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Il format antifa contro questi qua, e la nostalgia dei bei tempi berlusconiani (linkiesta.it)

di

Camerati d’Italia

Storia della trentennale ossessione antiberlusconiana, via Ceccarelli e Minuz, che improvvisamente è diventata un simpatico ricordo familiare, a causa di una nuova e impellente emergenza democratica

Prologo. È il 1997, il governo Prodi ha un anno di vita, e Massimo Gramellini pubblica un libro berselliano ed esilarante sulla sinistra di governo. S’intitola “Compagni d’Italia”, è fuori catalogo da decenni, e le copie nelle librerie dell’usato le ho comprate tutte io per regalarle ai miei fortunati amici.

Il capitolo sulle donne s’intitola “L’Oliva”, e comincia così: «L’Oliva è una donna di sinistra che lavora. In ufficio, a casa, e anche a letto: non vi è luogo, ormai, in cui non tocchi a lei prendere l’iniziativa». Non sarò certo io a dire che negli ultimi trent’anni l’Italia è rimasta così identica che, se togliamo «di sinistra», “L’Oliva” descrive perfettamente Giorgia Meloni. Fine del prologo.

«Quando arrivarono i comunisti la Rai venne parlamentarizzata, la Dc aveva l’1, i socialisti il 2, i comunisti il 3. Anche Berlusconi, a parte qualche gesto di ferocia come l’editto bulgaro, un gesto di collera “divina”, non chiedeva tanto. I suoi pensavano alle ballerine. Questi no», «A cosa pensano?», «Sono arrivati per imporre una visione del mondo». La conversazione si svolge martedì, sulla Stampa, tra Corrado Augias e Annalisa Cuzzocrea, e io nel leggerla cascherei dalla poltrona, se non mi stessi ormai abituando al format.

Il format prevede che l’editto bulgaro, con cui per anni l’abbiamo menata come ferita alla democrazia che faceva impallidire le leggi razziali, ora sia un simpatico ricordo familiare, a confronto di questi qua (sublime nome collettivo ceccarelliano per gli scappati di casa che governano questo secolo).

Il format s’intitola: Questi sì che sono fascisti, mica come quelli di prima. Che però è la stessa cosa che dicevamo di quelli di prima, quindi qual è l’«al lupo» cui dobbiamo dare retta, quello attendibile, quello preoccupante? Quand’è che dobbiamo credere che adesso sì siamo in pericolo – noi, la democrazia, qualcosa, qualcuno – e adesso sì che è la volta diversa da tutte le altre?

In “C’eravamo tanto odiati”, Andrea Minuz spiega bene che l’antiberlusconismo è (stato?) un «disturbo caratteriale del ceto medio riflessivo» e un «collante sociale», e chi c’era sa che è vero, ma la questione è: cosa l’ha rimpiazzato, a Berlusconi morto da undici mesi che paiono undici secoli? Scriversi «antifa» nelle bio dei social? Iscriversi alla chat di Giannini? O è proprio il dire «questi sono peggio» il nostro nuovo collante sociale, il nostro nuovo pavlovismo, il tic collettivo che ci fa sentire dalla parte giusta?

Mica il format è un’esclusiva della sinistra, eh. Anzi: fa molto più ridere quando lo inscenano ex sodali di Berlusconi per cui se una cosa la faceva lui era un’allegra guasconata e se la fanno questi qua è allarme democratico. Sempre martedì, la sera, da Floris c’era Carlo Rossella, che ha spiegato che non è più come una volta, adesso «io mi sento molto a disagio come democratico in questo paese». Addirittu’.

A proposito della Rai, Rossella ha spiegato che la differenza è che «Teleberlusconi era una cosa, c’era un gran simpaticone, che era Berlusconi, c’era molta più libertà, Berlusconi parlava e poi lasciava fare». Se vivi abbastanza a lungo, ti trovi a rimirare le convergenze parallele tra Corrado Augias e Carlo Rossella. Chi l’avrebbe detto, trent’anni fa (ma pure dieci).

