Dall’equità di genere dimenticata agli enormi ritardi strutturali: tutti i problemi del PNRR (valigiablu.it)

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Economia

La più grande criticità che il PNRR – il piano nazionale di ripresa e resilienza con cui verranno spesi i finanziamenti europei del bando Next Generation EU – ha dovuto scontare sin da quando è stato varato è la scadenza ravvicinata. Per realizzare tutti i progetti finanziati, infatti, c’è tempo solo fino al 2026. Una tempistica stretta, vista l’entità delle risorse da spendere e la complessità degli obiettivi. Oggi, a poco più di due anni dal traguardo, a che punto siamo?

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha rivendicato l’operato del governo sul PNRR, che “fortunatamente non sta andando come qualcuno temeva o forse sperava”. Ma, a guardare i dati, le cose stanno in modo ben diverso. Dopo mesi di attesa, a fine aprile il governo ha finalmente pubblicato le statistiche aggiornate sullo stato di avanzamento del piano. Il risultato è abbastanza preoccupante: circa un progetto su tre è ancora in fase di aggiudicazione o di stipula dei contratti. Perché questi ritardi?

PNRR: una storia di ritardi strutturali

Storicamente l’Italia ha avuto problemi nella gestione dei fondi europei, che sono fondi ingenti, con scadenze ravvicinate, e una rendicontazione complessa da produrre.

Con il PNRR, a questa storica criticità se ne sono aggiunte altre. In particolare, la difficoltà a riuscire a reperire personale tecnico qualificato che gestisca i progetti , soprattutto a livello locale: i contratti sono a termine e gli stipendi non sono attrattivi. Ad esempio, l’Emilia-Romagna lamenta carenze di forza lavoro per mettere a terra i progetti, e a Roma i dipendenti del comune preferiscono passare ai ministeri per le migliori condizioni economiche. In più, a dicembre 2023 il Governo ha deciso di accentrare la gestione PNRR ed eliminare l’Agenzia della coesione territoriale, che finora ha avuto un ruolo di rilievo nell’affiancare le Regioni sulla spesa dei fondi europei: questo potrebbe comportare ulteriori ritardi.

Poi ci sono criticità di natura tecnica: la piattaforma informatica Regis della Ragioneria generale dello Stato non ha funzionato come avrebbe dovuto, e a lungo non ha messo a disposizione i manuali operativi e i codici di progetto, senza i quali era difficile avanzare con i progetti.

Con la revisione del PNRR, definitivamente approvata dalle istituzioni europee a novembre 2023, una serie di misure sono state stralciate. La modifica ha coinvolto 145 dei 349 obiettivi, ma soprattutto ha spostato progetti per 15,89 miliardi di euro, che di fatto escono dal PNRR e devono essere finanziati con altri fondi. La questione è: da dove prendiamo quelle risorse? A marzo il governo ha approvato il decreto legge 19/2024, che contiene indicazioni per l’attuazione del Pnrr, e fornisce anche indicazioni sulle risorse per completare i progetti rientranti in misure che sono state del tutto o in parte stralciate dal piano. Il decreto prevede un incremento delle previsioni di spesa di circa 15,5 miliardi: di questi, però, solo 3,4 miliardi vengono impiegati per le misure escluse dal PNRR.

La norma non dà invece alcuna indicazione su diverse misure che sono state definanziate. Tra queste ci sono quelle relative agli interventi per la resilienza, la valorizzazione del territorio e l’efficienza energetica dei comuni, le misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico, e quelle per la promozione di impianti innovativi. Di tutto questo, nel decreto non c’è traccia. E poi ci sono le misure per gli interventi di rigenerazione urbana, il cui valore originario era di circa 3,3 miliardi di euro, ridotti a 1,5 miliardi, e quelle per la tutela e valorizzazione del verde urbano, il cui importo complessivo è passato da 330 a 210 milioni. Come spiega la fondazione Openpolis, che sta realizzando un monitoraggio civico sul PNRR attraverso gli open data e che ha istituito il portale aperto OpenPNRR, il decreto per molte misure non chiarisce “quali progetti saranno realizzati con i fondi Pnrr, quali con altre fonti di finanziamento, e quali invece saranno definitivamente accantonati”.

