Perché ai disoccupati non interessa la formazione (lavoce.info)

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Sono pochi i disoccupati che partecipano alle 
attività formative previste dal programma Gol. 

Perché non è semplice convincere adulti con altre priorità a parteciparvi. La soluzione è studiare politiche attive disegnate sulle caratteristiche degli utenti.

Obiettivi e risultati del programma Gol

Acquisire determinate competenze potrebbe permettere a molte persone di migliorare le loro chance occupazionali o la loro occupazione, e uscire così da lavori non-qualificati di breve durata.

Per questo il programma Gol investe tantissime risorse nelle attività formative, proprio per ridurre lo squilibrio di competenze. Tuttavia, sul milione di utenti presi in carico tra metà 2022 e fine 2023, che potevano partecipare ad attività formativa (aderenti ai Cluster 2, 3 e 4), solo poco più di 270 mila partecipano o hanno concluso un percorso.

A ciò si aggiunge che la netta maggioranza dei discenti – circa il 60 per cento (con regioni come la Campania che raggiungono il 100 per cento) – è stato coinvolto solo in percorsi di rafforzamento delle competenze digitali di base, un processo di alfabetizzazione sicuramente utile, ma difficilmente possiamo ritenerlo rilevante per migliorare le loro opportunità di occupazione.

Alla fine, facendo una semplice approssimazione, stiamo parlando di poco più 100 mila utenti coinvolti in attività formative. In altri termini, in due anni vi ha partecipato un decimo dell’intera platea che si è iscritta al programma Gol.

La bassa partecipazione può essere imputabile solo in parte a problemi burocratici che provocano un ritardo nella realizzazione dei percorsi, come avviene in Sicilia, Molise e Puglia, che complessivamente risultano aver avviato in percorsi di formazione solo 27 persone dall’inizio del programma a oggi. Nella maggior parte delle regioni le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono a disposizione, i modelli sono operativi e a regime (ad esempio, in Emilia Romagna, Veneto, Toscana e altre ancora), tanto da aver a disposizione centinaia di milioni di euro da spendere in attività formative.

Analoghe considerazioni possiamo farle in termini di esiti occupazionali: tra i presi in carico nei Cluster 2,3,4 da almeno sei mesi (640 mila), solo il 20 per cento lavora. Quindi non si può neanche ipotizzare che la maggior parte degli utenti non partecipi alla formazione perché occupata.

In teoria, il dato dei partecipanti potrebbe essere addirittura più basso, perché dobbiamo tener conto del peso della condizionalità nella scelta di partecipare o meno alle attività formative: molti beneficiari di ammortizzatori sociali hanno partecipato ai corsi solo perché obbligati. La partecipazione inibisce occupazioni nel sommerso dei beneficiari, ma coinvolge persone a volte non adeguatamente motivate.

Allora, perché la netta maggioranza degli utenti di Gol non partecipa alla formazione, nonostante siano disoccupati e il sistema formativo funzioni in buona parte del paese?

