I numeri dimostrano che il Jobs Act ha funzionato, ma il Pd lo combatte lo stesso (linkiesta.it)

di

Dati e identità

Il mercato del lavoro è forse uno dei pochi ambiti in cui l’economia italiana ha visto un netto miglioramento: è diminuito il precariato, è aumentata l’occupazione permanente e sono calati i licenziamenti

Probabilmente è il lento declino strutturale del Paese o quello della qualità della politica. Forse invece è l’effetto dell’invecchiamento della popolazione. Oppure tutte le tre cose insieme.

Fatto sta che il dibattito pubblico, più che sul futuro dell’economia, del welfare, del sistema pensionistico, della sanità, si concentra sempre di più su questioni identitarie. Il premierato, ovvero la vecchia fissazione di «sapere chi ha vinto la sera delle elezioni» ne è un chiaro esempio. A questo pallino della destra la nuova-vecchia sinistra di Elly Schlein risponde con un altro cavallo di battaglia, l’articolo 18.

Quale tra la riforma costituzionale e l’eventuale abolizione del Jobs Act sia più dannoso e se l’inutilità e lo spreco di tempo sia maggiore o minore del danno può essere materia di dibattito. Se il premierato non è mai stato provato, sul tema del mercato del lavoro, però, qualcosa in più si può dire: è stato sperimentato più di un modello e, dati alla mano, non si può affermare che le cose dopo il varo del Jobs Act siano peggiorate.

È vero, le cessazioni nel tempo sono aumentate, con l’eccezione della pandemia, nel 2023 sono state più che nel 2017, 2018 e 2019. Sono cresciute anche quelle dei contratti a tempo indeterminato, che nel 2022 hanno raggiunto gli 1,89 milioni e nel 2023 gli 1,80, ma in termini relativi, invece, non c’è stato alcun incremento, le cessazioni dei contratti permanenti sono state il 23,6 per cento del totale l’anno scorso, meno che nel 2017 e nel 2019, nonostante un numero sempre maggiore di lavoratori non abbia più le vecchie tutele precedenti al Jobs Act.

È nel lavoro intermittente e in quello stagionale che, invece, le uscite sono salite di più.

(Dati Inps)

La ragione principale di questo trend è il forte aumento delle dimissioni, che nel 2022 sono state ben 2,18 milioni e nel 2022 2,14 milioni, ovvero quasi mezzo milione in più che nel 2019. In particolare sono cresciute moltissimo nell’ambito dei contratti a tempo indeterminato, passando dal rappresentare il cinquantadue per cento delle cause di cessazione nel 2017 al settanta per cento sei anni dopo.

In compenso, e questo è un punto chiave, sono fortemente diminuiti i licenziamenti: tra i lavoratori con il “posto fisso”, quelli di natura economica (la maggioranza), nel periodo sono passati da cinquecentoquarantasei mila a trecentocinquantadue mila in valore assoluto e dal trentatrè al 19,5 per cento in termini relativi. Il contemporaneo aumento di quelli per motivi disciplinari, dal 4,7 al 5,9 per cento del totale, non cambia di molto la situazione.

(Dati Inps)

Questo non è accaduto in una situazione di «pochi ma buoni», ovvero in un periodo in cui i lavoratori a tempo indeterminato sono in numero limitato, un gruppo di garantiti in lento declino, come è stato in passato, ma in un momento di grande crescita dei lavoratori con contratto permanente.

Nel 2022 e nel 2023 è stato toccato un record di nuovi posti a tempo indeterminato: 1,39 e 1,35 milioni. Solo nel 2015 erano stati superati i due milioni, ma grazie alle forti decontribuzioni.

(Dati Inps)

E, soprattutto, l’anno scorso si è avuto un record: escludendo il solito 2015, il saldo tra assunzioni a tempo indeterminato, trasformazioni da contratti a termine in permanenti e cessazioni ha toccato un massimo di quasi quattrocentotrentasette mila unità, dopo sei anni in cui, comunque, era stato sempre positivo.

A cambiare le cose è stata la grande crescita delle trasformazioni, arrivate a ottocentottantaseimila, molto più di quelle che avevano luogo nel periodo pre-Covid.

(Dati Inps)

In sostanza quello che sta accadendo è che sempre più imprese assumono a tempo indeterminato e offrono ai dipendenti precari, con contratti temporanei, di passare a questo contratto. Il Jobs Act e la fame di lavoratori, soprattutto in alcuni settori, hanno finalmente eliminato quel blocco, in gran parte psicologico, di tanti imprenditori che temevano di dover “sposare” il dipendente, di non poterlo licenziare in caso di necessità.

Il mercato è invece diventato molto più dinamico, sì, ma non perché ora le aziende assumono e si liberano dei lavoratori a piacimento, all’americana, come temevano in molti, ma, sorpresa, perché sono essi stessi a cambiare con facilità posto di lavoro.