Un PNRR che rischia di aumentare le disuguaglianze

In generale, da quando è stato approvato il PNRR, è sempre stato molto difficile monitorare e fare analisi sullo stato di avanzamento dei progetti, perché manca un ingrediente fondamentale: la trasparenza. Tanti dati sono assenti, altri sono lacunosi. In particolare, oggi la mancanza più rilevante riguarda i dati sulla spesa effettuata per i progetti. “Si tratta o di una scelta politica di non trasparenza, oppure di un problema di qualità dei dati”, denuncia la fondazione Openpolis. “Qualunque sia il motivo, è inaccettabile che tali informazioni non siano ancora nella disponibilità di cittadini, analisti e degli stessi decisori, in primis il parlamento”.

In tutto sono state quattro le richiesta di accesso agli atti (Foia) con specifico riferimento al PNRR portate avanti da fondazione Openpolis con il sostegno dell’Osservatorio civico PNRR, delle centinaia di organizzazioni aderenti alla campagna #DatiBeneComune e con l’assistenza dello studio legale E-Lex.

Tra queste c’è anche l’associazione Period Think Tank, che promuove l’equità di genere attraverso un approccio femminista ai dati e che si occupa di monitorare l’impatto di genere del PNRR. Il piano dovrebbe infatti intervenire sulle condizioni socio-economiche di donne e giovani, puntando innanzitutto a un aumento del loro tasso di occupazione. Per questo motivo dal 2021 è previsto un vincolo di assunzione per chi vince gare d’appalto finanziate dal piano, con una quota occupazionale del 30% riservata a donne, giovani sotto i 36 anni e persone con disabilità.

Valigia Blu ha già analizzato i primi dati che erano stati resi disponibili sul rispetto di questo vincolo, rilevando che il 68% dei bandi aperti fino ad allora non aveva previsto quote di assunzioni riservate a donne e giovani. A distanza di un anno e con molti più bandi e gare aperte, la situazione purtroppo è rimasta pressoché invariata. Ancora oggi il 65% dei bandi del PNRR non prevede meccanismi di tutela per favorire l’inclusione di donne, giovani e persone con disabilità, mentre solo il 6% presenta misure premiali di genere.

“Il PNRR avrebbe dovuto favorire il riequilibrio del tasso di occupazione delle donne in settori ancora a prevalenza maschile, facendo rispettare la previsione di meccanismi di premialità e di condizionalità per l’utilizzo dei fondi, il cosiddetto gender procurement”, spiega Giulia Sudano, presidente di Period Think Tank. È l’articolo 47 del decreto legge 77/2021 ad aver disposto le quote di assunzione su giovani, donne e persone con disabilità, con l’obietto di favorire l’inclusione lavorativa di queste persone nell’ambito dei contratti pubblici finanziati con le risorse del PNRR. “Parallelamente, però, le linee guida di attuazione del decreto hanno aperto la strada a numerose possibilità di deroga. Siamo di fronte all’ennesima occasione perduta per rendere l’Italia un paese più equo”.

L’equità di genere, questa sconosciuta

Secondo la ricerca di Period Think Tank, il 65,5% dei bandi è andato in deroga, o parziale o totale, rispetto ai meccanismi di tutela per favorire l’inclusione di donne e giovani e persone con disabilità. Nello specifico, nel 2,7% dei casi si tratta di una deroga parziale: viene derogata o la quota femminile o quota giovanile o entrambe. Nel restante 62,8% dei casi si parla di una deroga totale, ovvero i bandi non percepiscono affatto la normativa sul gender procurement. La regione che ha la quota maggiore di deroghe sul totale dei bandi di gara è il Molise (79%), quella con la quota più bassa è il Trentino-Alto Adige (36%).

Se si considerano le deroghe totali, la missione con la maggior percentuale di bandi derogati totalmente è la missione 1 (digitalizzazione e innovazione) con il 69,4%, seguita a ruota dalla missione 2 (rivoluzione verde e transizione ecologica) con il 69,2%. Per quanto riguarda le deroghe parziali, vediamo invece un comportamento inverso: la missione con la percentuale maggiore di bandi derogati parzialmente (12,5%) è la missione 6 (salute), seguita dalla missione 5 (inclusione e coesione) con il 6,4%. In ultimo posto vediamo la missione 1 con solo lo 0,3%.

È interessante infine capire quali sono le motivazioni delle deroghe. Per quanto riguarda le deroghe totali, il motivo principale (48,7%) è l’importo ridotto del contratto. E infatti la maggior parte dei bandi in deroga totale hanno una classe di importo bassa (69%). Analizzando invece le deroghe parziali, il 63% dei bandi è stato derogato per scarsa occupazione femminile nel settore, seguito dal tipo di mercato di riferimento (22%).