L’altro giorno ero a casa di Natalia Aspesi, che aveva sulla scrivania “B, Una vita troppo”, il nuovo libro di Filippo Ceccarelli. Ho sbuffato, ma chi le legge seicento pagine su Berlusconi, sembra di parlare di trecento anni fa. Poi sono tornata a casa mia, mi sono messa a riordinare i libri che si erano accumulati nell’ingresso, e quando sono arrivata a quello di Ceccarelli mi sono seduta per terra e non riuscivo a smettere di leggere, presa per incantamento non so bene se da B. o da me.

Berlusconi è la nostra madeleine? La nostra formazione? Il parametro contro cui confrontare tutto ciò che di brutto accade? La nostalgia canaglia di una gioventù di manifestazioni contro un parlamento di intellettuali per poi ritrovarci con questi qua? L’unico vero esercizio interclassista da molti di noi mai praticato, data la giusta precisazione ceccarelliana dell’«identità politicamente incerta» dell’antiberlusconismo, in cui «dal ceto medio riflessivo era agevole scivolare verso il più sperimentato plebeismo»?

La risposta al perché quello che ci sembrava il peggio adesso ci sembri il meglio sta nell’inarrestabile declino delle élite, o in quel fotogramma delle bufale, che Ceccarelli compra da uno spacciatore casertano che, per garantirgliene la bontà, lo rassicura: «Queste mozzarelle le mangia pure Berlusconi!»? Il declino delle élite, il declino dei latticini.

Tre settimane fa, è stata sempre Cuzzocrea (la panchina delle intervistatrici è assai corta), eroicamente disposta a sembrare stolida (l’unica disposizione d’animo indispensabile a fare buone interviste), che intervistando Enrico Mentana gli ha formulato in tutti i modi l’obiezione «eh ma questi sono fascisti», mentre quello continuava a ripetere che chiunque sia mai stato al potere in questo paese ha occupato la Rai, che non c’erano sostanziali differenze tra questi qua e quelli prima.

Era il 18 aprile. Mentana diceva, a proposito di Canfora, che «chi usa le parole sa cosa sono», e Cuzzocrea: «Ma quando c’è una sproporzione di potere questo discorso non cambia?». Oppure, lui: «Ma di cosa stiamo parlando? Della campagna elettorale rispetto ai tempi di presenza del governo? È questo l’allarme democratico?»; e lei: «È uno sbilanciamento, no?». Era un’intera pagina di «sì, lo so che son trent’anni che diciamo che son fascisti, ma questi son fascisti davvero», come obiezione a chi ha una qualche memoria storica (grandissimo ostacolo al prendere i like con la faciloneria del «brutti fascisti»).

Due giorni prima, Corrado Augias (anche la panchina degli intellettuali di sinistra è corta) era andato da Floris (per non parlare di quant’è corta la panchina dei programmi televisivi) a dire che la malagestione della Rai attuale è molto più malagestione della malagestione di quando si facevano girotondi e altre amenità: «Questo era chiaro fin dall’inizio di questo governo: che non si trattava soltanto di sostituire dei posti, ma di sostituire una cultura».

Quando il tema è la Rai, la divisione non è tra destra e sinistra. È tra chi non ne sa niente (o finge d’aver dimenticato); e chi sa e ricorda, e quindi risponde come Stefano Balassone (già molte cose, da vicedirettore di Rai3 a consigliere d’amministrazione Rai) l’altra sera sempre da Floris. Il conduttore chiede «È la prima volta che succede una cosa del genere?», e Balassone risponde «No: è la norma. Perché il punto è che la Rai, da quando esiste, non è mai stata una impresa indipendente».

La divisione è tra la sua ricostruzione storica che non si presta a diventare card di Instagram, e i facili cuoricini che corriamo ad apporre a chi ripete che mai nessuno è stato più prepotente di questi qua, più fascista di questi qua, più ignorante di questi qua.

Io di solito in questi casi vado a rileggere un qualsivoglia articolo di Beniamino Placido, ce n’è sempre uno che torna perfetto per commentare l’attualità di trent’anni dopo. Per esempio quando una Santanchè che ha un lapsus sul nome di Luchino Visconti fa gridare alle lese basi le vestali della semicultura, ed eccoci tutti pronti a dire che prima non era così.