Lo si nota dai numeri delle dimissioni, cresciute anche in Italia. Si è molto parlato, e non sono mancate esagerazioni, della “Great Resignation”, che nel nostro Paese è anche la conseguenza di una maggiore domanda di giovani da parte delle imprese e di un’offerta in diminuzione, per motivi demografici. Stanno diventando rari e possono permettersi di scegliere dove andare a lavorare.

I ventenni e trentenni non sono, come dicono i detrattori del Jobs Act, “le vittime del precariato e di un mercato del lavoro usa e getta”, ma raggiungono sempre più spesso il posto fisso e se vanno via è perché lo vogliono loro.

Anche in questo caso ci sono altri numeri a confermarlo: la proporzione di occupati a termine sul totale dal 2019 è in discesa, sia nel complesso, essendo passata dal 17,2 al 15,8 per cento, sia, soprattutto, tra chi ha tra i venticinque e i trentaquattro anni. In questo caso è diminuita dal 29,5 al 25,2 per cento. Il tutto mentre in Italia, come nella Ue, il tasso di occupazione continua a crescere.

(Dati Eurostat)

Tra la fine degli anni Novanta e l’entrata in vigore del Jobs Act, invece, la proporzione di lavoratori con contratto a tempo determinato era quasi sempre salita, passando, per esempio, dal nove al 13,6% tra 1998 e 2007. Era sceso solo in occasione di crisi economiche, come quella iniziata nel 2008, ma non si trattava di una riduzione positiva, era il risultato del fatto che a venire sacrificati erano prima i dipendenti a termine, che perdevano il lavoro e certo non diventavano permanenti.

La proporzione di lavoratori a tempo determinato ha continuato a salire nella fase di fragile ripresa, dal 2014 in poi, ma quando la crescita occupazionale è diventate più seria, dopo il 2018, si è trasformata in un aumento dei contratti a tempo indeterminato e una diminuzione di quelli precari grazie al Jobs Act. La stessa tendenza si è vista a livello europeo, ma con tassi occupazionali molto più alti e una concorrenza più accesa per accaparrarsi lavoratori.

(Dati Eurostat)

Uno degli argomenti dei proponenti del referendum contro il Jobs Act riguarda la diminuzione in termini reali dei salari, che secondo loro è stata provocata anche dalla riforma, che avrebbe reso i dipendenti più ricattabili, perché più facilmente licenziabili e quindi più disposti ad accettare bassi stipendi.

I dati dell’Istat, però, mostrano come negli ultimi venti anni la fase di impoverimento dei lavoratori sia stata soprattutto quella che è intercorsa tra 2006 e 2013, in cui il reddito familiare reale da lavoro è sceso da un livello del 5,4 per cento superiore a quello del 2003 a uno dell’11,5 per cento inferiore.

Da allora è leggermente migliorato o si è mantenuto stabile ed è per questo periodo, precedente al Jobs Act, che oggi i salari reali sono inferiori a quelli di un tempo. Gli unici ad avere visto un trend più positivo sono stati i nuclei che dipendono da pensioni o da finanziamenti statali, mentre è andata ancora peggio agli autonomi o a chi gode di redditi da capitale.

(Dati Istat, 2003=100)

In sostanza negli ultimi anni c’è stata una svolta: è diminuito il precariato, è aumentata l’occupazione permanente, sono calati i licenziamenti, anche perché sono i lavoratori a scegliere se e dove andare a lavorare. I salari hanno sofferto l’inflazione, ma non come soffrirono le crisi del 2008-2013, e la fame di dipendenti di molti settori promette di partorire recuperi stipendiali anche importanti, perlomeno in alcuni segmenti.

Questi dati ci dicono che il mercato del lavoro è forse uno dei pochi ambiti in cui l’economia italiana ha visto un netto miglioramento, e se certo non possiamo dare il merito a una singola riforma e i fattori determinanti sono stati diversi, certo è che mancano completamente elementi che dicono che il Jobs Act abbia avuto qualche conseguenza negativa.

Come spesso succede le buone notizie passano sotto silenzio e su questo versante c’è sia il silenzio di chi a sinistra da sempre si batte contro ogni riforma, sia quello di chi, a destra, ha beneficiato tanto della narrazione populista contro questa riforma la volle. Il ritorno al passato, del resto, alla galassia nazionalpopolare e di destra sociale in generale non dispiace, si spera non anche in questo caso.

Riforma legittima ma serve anche il doppio turno (corriere.it)

di Antonio Polito

Premierato e dubbi

Non si può davvero contestare la legittimità del tentativo che l’attuale maggioranza e la premier Giorgia Meloni stanno facendo per cambiare la seconda parte della Costituzione, quella che fissa le regole di funzionamento del nostro sistema democratico. Le accuse di autoritarismo si sprecano.

Eppure nei passati quarant’anni ci hanno provato, in vari modi, il socialista Craxi, il liberale Bozzi e il democristiano De Mita, la comunista Iotti e il post-comunista D’Alema, Berlusconi, Bossi e Fini, così come il democratico Enrico Letta e il centrista Gaetano Quagliariello, e infine Renzi. Chi ci prova oggi non è figlio di un Dio minore: gode di uguale legittimità democratica, ottenuta tra l’altro con un ampio e maggioritario mandato elettorale.