Cosa ci insegna la Danimarca
A comprendere meglio perché gli adulti non-qualificati siano poco propensi a partecipare ai percorsi di istruzione, può aiutarci una serie di ricerche su base decennali realizzate da Eva (Ente di valutazione nazionale della Danimarca). Nel lontano 2008 Eva aveva rilevato, su un campione rappresentativo, che una persona su cinque di età compresa tra i 25 e 55 anni esprimeva il desiderio di iniziare una formazione professionale; in numeri reali, il dato corrispondeva a circa 50 mila persone. Nel 2012, ovvero quattro anni dopo, solo 8.500 lavoratori non qualificati erano diventati lavoratori qualificati attraverso un percorso formativo.
Nel 2014 è stata condotta una seconda indagine, intervistando mille lavoratori non qualificati di età compresa tra 25 e 54 anni, ed è emerso che il 20 per cento di loro aveva il desiderio di iniziare una formazione professionale e ben il 60 per cento del campione aveva valutato che un percorso di istruzione professionale li avrebbe avvantaggiati nel mercato del lavoro.
Ancora una volta, a distanza di quattro anni, i ricercatori dell’Eva hanno verificato quanto questa percentuale venisse corroborata dai dati reali: purtroppo solo il 5 per cento degli oltre 365 mila adulti di età compresa tra 25 e 54 anni che nel 2014 erano non qualificati ha iniziato la formazione professionale nel periodo 2015-2019.
La ricerca danese conferma quanto sia difficile per una persona non qualificata, anche se ben informata, partecipare a percorsi professionali. E perché è un compito assai arduo per tutti gli operatori delle politiche attive del lavoro convincere persone con un basso titolo di studio e probabilmente lontane da molto tempo dai banchi di scuola a seguire corsi di 40 ore o addirittura di 600 ore, quando la loro priorità è quella di trovare immediatamente un lavoro.
Le soluzioni in campo
Nel tentativo di perseguire e raggiungere, entro dicembre 2025, gli obiettivi previsti dal Pnrr (in particolare il Target 2, quello che prevede 800 mila soggetti coinvolti in formazione), il ministero del Lavoro ha modificato il programma Gol, permettendo anche ai beneficiari del Cluster 1 di poter partecipare alle attività formative. La modifica appare condivisibile in quanto aumenta la platea (di quasi un milione) ed è auspicabile che possa crescere di conseguenza il numero di partecipanti alla formazione professionale.
Tuttavia, i beneficiari del programma profilati nel Cluster 1, sono tipicamente definiti ready to goal (pronti) per il mercato del lavoro e quindi sarà ancora più difficile che siano interessanti a “investire” il loro tempo in formazione. Date queste condizioni, risulta problematico riuscire a raggiungere alcuni obiettivi del Pnrr, perché in poco più di un anno si dovrebbe triplicare il numero dei soggetti avviati a un percorso formativo.
Quali soluzioni si possono attuare, per incentivare la formazione professionale? Danimarca, Germania e Svezia adottano programmi di “apprendistato per adulti”, in modo che ai partecipanti sia offerta non solo formazione, ma una concreta possibilità di inserimento e crescita professionale. In questi paesi, lo strumento (tipicamente un apprendistato di primo livello) è accompagnato da generosi incentivi economici per le imprese che assumono apprendisti.
In Italia, una prima sperimentazione era stata predisposta a favore dei cassintegrati, ma si tratta ancora oggi di una misura che non è mai stata utilizzata, probabilmente perché vi è un pregiudizio da parte delle imprese, come nei disoccupati adulti, che si tratti di una misura tipicamente dedicata ai giovani. In Germania, proprio per disincentivare gli abbandoni o aumentare la partecipazione, attraverso il progetto Jobstarter Plus, hanno trasformato gli stessi apprendisti e le imprese coinvolte nelle prime sperimentazioni in “ambasciatori”, in modo che possano far conoscere lo strumento, all’interno di eventuali fiere del lavoro o eventi speciali, a potenziali nuovi apprendisti o aziende utilizzatrici.
Anche in Italia, l’unico modo perché lo strumento possa funzionare è quello di realizzare una prima sperimentazione, aperta a tutti e non solo ai cassintegrati, e a “cascata” diffondere e far conoscere l’esperienza in modo da ampliarne la platea.
In realtà, la vera questione è che le politiche attive sono uno strumento in continua evoluzione e in ogni periodo richiedono strumenti e interventi diversi. Se si guardano le caratteristiche degli utenti più che quelle della formazione (che, nonostante le criticità, riveste per alcuni soggetti un ruolo fondamentale per la loro ricollocazione nel mercato del lavoro), le priorità sembrano altre: in particolare, per l’utenza straniera è necessario garantire un processo di certificazione delle competenze che possa valorizzare i titoli di studio acquisiti all’estero.
Mentre per i cittadini del Mezzogiorno, più che politiche attive bisognerebbe parlare di politiche abitative: il loro principale scoglio non sono le competenze, quanto piuttosto il costo della vita nel Nord Italia.

No, il precariato non è ai livelli più bassi di sempre (pagellapolitica.it)

di CARLO CANEPA

LAVORO
Lo ha scritto Fratelli d’Italia, ma le cose non stanno così: i contratti a tempo determinato sono calati, ma il numero minimo registrato in passato da Istat non è ancora stato raggiunto
Il 4 maggio Fratelli d’Italia ha pubblicato sui social network una grafica con scritto: «Occupazione da record e precariato ai minimi». Secondo il partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, «i dati Istat mettono nuovamente a tacere la propaganda della sinistra», dato che «il tasso di occupazione continua ad avere un andamento positivo».

Abbiamo controllato che cosa dicono i numeri: è vero che il tasso di occupazione continua a crescere, ma parlare di contratti a termine «ai minimi» è scorretto.

