Milano, le donne dem contro Marco Tarquinio, candidato Pd alle Europee: «Sull’aborto basta dirci come usare il nostro corpo» (corriere.it)

di Chiara Baldi

Nel post su Instagram le dem denunciano la 
situazione «tragica» di chi vorrebbe abortire

«Come donne democratiche diciamo a Marco Tarquinio che ci siamo stufate del diritto di tutti a dirci come usare, vivere e percepire il nostro corpo». Sono le parole che le donne democratiche di Milano – comunità politica del Pd cittadino – rivolgono, su Instagram, all’ex direttore di «Avvenire», Marco Tarquinio, voluto dalla segretaria Elly Schlein tra i candidati alle Europee nella circoscrizione del Centro Italia.

Tarquinio in una intervista a Repubblica uscita l’8 maggio ha infatti spiegato che «l’aborto non è un diritto» e che «non ci possono essere diritti sulle vite degli altri».

«Tragica – scrivono le esponenti pd – è la situazione di chi vorrebbe abortire  ma non può farlo perché il 90 per cento dei medici sono obiettori. Tragico è che stiano smantellando i consultori. Tragico è che in quei pochi che restano ci siano i pro-life».

Proprio martedì, nella seduta al Pirellone, il sottosegretario con delega Autonomia e Rapporti con il Consiglio Regionale, Mauro Piazza, rispondendo a un’interrogazione del gruppo Patto Civico, aveva spiegato che «Regione Lombardia ha sempre attuato quanto previsto dalla Legge 194 e ha sempre collaborato con il Terzo settore e intende avvalersi di tutte le possibilità che l’ordinamento mette a disposizione per contrastare la denatalità», e che «le iniziative di Regione Lombardia potranno essere integrate con le nuove opportunità concesse dalla normativa di recente applicazione».

Il riferimento è alla misura inserita dal governo nel Decreto Pnrr che consente alle associazioni pro-vita di entrare nei consultori pubblici.

Milano, le donne del Pd contro Marco Tarquinio, candidato alle Europee: «Sull'aborto basta dirci come usare il nostro corpo»

Quel realismo ipocrita e balordo che cancella il 7 ottobre e vuole abbandonare il popolo ucraino (ilriformista.it)

di Iuri Maria Prado

Churchill o Kissinger

L’idea che per intelligente “realismo” bisognerebbe abbandonare il popolo ucraino a un destino di sottomissione, giacché aiutarlo a difendersi significherebbe aggravarne le sofferenze, non è davvero nuova sulla scena del nostro dibattito pubblico.

Anzi, sulla scorta dell’argomento secondo cui già due anni e mezzo fa, già all’inizio dell’aggressione russa, gli ucraini avrebbero dovuto uniformarsi al “dovere morale della resa”, quell’idea realista era ben in voga e aveva profondamente impregnato la pasta di ragionamenti tutt’altro che minoritari.

Ma è in forza di quel pregresso accreditamento se, oggi, l’appello al “realismo”, a questo presunto realismo, trionfa nella conclusione che no, la sovranità e la libertà del popolo invaso non valgono i vantaggi che sarebbero assicurati da un’Ucraina disarmata.

Il Corriere della Sera lo spiega con un articolo di Massimo Nava: “Anziché Churchill”, scrive, “sarebbe il caso di citare Kissinger e ricordare che il mondo di oggi è uscito da Yalta e non dalle Crociate”. Sull’assunto, par di capire, che “continuare a riempire di armi l’Ucraina” non sia degno delle lungimiranze crimeane dei vincitori della seconda guerra mondiale, e rimandi piuttosto alle ambizioni guerresche di Ottone Visconti in partenza per la Terrasanta. Così come, sempre per l’articolista del Corriere, il senso della realtà vorrebbe che la si smettesse di “sostenere senza riserve Israele per evitare l’accusa di antisemitismo”.

Il fatto, se possiamo permetterci di osservarlo, è che Churchill a Yalta non solo ci stava, ma su quella sedia aveva messo il sedere dopo aver combattuto – in patria e fuori – quelli che gli dicevano prima di non preoccuparsi dell’imbianchino austriaco e poi, appunto per realismo, di lasciarlo fare perché ormai era troppo forte.

Churchill non è solo qualche citazione abusata: è quello che mandava armi a Stalin imponendosi sui tanti che gli davano contro accusandolo di trascurare il proprio paese già dissanguato. E, a dispetto di un consenso già precario, Churchill continuava a mandargliele non perché temeva l’estetica delle insegne del Terzo Reich sul Cremlino, ma perché sapeva che non vederne un’Europa tappezzata dipendeva anche dalla sconfitta tedesca su quel fronte.