I nuovi dati forniscono anche informazioni su quali misure premiali sono applicate e dove. In totale, solo il 6% dei bandi gara analizzati prevede misure premiali per genere, per età, per eventuale disabilità. In particolare, le premialità di genere sono presenti solo nel 3,3% del totale dei bandi analizzati. “Il PNRR sta tradendo l’impegno originario di garantire la parità di genere come priorità trasversale del piano”, afferma Sudano. Per richiedere dati che permettano di monitorare l’attuazione del piano, in particolare per quanto concerne i divari di genere, generazionali e territoriali, Period Think Tank ha indetto una giornata di confronto il 17 maggio a Roma, presso la Casa Internazionale delle Donne. I tavoli di lavoro saranno tre: benessere abitativo e accesso alla casa, accesso a un’assistenza sanitaria di qualità, misure per la riduzione del lavoro di cura delle donne. “Dobbiamo continuare a mobilitarci per richiedere a Governo e Parlamento in modo tempestivo tutti i dati e gli indicatori necessari per monitorare l’attuazione del PNRR e il suo reale impatto, dal momento che ci stiamo anche indebitando come paese per realizzarlo”, conclude Sudano.

La parità di genere in Italia, un obiettivo ancora lontano

Il problema della mancata equità di genere nel mondo del lavoro è sempre più urgente: in Italia, una lavoratrice su cinque esce dal mercato del lavoro dopo essere diventata madre, e il 73% delle persone che si dimettono dopo aver avuto un figlio è donna. Sono alcuni dei dati contenuti nel rapporto Le Equilibriste”,  pubblicato lo scorso 8 maggio da Save The Children. Nel frattempo, è ancora in calo il numero medio di figli per donna, mentre il nostro si conferma come uno dei paesi europei con la più alta età media delle donne al parto (32,5 anni).

Il tasso di occupazione femminile nella fascia di età 15-64 anni è del 52,5% (dato 2023), contro una media europea del 65,8%. Ben 13 punti percentuali in meno. La differenza tra il tasso di occupazione degli uomini e delle donne nel nostro Paese è di 17,9 punti percentuali, ben più marcata rispetto alla differenza media nell’Ue di 9,4 punti percentuali, e seconda solo alla Grecia (18 punti percentuali). Ci sono inoltre marcate disparità territoriali: nelle regioni del sud, l’occupazione si ferma al 48,9% per le donne senza figli, scendendo al 42% in presenza di figli minori e arrivando al 40% per le donne con due o più figli.

Il problema del part-time involontario

Il problema non è solo di mancata occupazione, ma anche di occupazione a tempo ridotto. Nel nostro paese, infatti, il lavoro part-time sembra essere prerogativa delle donne: solo il 6,6% degli uomini che lavora lo fa a tempo parziale, rispetto al 31,3% delle lavoratrici, una su tre. Circa la metà delle donne che lavorano part-time subisce poi il fenomeno del cosiddetto part-time involontario, che riguarda chi ha cercato un impiego a tempo pieno, ma accetta per necessità un lavoro a tempo parziale.

“È stata una scelta obbligatoria. Nel nostro ambiente in molte ci ritroviamo a lavorare dopo essere state ferme per 10-15 anni, per aver cresciuto i figli. Avevo chiesto un full-time, ma non mi è stato dato. ‘Sei fortunata ad avere 4 ore’, mi dicono. Due ore di lavoro al giorno, inclusa la pausa pranzo, sono una presa in giro”. È il racconto di T., una delle testimonianze contenute nel report del Forum Disuguaglianze e Diversità Da conciliazione a costrizione, presentato il 6 maggio al Senato. L’indagine mostra che il part-time involontario pesa per il 16,5% sul totale delle donne occupate, contro il 5,6% degli uomini occupati. “La gravidanza è stata sicuramente l’evento principale che ha inciso sulle mie scelte lavorative”, racconta M., un’altra donna che subisce il part-time involontario. “In quel momento avevo un compagno e anche delle diverse esigenze economiche, per cui sono state fatte delle scelte familiari. Ho fatto più una scelta da mamma piuttosto che una scelta da lavoratrice”.