Nel 1992 Placido vede Publio Fiori al “Maurizio Costanzo Show”. Fiori dice che nell’antica Grecia non c’erano gli schiavi, Placido s’incomoda ad andare a cercarci le fonti da Aristotele in giù, e poi conclude: «Qui le ipotesi si fanno due: l’onorevole Publio Fiori, dal portamento alla John Wayne, è un ignorante. L’onorevole Publio Fiori, pettinato alla Elvis Presley, voleva ricordarci – a scopo educativo – quanto si può essere ignoranti».

Nella prima repubblica erano assai meglio. Non erano ignoranti come questi qua, prepotenti come questi qua, fascisti come questi qua. Poi ci hanno donato dei telefoni con le telecamere, abbiamo preso a guardare in faccia noi stessi tutto il giorno, ed è finita così: che eleggiamo una classe dirigente che ci somigli, poi la guardiamo indignati e diciamo che non ci somiglia per niente, e addirittura erano meglio quelli che da giovani ci sembravano i peggiori.

Dell’Oliva, Gramellini scriveva ventisette anni fa che «Ha votato Ulivo perché “questa destra, francamente, non si può”». Sono ventisette anni che ci penso, ma di più da quando abbiamo deciso di far finta di credere che questi siano peggio di quelli prima: che entusiasmo si può provare per una sinistra il cui unico orizzonte culturale è che «questa destra, francamente, non si può»?

Tra tutti, il ladro sarebbe Fassino? (ilfoglio.it)

di ANDREA MARCENARO

ANDREA'S VERSION

Saviano con l’anticamorra, gli atenei l’antisemitismo, Conte l’abilità. E poi la Gruber, Di Pietro, Damilano, Gad Lerner e così via

L’Anpi guida l’antifascismo, gli Elkann l’ufficio delle Imposte, Davigo la Giustizia, Travaglio il giornalismo, Santoro la buonafede, Saviano l’anticamorra, gli atenei l’antisemitismo, la Schlein la politica, Fiorello la genialità dei nuovi media, la Berlinguer la sacralità della memoria, Conte l’abilità, il vecchio Lucibello la cui profondità forense così tanto pesò per l’amico Di Pietro, quel Beccaria del trattore; il cavalier Borrelli venne piazzato lì dai socialisti ma mai ammise; il dottor Colombo, forcaiolo elegantiarum, piange di continuo sul latte versato a suo tempo; il dottor Mieli va e se ne pente, torna e se ne ripente, tanto ne pensa un’altra per cui chiedere scusa più di nascosto che può;  la Gruber, con tacco 24 perfino da seduta e Damilano, ah, quel Damilano.

Poi Lerner, uno di destra che, avendolo Ferrara preso a schiaffoni in un’antica tivù, aspetta da sinistra quella rivincita che non può arrivare; quindi Eugenio Scalfari, che si rubò l’Italia; poi D’Alema, che si diede di gomito per tre quarti col vignaiolo, un pezzo col velista, un pezzettino con lo scarparo e il resto con la mezza Teheran dei cappi appesi alle gru.

Perfino i fratelli Ruotolo-De Rege incamerarono simpatia di traverso. Ecco, e il ladro sarebbe Fassino?

Vaccini, numeri, verità e memoria corta (lidentita.it)

di Fulvio Giuliani

Il ritiro dell’ormai inutilizzato vaccino 
AstraZeneca per rarissimi casi di trombosi 
(18 in Europa) ha scatenato nuove teorie 
del complotto

Non ho fatto fatica a immaginare i commenti, gli scambi in chat di quel composito esercito che nei mesi più drammatici delle pandemia da COVID-19 si scatenò contro ogni evidenza scientifica, impallinando con brutalità ossessiva i vaccini e le relative campagne vaccinali.

La notizia del ritiro dell’ormai inutilizzato vaccino AstraZeneca, dopo l’ammissione da parte dei legali della stessa azienda farmaceutica di “rarissimi casi di controindicazioni potenzialmente fatali” è la classica manna dal cielo, il “fatto“ che diventerebbe la prova incontrovertibile della grande macchinazione messa in piedi da governi, poteri occulti e Big Pharma per controllare il popolo. Sottomettere la “gggente“ al loro oscuro dominio.