Non si può neanche dire che la riforma che propone la destra sia solo frutto di volontà di potenza, e non origini invece da una effettiva necessità di ammodernamento del sistema e di rafforzamento dell’esecutivo. C’è chi dice: ma insomma, il governo Meloni è la dimostrazione che si può avere un premier forte anche così, senza cambiare la Costituzione. In realtà, proprio l’eccezione attuale ci conferma la necessità di renderla norma.

La premiership di Meloni appare infatti «forte» per la semplice ragione che la sua coalizione ha vinto nettamente le elezioni e i partiti che la compongono non se la sentono (ancora?) di indebolirla in Parlamento. Ma: a) non sappiamo quanto durerà; b) non possiamo dimenticare che negli undici anni precedenti, dal 2011 al 2022, il sistema politico-elettorale in vigore non è invece riuscito a produrre governi stabili e duraturi e ha dovuto cercare soluzioni creative e provvisorie; c) non potremo contare sempre su capi dello Stato saggi come Mattarella, capaci di risolvere le crisi di sistema servendo l’interesse nazionale, prima o poi ci capiterà un presidente non così super partes e saranno guai.

Dunque la riforma è legittima e per molti aspetti necessaria. E il guasto creato da chi, pur di opporsi, contesta queste due verità sta nel fornire così un formidabile alibi alla maggioranza per non sciogliere i nodi veri della sua proposta, finora rivelatisi inestricabili, e rimasti tali anche ieri nel convegno-convention a Montecitorio.

Perché, se è chiaro che vogliono un premier eletto, non è affatto chiaro come intendano eleggerlo (e neanche come pensano di eleggere i parlamentari).

Nel testo giunto in aula al Senato, infatti, non si dice quanti voti servano perché si possa stabilire che il premier è stato eletto dalla maggioranza degli italiani, né che cosa accade se nessuno raggiunge quel numero di voti. Manca insomma la fissazione di una soglia minima per far scattare il premio di maggioranza che garantisce al premier eletto di avere i numeri in Parlamento; soglia giudicata già in due sentenze della Corte Costituzionale indispensabile per la legittimità di una qualsiasi legge elettorale.

E manca il ballottaggio: l’unico modo conosciuto in cui, nel caso che nessuno superi la soglia, gli italiani possano decidere in un secondo turno a chi consegnare il governo (a meno che non si preferisca tenere elezioni a oltranza finché qualcuno non ce la fa al primo turno, ricetta sicura per il caos).

Finora il mantra della ministra Casellati è stato il seguente: le legge elettorale viene dopo. Ma la soluzione del ballottaggio, con il quale in un’unica scheda si decide del premio e dunque della composizione di entrambe le Camere, non potrebbe non stare in Costituzione; perché oggi la Carta prevede due Camere totalmente autonome con due diversi metodi di elezione, e una legge elettorale da sola non potrebbe smentirla.

Capisco che dei dettagli non si cura il pretore, e che non sono argomenti di grande presa popolare. Però così stanno le cose: se il testo non verrà modificato alla Camera, la riforma resterà impraticabile. E allora anche questo tentativo sarà servito ad animare una stagione politica e alzare una bandiera elettorale, ma a nient’altro.

(P.S. Il ballottaggio toglierebbe anche molti argomenti alla tesi della «deriva autoritaria»: il doppio turno è infatti il sistema che garantisce la vittoria a chi supera il 50% dei voti espressi, è già in funzione nei Comuni, e la sinistra lo preferisce fin dai tempi della Bicamerale D’Alema. Tutti fatti che potrebbero tornare utili nel caso, più che probabile, di una battaglia referendaria).

Bologna 2021-26. Rispuntano le ronde tra Bolognina e stazione (bolognatoday.it)

I militanti della "Rete dei Patrioti" che questa 
notte hanno pattugliato le strade

“Spaccio a tutte le ore del giorno e della notte,  risse a colpi di coltello, accetta e bottigliate sono purtroppo sempre più frequenti soprattutto nella zona di Piazza venti settembre dove agiscono impunemente pusher magrebini e centrafricani”.

Nella giornata di ieri, due uomini e una donna nella zona hanno rapinato tre persone: uno dei due è stato arrestato e l’altro è stato denunciato mentre la donna è fuggita.

Lo dichiara la Rete dei Patrioti con i militanti che questa notte hanno pattugliato le strade della Bolognina e della zona stazione: “Zone tristemente note per essere completamente fuori controllo – si legge nella nota – Per una notte la zona è tornata in mano agli italiani per bene”.

Rispuntano quindi le ronde, questa volta a opera della “Rete” che riunisce movimenti, associazioni e comitati di estrema destra nata a ottobre del 2020 a Montecatini.

In città, come si legge sul sito, aderisce alla rete “Bulaggna Dsdadet”, movimento nato nel 2017 da un gruppo di tifosi che frequentano la curva dello stadio Dall’Ara.