Tra le persone impiegate in professioni non qualificate si registra la differenza maggiore: il 38,3% per le donne contro il 14,2% gli uomini. Il part-time involontario, inoltre, è più frequente tra le giovani donne: si parla del 21% tra i 15 e i 34 anni, rispetto al 14% delle donne di 55 anni e oltre. “Ho 28 anni e lavoro da quando ne ho 19”, racconta S. “Da sei anni lavoro in part-time e faccio due lavori. Volevo fare l’università ma avevo una situazione familiare un po’ critica quindi ho iniziato subito a lavorare per dare una mano a casa. All’inizio facevo sostituzioni malattia e stavo a 6-7 ore, con la promessa di essere assunta. Ho tenuto duro e mi hanno assunto a 17 ore e mezzo, facendomi un contratto fisso, con la promessa che l’orario sarebbe aumentato, cosa che dopo sei anni non è successa”.

Il part-time involontario è più frequente anche nel Mezzogiorno, tra le persone straniere, tra chi possiede un basso titolo di studio e tra le persone con un impiego a tempo determinato. “Ormai è noto che sempre più lavoro è precario e mal retribuito, e non è sufficiente a uscire da una condizione di povertà”, commentano Fabrizio Barca e Andrea Morniroli, co-coordinatori del Forum Disuguaglianze e Diversità. “In questo quadro anche il part-time da strumento di conciliazione di vita e di lavoro, rischia di diventare uno strumento di ulteriore precarizzazione, soprattutto quando viene imposto e non è una scelta del lavoratore e in particolare della lavoratrice. Uno dei segni più evidenti di come abbiamo affrontato la sfida della globalizzazione mortificando il lavoro, in particolare quello delle donne”.

*Questo articolo è stato prodotto grazie alla partnership con Period think tank nell’ambito del progetto #datipercontare

«Ho vissuto la Brexit e avverso i populismi: per questo mi candido con gli Stati Uniti d’Europa» (ildubbio.news)

di Giacomo Puletti

Intervista a Graham Watson, 

britannico con doppia cittadinanza e capolista per Renzi e Bonino nel Nord-Est

Sir Graham Watson, britannico con nazionalità italiana e già parlamentare europeo dal 1994 al 2014, è capolista per gli Stati Uniti d’Europa e spiega di aver vissuto sulla sua pelle il «disastro della Brexit in Gran Bretagna», avversandola «fino all’ultimo» e che si candida alle Europee perché sente anche in Italia «un vento simile».

Da dove arriva, vista la sua storia personale, l’idea di candidarsi alle Europee?

Amo l’Italia, che è la mia seconda patria, ho una moglie di Firenze, due figli che parlano italiano. Per dire che per me è stato naturale accogliere la proposta di Emma Bonino, Matteo Renzi ed Andrea Marcucci di fare il capolista nel Nord Est. Ci metto la faccia, proprio per dire agli elettori che chi dice meno Europa vuole impoverire il Paese. Lo faccio, perché ho vissuto sulla mia pelle il disastro della Brexit in Gran Bretagna, che ho avversato fino all’ultimo. In Italia sento un vento simile, a quello che respirai allora.

In che modo gli Stati Uniti d’Europa possono alimentare il sogno europeo?

A Bruxelles serve una squadra di deputati liberaldemocratici ed europeisti. Una squadra che abbia il compito costante di spingere sul versante dell’integrazione, del federalismo, della reciproca solidarietà. Bisogna finalmente raggiungere un accordo europeo sull’immigrazione, l’Italia non può continuare ad essere l’unico Paese a sopportarne il peso. Un’altra priorità è la politica estera e di difesa, bisogna procedere verso l’esercito comune. L’Europa deve tornare protagonista nei tavoli globali. Poi c’è la questione della competitività, delle aziende, del lavoro. Noi europeisti ci battiamo per un Unione Europea più vicina ai cittadini ed alle condizioni economiche dei territori e meno burocratica.

Da più di due anni va avanti una guerra ai confini dell’Europa, c’è il rischio che il conflitto possa allargarsi e come dovrebbe agire l’Ue per impedirlo?

Apprezzo gli sforzi che sono stati fatti in questi due anni ma non bastano. L’Europa deve mettersi in testa che è la casa delle democrazie e delle libertà e che la Russia di Putin è un pericolo costante per tutti noi. Sostenere e difendere Kiev significa difendere i nostri confini, le nostre istituzioni, il nostro modo di vivere. Mi hanno stupito le parole di un candidato del Pd, Marco Tarquinio: siamo tutti per la pace, ma la non violenza va chiesta all’aggressore, non all’aggredito. Ho detto del Pd, ma sono fortemente imbarazzato dalla posizione della Lega e del M5S.

I partiti che fanno riferimento a renew sono divisi, con IV e piu Europa da un lato e azione dall’altro: avrebbero dovuto correre insieme?