Giusto come mandare armi all’Ucraina non serviva due anni fa e non serve oggi (se non bastasse questo) a salvare la vita e la libertà degli ucraini, ma a impedire che su un altro avamposto violentato si impianti la promessa di sopraffazione delle libertà circostanti. Che sono le nostre.

Anche meno appropriato, poi, appare il richiamo a questo malinteso realismo quando ci si riferisce alla guerra di Gaza. Scrive il Corriere che “l’orrore per i crimini di Hamas ha oscurato le obiezioni alla reazione di Gerusalemme”. Ma a parte il fatto che questo preteso oscuramento pare abbastanza illuminato dalle quotidiane requisitorie contro il nazismo e il terrorismo di Israele, di cui forse anche il Corriere avrà avuto notizia, domandiamo: per “realismo” ce lo dimentichiamo il 7 ottobre?

E soprattutto: per realismo ci dimentichiamo di quelli che promettono di volerne rifare a tappeto dal fiume al mare?

Schlein è convinta di poter mandare a casa Meloni sulla riforma costituzionale (linkiesta.it)

di

Resistenza al premierato

La segretaria del Pd ha chiesto ai suoi senatori di usare «corpi e voci» per fare ostruzionismo al Senato. La sua speranza è che la leader di Fratelli d’Italia segua un copione simile a quello di Renzi nel 2016

«Vi chiedo di usare i vostri corpi e le vostre voci per fare muro rispetto a questo tentativo». Non è “Fragole e sangue”, è Elly Schlein ai senatori democratici, è lo squillo di tromba per chiamare la truppa a raccolta, i «corpi» si preparino per la Resistenza al premierato, una vecchia proposta di Massimo D’Alema e dell’Ulivo diventata nell’era Meloni una legge fascistissima come quelle del 1925, proprio perché il contesto è quello che è: non ci sono in giro i Giovanni Spadolini e i Giorgio Napolitano, ma gli Ignazio La Russa e appunto Giorgia Meloni e il suo circo.

Lei ha detto che è una riforma «per chi verrà dopo» ma intanto c’è lei, che pensa a una riforma costituzionale approvata a maggioranza non larghissima e plebiscitata dal popolo. Dunque, dice Schlein, bisogna «fare muro» con i «corpi», come il ragazzo cinese senza nome, il Tank Man che nel 1989 a Tienanmen cercava di bloccare il carro armato del regime.

I corpi delle senatrici e dei senatori dovranno impedire che il Senato licenzi in tempi rapidi il testo governativo che prevede – con tutte le lacune evidenziate da uno stuolo di giuristi, finanche da alcuni non ostili al governo – l’elezione diretta del premier e il contestuale indebolimento della figura del presidente della Repubblica: è la bandiera di Meloni a caccia di un meccanismo che le consenta di governare diversi anni con meno impacci possibili, a partire da quella sempre incombente rottura di scatole che è il Quirinale presidiato da Sergio Mattarella.

Ed ecco allora che Elly diventa la Tank Woman della grande battaglia per la difesa della democrazia, ci vuole la lotta, dunque tutti in piazza il 2 giugno (i «corpi»), e un simil-ostruzionismo parlamentare, appunto le «voci», e infatti ieri i dem al Senato (seduta nervosa) si sono iscritti a parlare in tanti per allungare i tempi e, come si dice in questi casi, tenere alta la tensione: il popolo capirà che l’opposizione c’è.

In effetti il momento è cruciale, tra un mese esatto si vota per le Europee e una grande manifestazione a difesa della democrazia qualche giorno prima ci sta tutta. Ma questo è solo l’inizio, c’est ne qu’un debut. Perché lo scontro finale sarà il referendum confermativo che il Partito democratico è convinto che seppellirà il premierato e la sua sostenitrice numero uno.

Come fu con Matteo Renzi, no? Lo volevano mandare via, preferibilmente per sempre? Il referendum del 2016 fu l’occasione giusta, servita su un patto d’argento. Ugualmente il copione potrebbe ripetersi con Giorgia al posto di Matteo – per molti dem non c’è poi tutta questa differenza.

D’altronde la presidente del Consiglio ne è consapevole, «è un rischio per me», ha detto in un convegnone alla Camera con mezzo mondo, tra cui Iva Zanicchi e Pupo, intitolato “La Costituzione è di tutti”. E però la sua modifica – e che modifica! – è voluta solo da una parte. Lo scontro tra arieti è cominciato.