Secondo i dati Istat più aggiornati, a marzo il tasso di occupazione in Italia nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni ha raggiunto (Tab. 1) il 62,1 per cento. Questa percentuale è la più alta mai raggiunta da gennaio 2004, ossia da quando sono disponibili le serie storiche di Istat sui dati mensili.

Nonostante il miglioramento dei dati sul mercato del lavoro, iniziato già nel 2021 durante il governo Draghi, nel nostro Paese resta alto il divario tra l’occupazione maschile e quella maschile. A marzo il tasso di occupazione tra gli uomini era pari al 71,1 per cento, contro il 53 per cento delle donne.

Al di là di questa osservazione, è corretto dire che da tempo i dati sull’occupazione sono in crescita. In questa dinamica quanto pesano i contratti dei dipendenti a tempo determinato, quelli a cui si fa riferimento di solito quando si parla di “precariato” nel mondo del lavoro?

A marzo in Italia c’erano circa 18,8 milioni (Tab. 3) di lavoratori dipendenti: di questi, oltre 2,8 milioni avevano un contratto a tempo determinato, quasi 200 mila in meno rispetto al numero registrato un anno prima, a marzo 2023. I contratti a tempo determinato non sono in calo solo in valore assoluto, ma anche in rapporto percentuale rispetto al totale dei contratti da lavoratori dipendenti.

A marzo il 15 per cento dei dipendenti in Italia aveva un contratto a tempo determinato: come mostra il grafico, questa percentuale è in calo rispetto ai mesi precedenti. Lo stesso grafico, però, mostra che è sbagliato dire che il precariato ha raggiunto i livelli «minimi», come ha scritto Fratelli d’Italia.

Dal 2004, ossia da quando abbiamo i dati mensili, il livello più basso di contratti a tempo determinato è stato raggiunto proprio a gennaio 2004: in quel mese l’11,3 per cento di tutti gli occupati con un contratto da dipendente era a tempo determinato. Il picco è stato poi toccato a febbraio 2022, con il 17,3 per cento.

Il primo aumento marcato è stato registrato dopo l’approvazione del Jobs Act, tra il 2014 e il 2018, poi c’è stato un assestamento successivamente l’approvazione del decreto “Dignità”. Dopo il lockdown del 2020, c’è stata una risalita e un seguente calo.

Il Times cita Liliana Segre, il premierato ‘riecheggia Mussolini’ (ansa.it)

Il giornale britannico riprende le critiche a 
Meloni sul premio di maggioranza

Interrogativi sul programma di riforme costituzionali del governo di Giorgia Meloni rimbalzano oggi su un articolo del Times britannico, giornale del gruppo Murdoch che pure in passato ha pubblicato un ritratto della presidente del Consiglio italiana a tinte prevalentemente positive.

L’articolo – un resoconto di cronaca politica per l’edizione cartacea firmato dal corrispondente del giornale a Roma, Tom Kington – cita, pur senza farle apertamente sue, le riserve sul premierato avanzate dalla senatrice a vita Liliana Segre, richiamata anche nel titolo: ” Il piano di riforma di Meloni ‘riecheggia Mussolini’ “.

Kington spiega da parte sua come la premier abbia “in programma di rivedere la Costituzione per dare più poteri ai futuri leader italiani”, essendo convinta che “l’attuale sistema lasci i primi ministri alla mercé dei complotti di partito”.

Poi dà spazio tuttavia al parallelo tracciato dalla senatrice Segre fra il premio di maggioranza proposto attualmente e quello della “legge introdotta da Benito Mussolini, il dittatore fascista, per darsi più potere”: la legge Acerbo del 1923: premessa della successiva chiusura “di tutto il Parlamento”.

Secondo Liliana Segre, sottolinea ancora il Times, virgolettando la citazione, la proposta messa sul tavolo dal governo sul premio di maggioranza mira a “creare una maggioranza a qualsiasi costo” a beneficio del premier, “distorcendo oltre ogni ragionevole limite la libera scelta degli elettori”.

Il risarcimento al medico novax e i cavilli (butac.it)

di maicolengel butac

Titoloni trionfanti (e interi articoli) che 
strizzano l'occhio ai propri lettori ma non 
danno tutte le informazioni utili a comprendere 
i fatti

Su alcune testate vicine ai movimenti populisti e antivaccinisti sta circolando la notizia della dirigente sanitaria risarcita con 200mila euro per essere stata sospesa dal servizio in quanto non vaccinata.