Una premessa è d’obbligo e non sappiamo più quante volte l’abbiamo scritta nei momenti delle polemiche più incendiarie sull’argomento: anche un singolo caso di grave controindicazione, per non dire di morte, riconducibile ad un vaccino o qualsiasi farmaco, è troppo.

Teoricamente troppo, se si ha voglia di fare i conti con la realtà e con i numeri. Di persone vaccinate contro il COVID-19 con il farmaco AstraZeneca si è superata la soglia dei 25 milioni e i casi fatali nell’Unione europea – quelli accertati da Ema, l’Agenzia europea competente, non da stregoni o fattucchiere – sono 18. In tutti, il legame con il vaccino è “possibile“ e non accertato.

Secondo l’Aifa, l’Agenzia italiana sul farmaco, l’incidenza di controindicazioni gravi è dello 0,099%
. Come detto, anche una sola morte accidentale è troppo, ma queste sono le cifre, queste sono le percentuali. A tutti coloro che hanno cercato di mantenere un approccio lucido e razionale nella fase più sconvolgente della nostra vita recente, è bene ricordare che le autorizzazioni (facciamo esplicito riferimento a quella della Fda, Food and Drugs Administration degli Stati Uniti d’America) ai primi vaccini contro il COVID-19 furono rilasciate anche in considerazione dell’estrema gravità ed eccezionalità del momento.

Vivevamo in emergenza assoluta, lo stesso futuro di tutti noi era diventato un’angosciante punto interrogativo. Non avevamo idea di tempi, destini, numeri di vittime di quel mostro e i vaccini ci hanno riportato a velocità incredibilmente rapida alla vita.

Dimenticarlo oggi è profondamente ingiusto: abbiamo tutti, consapevolmente, accettato una quota minima o infinitesimale di rischio per tornare a vivere. Lo ha fatto ciascuno di quelle centinaia di milioni di esseri umani che si sono vaccinati e che oggi escono di casa al mattino senza neppure pensare più a quell’incubo di appena pochi mesi fa.

Davanti alla comunità scientifica che ha prodotto un vero e proprio miracolo collettivo dovremmo solo inchinarci e continuiamo a ripeterlo oggi, mentre in troppi hanno cancellato troppo in fretta.

Lo schiaffo cinese (corriere.it)

di Paolo Mieli

Un bel ceffone alla Nato.

Ma anche, sia pure di striscio, all’Europa. Questo è stato il senso del viaggio che ha portato il Presidente cinese Xi Jinping a Parigi, Belgrado e adesso a Budapest. La parte meno prevedibile è stata quella che si è svolta al cospetto di Emmanuel Macron (e di un’innervosita Ursula von der Leyen). Ci si poteva aspettare che il leader cinese dopo essersi intrattenuto con il suo omologo francese avrebbe trovato il modo di ricambiare la gentilezza che questi gli aveva fatto l’anno scorso.

Nell’aprile del 2023, al ritorno da una visita a Pechino, Macron aveva giurato che mai «noi europei» saremmo caduti nella «trappola» di lasciarci «invischiare» in «crisi che non sono le nostre». Crisi in cui finiremmo per diventare «vassalli». Parole in esplicito contrasto con la politica statunitense in difesa di Taiwan. Pronunciate proprio mentre Pechino dava notizia di esercitazioni militari intorno all’isola di cui rivendica la proprietà.

Stavolta Macron aveva appena rilasciato una bellicosa intervista all’ Economist dove prefigurava, nel caso di sfondamento russo in Ucraina, un intervento di militari occidentali in soccorso di Kiev. Intervista che, detto per inciso, ha provocato una precipitosa e goffa presa di distanze da parte dei nostri partiti di governo.

Reazione, dai toni grottescamente pacifisti, capeggiata da un Matteo Salvini, per l’occasione assai poco contrastato dagli alleati del centrodestra. Ma torniamo a Xi Jinping. Gli sarebbe costato pochissimo trovare qualche espressione — appena appena meno generica di quella contenuta nel comunicato finale — per augurarsi che in Ucraina si giunga in tempi rapidi ad un accordo di pace con soddisfazione di entrambi i contendenti (aggressore e aggredito). Invece, niente. Macron, però, non se l’è presa.