Schlein, Jobs Act e il Pd radicalizzato (laragione.eu)

di Carlo Fusi

L’arresto di Giovanni Toti ha messo in sordina 
la polemica sulla decisione della leader del Pd 
Elly Schlein di firmare il referendum per 
l’abolizione del Jobs Act

L’ennesimo arresto eccellente – Giovanni Toti, presidente della Liguria – e la conseguente enfasi mediatica sullo scontro giustizia-politica (con quest’ultima che mai riesce a uscire dal doppiopesismo o dalla sindrome manettara) ha momentaneamente messo in sordina la polemica riguardo la decisione della leader del Pd Elly Schlein di firmare il referendum promosso dalla Cgil sull’abolizione del Jobs Act.

Legge a suo tempo votata, perfino con qualche entusiasmo, dallo stesso Pd a conduzione renziana. Il segretario è cambiato, molti parlamentari che allora sottoscrissero la norma no; ma non è questa, seppur grave, né la sola né la più grave delle contraddizioni.

Molti osservatori hanno sentenziato che con quella firma il Pd ha rinnegato il riformismo come pratica politica. È così? La prima cosa da dire è che risulta insensato lo stupore per la scelta. Elly Schlein sta dove sta perché il riformismo – qualunque cosa s’intenda con questo termine – ha subìto nel Pd una sconfitta strutturale. La sua vittoria è avvenuta all’insegna della «radicalità» (Franceschini dixit) che avrebbe da quel momento dovuto contraddistinguere la linea politica del Nazareno.

Nessuno stupore anche per il sussiegoso silenzio dell’ala riformista interna al partito. Casomai suscita tenerezza l’idea che una bandiera così identificativa della tradizione del socialismo non solo italiano possa sventolare all’ombra del profilo dell’ex ministro Lorenzo Guerini, le cui radici e tradizioni sono di altro genere.

Il punto è però che il riformismo – un ideale impossibile da sotterrare – non è proprietà privata e se viene dismesso da una parte è logico che ce ne sia un’altra che se ne impossessi. È del tutto legittimo che il Pd voglia costruire la sua identità sotto l’usbergo della radicalità; assai meno lo è immaginare che la propria scelta non produca conseguenze. 

Più chiaramente: se la sinistra s’invaghisce della radicalità, la prateria riformista viene occupata dalla destra. Le cui riforme sono note: premierato con firma FdI; autonomia differenziata emblema della Lega; separazione delle carriere dei magistrati voluta da Forza Italia.

Di conseguenza, di fronte a uno scenario siffatto, ci sono due possibilità per il Pd: o accettare la sfida sul crinale riformismo/radicalismo e vedere cosa premiano gli italiani; oppure da posizioni di minoranza provare a limitare i danni che l’armatura politica indossata comporta.

In questa direzione va il tentativo del drappello di costituzionalisti ed esponenti politici bipartisan – da Stefano Ceccanti a Gaetano Quagliariello, passando per Enrico Morando e Peppino Calderisi – che cercano di rendere il più possibile potabile l’elezione diretta del presidente del Consiglio con emendamenti volti a salvaguardare l’impianto parlamentare della Costituzione, potendo contare nel centrodestra sul lavoro fatto da Marcello Pera.

Morando spiega che se la maggioranza vuole il premierato si tratta di una ‘vittoria’ della sinistra che da sempre lo propone. Il Pd, al contrario, spara a zero sull’impianto riformista del centrodestra e i Cinquestelle non sono da meno. Ma se impugni la radicalità come puoi sorprenderti che gli avversari s’impossessino del riformismo?

Non solo. La scelta di Schlein produce conseguenze anche fuori dai nostri confini. Com’è noto, tra meno di un mese si vota per il rinnovo del Parlamento europeo: a suo tempo lungo fu il travaglio del Pd prima di decidere di iscriversi al Pse. Fu soprattutto Matteo Renzi a battersi per quell’opzione.

Ebbene, adesso il Pd diventa una forza ‘estrema’ nel contenitore socialista continentale, mentre chi ha battagliato per la scelta di allora è fuori dal partito e milita in un aggregato centrista ‘macroniano’.

L’elenco delle contraddizioni è corposo. Resta da capire quanto apprezzabile da parte degli elettori.

Ambientalismo a parole: nei fatti Schlein si schiera contro il fotovoltaico (ilfoglio.it)

La posizione della segretaria dem sugli impianti 
fotovoltaici assomiglia a quella del ministro 
Lollobrigida. 

