio la tendenza conflittuale e ideologica che la Cgil sta mostrando negli ultimi anni. Una strada per recuperare adesioni è quella di occuparsi di più dei rinnovi contrattuali che dell’opposizione politica al governo. Sarebbe un modo per avvicinare al sindacato le centinaia di migliaia di dipendenti assunti con contratti stabili in questi anni e che sono entrati nel gioco della contrattazione collettiva.

Soprattutto considerando che Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, è la prima forza politica tra i lavoratori.

(italiaoggi)

Europee, 5stelle a corto di entusiasmo e consensi. Lo spauracchio di restare sotto al 10%

di Sara De Vico

A un mese dalle europee i 5Stelle non navigano 
in buone acque. 

Lo sdegnoso rifiuto di Giuseppe Conte a scendere in campo in prima persona, condito con lezioni di democrazia per demonizzare i leader che invece guideranno le liste elettorali, non ha funzionato. In casa grillina, al netto delle sparate comunicative del capo, non si registra particolare entusiasmo. Lo dimostra plasticamente la scarsa partecipazione al voto online per la scelta delle candidature e le roventi polemiche per alcuni esclusi eccellenti, fatti fuori dal capo.

5Stelle, entusiasmo ai minimi storici

Solo un decimo degli aventi diritto ha espresso la sua preferenza alle europarlamentarie. Un astensionismo che dovrebbe far riflettere il capo. A differenza di quello che succede altrove nelle liste 5Stelle mancano grandi nomi di richiamo della società civile capaci di drenare consensi al di fuori dell’elettorato più fedele. A scorrere le liste non c’è neppure la vecchia guardia: rottamati dal capo senza deroga allo statuto i vari Alessandro Di Battista, Virginia Raggi, Roberto Fico.

Liste deboli, scarsa partecipazione alle europarlamentarie

Lo zoccolo duro si è assottigliato e il movimento del vaffa sembra aver perso lo smalto di una volta e la carica anti-sistema. Se l’arruolamento di Conte non ha prodotto testimonial di grido da mettere in campo per Strasburgo le ultime amministrative in Sardegna, Abruzzo e Basilicata hanno certificato un crollo elettorale da brividi.

Insomma con buona pace dei sondaggi che continuano ad attestare i 5Stelle tra il 15 e il 17 per cento, la paura di non superare l’asticella del 10% si fa sempre più concreta, come registra oggi Repubblica. Non solo alle regionali il partito fondato da Grillo non è riuscito a superare il 7 per cento ma storicamente la percentuale accreditata dalle simulazioni di voto si è sempre rivelata superiore all’esito reale delle urne.

Si teme di non superare la soglia del 10%

Alle europee del 2014 i 5Stelle,  fieramente all’opposizione, entrati per la prima volta in Parlamento da un anno, venivano accreditati intorno al 25%, ma presero il 21% malgrado una campagna elettorale molto aggressiva tutta giocata contro la casta. Nel 2019, alla guida del governo gialloverde da un anno, i sondaggi davano il partito di Conte premier tra il 22 e il 24 ma presero il 17.

L’incognita delle alleanze in Europa

La mancata collocazione nello scacchiere europeo, inoltre, non fornisce agli elettori l’idea di un timone saldo. Come nel 2014 e nel 2019 anche oggi il M5S non ha una famiglia europea di riferimento. Messa da parte l’alleanza con il britannico Farange della fase no euro, Conte ha tentato senza risultati prima l’accordo con i socialisti e poi con i verdi. Oggi il campo delle alleanza resta quello, magari con l’aggiunta di La Sinistra, ma con troppe incognite.

Per nulla scontato che la sinistra radicale rossoverde, con al suo interno partiti che si definiscono neo-comunisti, accetti di buon grado l’ingresso pentastellato, ritenuto poco identitario e troppo ‘progressista”.