E, per ricambiare un tè offertogli un anno fa a Canton, ha trascinato Xi in un villaggio nei Pirenei molto caro a sua nonna, Manette. Dove gli ha dato l’occasione davvero unica di assistere, purtroppo sotto la pioggia, a un tipico ballo locale. Anche qui, neanche una parola d’auspicio a che in Ucraina, dopo due anni e tre mesi di bombardamenti e stragi, si torni a vivere nel clima di La Mongie (così si chiama il paesino nei pressi del celeberrimo colle del Tourmalet). Il più volte evocato «mediatore cinese» si è ben guardato dal pronunciarle. E questo vorrà pur dire qualcosa.

Qualcosa che si è capita meglio nella seconda tappa del viaggio. A Belgrado il successore di Hu Jintao ha partecipato alla cerimonia commemorativa per i venticinque anni dai bombardamenti Nato sulla Serbia di Milosevic. Bombardamenti in cui fu colpita (per sbaglio, con tanto di immediate scuse) l’ambasciata di Pechino provocando la morte di tre giornalisti cinesi.

L’errore ci fu ed è legittimo che alcuni storici si pongano ancor oggi la domanda se si trattò di sfortuna o ci fu un qualche calcolo. Ma il leader cinese ha sostenuto che, all’epoca, la sede diplomatica fu colpita «deliberatamente» e ha pronunciato nei confronti dell’Alleanza atlantica minacce neanche tanto velate.

Terza tappa, oggi e domani, nell’Ungheria di Viktor Orbán che fa parte dell’Alleanza di cui si è detto, oltreché dell’Unione europea. Qui si è fatto precedere da un editoriale su Magyar Nemzet (così come aveva fatto in Francia e in Serbia con articoli di fondo per Le Figaro e Politika ) in cui ha elogiato l’«indipendenza della politica estera ungherese» di fronte alle «pressioni» delle potenze straniere.

Lasciando intendere che i favori economici destinati all’Ungheria — così come quelli per la Francia e per la Serbia — possano essere intesi come una sorta di compensazione per le volte in cui questi Paesi, ognuno a modo suo, si sono messi o si metteranno di traverso a decisioni concordate con gli Stati Uniti e con il resto dell’Europa. Anche se qui, come è evidente, il discorso riguarda principalmente due Paesi su tre (Francia e Ungheria).

Al termine di queste «visite», Xi Jinping ha annunciato che incontrerà Putin e con lui, si presume, tirerà le somme del fruttuoso viaggio. L’Europa queste somme le può trarre già ora. Per la Cina la Ue è insignificante sotto il profilo strategico; può prendere peso, agli occhi di Pechino, solo e se decide di intralciare in qualche modo gli Stati Uniti (e favorire l’ascesa del rivale di Trump); nei confronti di chi si mette su questa strada il partner asiatico è disposto a spendere e far fare affari.

Affari del tipo di quelli fatti con la Russia in materia d’energia nei primi vent’anni del secolo in corso. E possiamo immaginare che, quando Xi riferirà a Putin i risultati della sua missione europea, il leader russo, pur costretto per l’ennesima volta ad uno sgradevole atto di sottomissione, uscirà dal colloquio dicendosi che la sua politica di alleanze regge meglio di quella dei suoi nemici. E che il vero Macron non è quello manifestatosi sull’ Economist ma l’uomo che, al momento dell’invasione dell’Ucraina, sostenne che il problema era quello di «non umiliare la Russia».

E, un anno dopo, disse che, nel caso l’aggressore fosse costretto a rientrare nei propri confini, si poteva mettere nel conto di «sconfiggere» la Russia, ma «non totalmente». «Come vorrebbero alcuni», insinuò, senza offrire elementi — come da manuale di un grande uomo politico — per comprendere a chi, di preciso, si riferisse. Alcuni pensarono agli Stati Uniti. Altri ai Paesi baltici.