Il Pd è ecologista negli intenti, ma poi in concreto ha posizioni persino più estreme del centrodestra

Il Pd non perde occasione di rivendicare la battaglia per l’ambiente e accusare il governo di trascurare l’emergenza climatica. Ma cosa ne pensa del decreto voluto dal ministro Francesco Lollobrigida per bloccare la realizzazione di grandi impianti fotovoltaici su terreni agricoli?

Lo ha chiarito la segretaria, Elly Schlein, ospite di Legambiente (molto critica sul provvedimento): “Serve una programmazione regionale per non esporre il piccolo agricoltore al ricatto della multinazionale che vuole fare una grande distesa di pannelli sul suo suolo”. Anzi, “bisogna far sapere all’agricoltore che esiste l’agrivoltaico che permette di non sacrificare suolo coltivabile”.

Praticamente la stessa posizione di Lollobrigida, che vuole “porre la parola FINE (sic!) alla speculazione” e rimanda all’agrivoltaico. Peccato che si tratti di due cose diverse: l’agrivoltaico consiste di costose installazioni per elevare i pannelli e consentire una qualche forma di coabitazione con le attività agricole, mentre il decreto interviene contro la realizzazione di impianti di larga scala, quelli in assoluto più competitivi, senza i quali sarà difficile raggiungere i target che il governo ha accettato e che il Pd addirittura giudica insufficienti.

Non solo: il Pd sardo ha depositato in Consiglio regionale una mozione a supporto della moratoria contro le rinnovabili dichiarata dalla presidente Alessandra Todde. Dicono i dem sardi: “La mozione è una chiamata alle armi ai sardi affinché ci si mobiliti dinanzi a quello che si annuncia come un vero e proprio assalto alla nostra isola”. Tutto ciò a dispetto della sollevazione delle associazioni ambientaliste e delle associazioni di imprese raccolte nel Coordinamento Free.

Il Pd è ecologista a parole, ma poi in concreto ha posizioni persino più estreme del centrodestra. Che sia un complotto per spingere una parte dei propri elettori a votare i Verdi, garantendo così al partito di Angelo Bonelli il superamento della soglia del 4 per cento?

È bello pensare che ci sia del genio, ma la sensazione è che ci siano soltanto follia e confusione.

Un primo maggio dai bersagli sbagliati (lavoce.info)

di

Se il governo emana un “decreto lavoro” con 
agevolazioni sulle assunzioni nel momento in 
cui sono a livelli record, 

il sindacato risponde con referendum che guardano al passato. La lettura miope del mercato del lavoro fa perdere di vista i problemi veri.

Dal governo arriva un nuovo “decreto lavoro”

Il primo maggio di quest’anno si celebrerà in un clima di contrapposizione frontale, con pretese ideologiche che non fanno gli interessi dei lavoratori. Da una parte, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per il secondo anno di seguito emana un “decreto lavoro” proprio il primo di maggio, con l’intento esplicito di rivendicare a sé il mondo del lavoro. Dall’altro, Cgil e Uil lanciano i referendum sul lavoro con lo sguardo volto all’indietro.

Il “decreto lavoro” ha un chiaro intento di sfida nei confronti dei sindacati. Contiene, in particolare, una norma sulla deduzione maggiorata dei costi del lavoro al 120 per cento a favore delle imprese che assumono a tempo indeterminato. Il fatto che si tratti di deduzioni e non decontribuzioni è la risposta del governo Meloni alle (fortunate) decontribuzioni per i nuovi assunti che hanno caratterizzato i governi precedenti a partire dal 2015.

Sarebbe il caso di sottolineare l’anacronismo della misura, che viene introdotta in coincidenza con la massima espansione dell’occupazione a tempo indeterminato e diventa dunque un regalo a imprese che comunque assumono. Ma il sindacato non può farlo, perché sembra purtroppo impegnato a dimostrare il contrario, ovvero che il mercato del lavoro e l’occupazione vanno male.

La lettura ideologica del mercato del lavoro

Negli ultimi mesi il numero degli occupati totali e il numero dei dipendenti con contratti a tempo indeterminato hanno raggiunto il valore massimo da quando esistono le statistiche in Italia. Invece di concentrarsi sul tema dei bassi salari – salario minimo legale per i lavoratori a basso reddito e rinnovo possibilmente generoso dei contratti per tutti – ci si accanisce a dimostrare l’indimostrabile, ovvero che le quantità di lavoro sarebbero in verità in calo: l’aumento dell’occupazione sarebbe fasullo perché le ore lavorate sono tuttora inferiori al picco 2007-2008; i dati sull’occupazione sarebbero gonfiati dalla presenza, in crescita, di cassintegrati; il part-time e il lavoro a termine sarebbero in crescita (addirittura 11 milioni i precari).