Ovviamente i titoli sfruttati da queste testate dedite al clickbait evitano completamente di spiegare i fatti nella maniera corretta, quello che interessa è stuzzicare quei lettori che mai approfondiranno. Quelli che leggendo i soli titoli si convincono che il risarcimento sia stato assegnato in quanto la dottoressa non doveva essere sospesa – ovviamente sottintendendo che il provvedimento di sospensione fosse sbagliato di per sé.

Ma le cose non sono proprio come vengono raccontate, e siamo comunque a un primo grado di giudizio. Come spiegato sul Corriere dell’Alto Adige in un articolo del 7 maggio 2024:

La giudice Marchesini ha riconosciuto che la sospensione disposta dall’Asl non poteva valere dopo il 31 dicembre 2021, data di scadenza della medesima. Da allora infatti la competenza per la sospensione dei sanitari era passata agli Ordini professionali: la dottoressa in questione non era stata sospesa dall’Ordine ed anzi era stato riconosciuto che era in possesso di un valido certificato di esenzione dalla vaccinazione (aveva già contratto la malattia).

Quindi, per capirci, il risarcimento non è stato dato perché fosse sbagliato il provvedimento di sospensione (lo stesso è rimasto valido per tutto il 2021) ma perché dal 2022 la competenza doveva passare dall’ASL all’OMCeO di appartenenza, che, nel caso specifico – visto il certificato di esenzione – non lo avrebbe probabilmente potuto applicare. Insomma il risarcimento è stato dato in quanto il provvedimento è stato applicato oltre i limiti d’operatività dell’ASL.

Articoli che non spiegano le cose fin dal titolo generano solo confusione nei lettori, che si convincono che i provvedimenti di sospensione siano stati riconosciuti illegittimi, quando nella stragrande maggioranza dei casi i legali sono riusciti a strappare vittore in primo grado grazie a cavilli burocratici vari e non per aver dimostrato i decreti che sancivano i provvedimenti fossero sbagliati.

In pratica chi oggi vince queste cause generalmente ci riesce perché chi doveva applicare la legge durante l’emergenza pandemica l’ha fatto malamente, senza aver prima studiato a dovere decreti e relative implicazioni legislative.

Bonus e reddito, “truffa da 1 miliardo”: chi finisce in manette, il raggiro travolge il M5s

Maxi operazione della Guardia di finanza di Savona. 

Al centro dell’indagine i fondi emessi dallo Stato per ecobonus bonus facciate. La Gdf ha svolto, in sinergia con l’Agenzia delle Entrate, una comnplessa indagine nel settore dei crediti d’imposta riconducibile a bonus edilizi e relativi all’energia.

È stato accertato che i crediti d’imposta fossero del tutto inesistenti, in quanto ottenuti tramite l’utilizzo di false fatture per lavori da eseguire ovvero in corso di esecuzione su immobili di proprietà di soggetti residenti nel territorio savonese.

La truffa, riuscita a pieno nella provincia di Savona, era stata quindi replicata su scala nazionale da altre aziende, in molti casi risultate società “fantasma” costituite solo per mettere in piedi l’operazione. Fra le persone coinvolte, risultano alcuni percettori del reddito di cittadinanza. Ma anche soggetti con procedimenti penali a carico nel settore della spesa pubblica, altri ancora avevano generato e/o accettato crediti con soggetti con cui avevano un legame di parentela.

Il gip, su richiesta della Procura di Savona, ha emesso un decreto di sequestro preventivo per l’importo di 1 miliardo di euro da eseguire sul cassetto fiscale dei 311 soggetti coinvolti, detentori dei crediti d’imposta. L’operazione ha riguardato Liguria, Piemonte, Veneto, Lombardia, Trentino Alto Adige, Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Campania e Puglia.

Sulla maxi operazione è intervenuta Raffaella Paita, senatrice ligure di Italia Viva: “Rappresenta l’ennesima conferma di quanto i provvedimenti di cui Giuseppe Conte va fiero siano stati uno strumento formidabile usato illecitamente da delinquenti e malavita“.

La renziana ha poi proseguito attaccando i grillini: “Con superbonus e reddito di cittadinanza i Cinque stelle non hanno contribuito né al rilancio del Paese, né alla diminuzione della povertà. La loro visione economica fatta di manceregalie promesse da imbonitori ha creato debito e malcostume. Il fatto grave è che, nonostante quotidianamente arrivino notizie come quelle di Savona, Conte e i suoi continuino a proporre le solite ricette e a illudere gli elettori”.