Non è utile piegare l’analisi economica alla volontà politica di rilanciare un referendum sui contratti a termine e sul Jobs act – i quattro quesiti sono tutti rivolti a battaglie del passato – quando invece i veri nodi di oggi ruotano intorno alla questione salariale.

Si tratta dei salari dei lavoratori marginali – quindi la battaglia per il salario minimo legale; della mancanza di carriere adeguatamente retribuite per i giovani; del rinnovo dei contratti nazionali e della distribuzione dei profitti attraverso la contrattazione decentrata nelle imprese grandi e medie.

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Ognuna di queste battaglie richiede uno sforzo eccezionale, che verrebbe vanificato se l’obiettivo venisse spostato verso un problema che non c’è. Infatti, le ore lavorate (quelle da lavoro dipendente, che sarebbero le uniche che contano se il problema fosse davvero la crescita del precariato) sono state nel 2023 ben superiori sia rispetto al 2007-2008 che rispetto al 2019.

È vero che i cassaintegrati per un periodo inferiore a tre mesi sono considerati occupati, ma fortunatamente anche nel 2023 sono diminuiti rispetto al 2022 (per non parlare ovviamente del confronto con il 2020-2021). I dipendenti a tempo indeterminato sono cresciuti molto più di quelli a tempo determinato, tanto che da agosto 2023 l’incidenza dei dipendenti a termine sul totale è scesa sotto al 16 per cento.

Quanto al part-time, ha certamente conosciuto un’esplosione negli ultimi 20 anni, ma tutta la crescita occupazionale post-Covid è dovuta al tempo pieno.

Perché i salari sono bassi

I salari bassi italiani da lavoro dipendente, anche rispetto agli altri principali paesi europei (in particolare la Francia), sono imputabili a tre fenomeni: le poche ore lavorate per il numero alto di part-time; le discontinuità dovute ai lavori a termine (stagionalità legata al turismo; supplenze nelle scuole, per esempio) e – tra i lavoratori full-time – la mancanza di posizioni alte, con salari sopra i 40 mila euro lordi annui: nel 2021 in tale condizione è risultato solo il 9 per cento dei dipendenti.

Il primo fenomeno è frequente nelle piccole e piccolissime imprese e non di rado si accompagna a comportamenti illegali o irregolari. Il secondo attiene alla struttura produttiva italiana e, nel caso del settore pubblico, a irrisolte questioni strutturali di lungo periodo. Il terzo è un tema rilevante soprattutto per le medie e grandi imprese e per la loro capacità di offrire percorsi di carriera e retribuzioni conseguenti.

Sono fenomeni ai poli opposti del mercato del lavoro dipendente, ma tutti concorrono a far sì che la media dei salari sia trainata verso il basso. Se invece guardiamo nel mezzo della distribuzione dei salari, al livello base dei principali contratti per posizioni full-time, non ci sono differenze apprezzabili con la Francia.

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Le implicazioni sono chiare, sebbene le soluzioni non siano ovvie: va affrontato il problema del part-time (e soprattutto quello dei part-time minimi con pochissime ore) e va incentivata l’apertura di posizioni da lavoro dipendente sopra i 40 mila euro annui.

Quest’ultimo tema ha a che fare con la capacità di attrarre nuove imprese e rinnovare le gerarchie aziendali (uno studio su dati Inps mostra come i giovani siano sempre più spinti in fondo alle gerarchie aziendali da 20 anni a questa parte). Probabilmente ha anche a che fare con il trattamento fiscale di favore riservato in Italia ai lavoratori autonomi a relativamente alto reddito (fino a 85 mila euro lordi). Ciò fa sì che sopra i 40 mila euro lordi convenga sia all’azienda sia al lavoratore un rapporto di lavoro autonomo invece che dipendente: è un caso unico in Europa.

Procedere per legge è sempre foriero di rischi, basti ricordare che in Francia hanno impedito per legge i contratti part-time inferiori alle 26 ore settimanali, ma uno studio di una ricercatrice francese di Princeton, Pauline Carry, ha valutato che la norma ha penalizzato le donne: invece di due donne part-time, in molti casi si è preferito un uomo full-time.

Si possono fare diverse cose per contrastare o almeno arginare il part-time involontario: dai controlli al salario minimo legale, alle integrazioni del reddito per chi lavora poche ore. Basta volerlo e non sbagliare analisi e obiettivi, accecati dall’ideologia.