Lo sforzo di Emma Bonino e Più Europa e dei Libdem di Andrea Marcucci da una parte, il senso di responsabilità di Matteo Renzi dall’altra, sono stati sinceri. Non c’era una preclusione verso Carlo Calenda, che secondo me ha sbagliato a dividere. Per propensione personale però, io guardo più al futuro che al passato. Mi auguro che ci siano tante nuove occasioni di incontro con Azione, facciamo tutti riferimento a Renew Europe, la nostra matrice e’ comune.

L’Europa fatica a tenere il passo di Cina e Stati Uniti nel “governo” del mondo: cosa serve per colmare il gap?

Purtroppo l’Europa è ancora un nano politico a causa della sua frammentazione. Una dinamica che ci prefiggiamo di cambiare nella prossima legislatura. Intanto passando dall unanimità al voto a maggioranza, per togliere i diritti di veto che tanti Stati esercitano, pensi all’Ungheria di Orban. Più integrazione significa arrivare ad una politica estera condivisa, solo così torniamo ad essere attori globali. Dobbiamo completare il sogno di Adenauer, De Gasperi e Schuman. Un sogno che è nato su un’isola italiana, a Ventotene, dove un gruppo di reclusi del fascismo, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, ed Eugenio Colorni, hanno immaginato un orizzonte più largo, per uscire dalle dittature.

Milano laboratorio per le politiche del lavoro, Del Conte: “Jobs Act ha segnato una svolta, c’è più occupazione” (ilriformista.it)

di Mario Alberto Marchi

L'intervista

Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro alla Bocconi e Presidente dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro: «I problemi sono dove il Jobs Act non c’è».

Parliamo di Milano, nella sua dimensione di metropoli. Il lavoro si trasforma, la città concentra su di sé i nuovi mercati che appaiono sempre più veloci nel cambiare. La città è al passo, o rischia crisi di identità?

«È una città che è sicuramente tiene un passo veloce. È una città che riesce a cambiare identità, così come ha dimostrato dopo il l’Expo- In tempi velocissimi – quindi rispondendo a quelli che sono gli stimoli esterni. Certo con alcune criticità, che dipendono anche dal fatto che Milano non è una città Stato, ma si inserisce in un contesto più ampio e complesso. Parlando di identità, vien quasi da dire che Milano ha sempre rinunciato in qualche modo, rapidamente alla sua storia. Molte città hanno una loro proprio identità storica che si portano dietro per secoli, ma Milano non è così. Vanta anche una dinamicità di movimenti fra chi viene, chi va e quindi è molto esposta a cambiare anche popolazione».

Soprattutto le tecnologie hanno dettato la necessità di lavori a maggior qualifica e competenza. A Milano, in questo senso, le università con la loro eccellenza generale, giocano un ruolo importante. C’è una giusta connessione?

«Si è verificato un processo biunivoco, cioè da un lato le Università che rispondono al cambiamento del contesto, dall’altro il contesto che risponde all’offerta dell’Università. Del resto, ormai., alcuni ambiti sono stati abbandonati. Tutta la parte della produzione manifatturiera, sostanzialmente non incide più. La città che ha preso una sua direzione e non è più interessata a connettersi con settori a basso valore aggiunto».

Partendo da Milano, guardiamo oltre. Da almeno vent’ anni, quando si parla di lavoro, la parola sulla bocca di tutti è “flessibilità”. Poi, però, c’è sempre qualcuno che invece di essere flessibile, si irrigidisce…

«Sì, in realtà. Milano è da questo punto di vista è molto più europea di tante altre realtà del territorio, nel senso che si confronta con i Paesi europei dove questa flessibilità è un fatto acquisito A Milano si cambia lavoro molto molto velocemente e si trova anche lavoro molto velocemente rispetto al resto d’Italia, basti pensare che il tasso di disoccupazione è sotto al 5%, cioè è un tasso, come si dice in termini tecnici, frizionale, fisiologico., Milano è la città dove, se vuoi le protezioni devi costruirti le competenze. Il tema non è il lavoro, ma le retribuzioni In rapporto ai costi. Ma questo In qualche modo sfida ancora di più ad alzare le competenze per posizionarsi sulla parte più alta del mercato del lavoro».

Ovviamente La volevo portare a parlare di Jobs Act. A proposito di Milano, un quotidiano, nel maggio del 2016, titolava così: “Il Jobs Act, a sedici mesi dalla sua introduzione: quasi una metà dei vantaggi prodotti da questa operazione si sono azzerati”. Era vero?

«Gli effetti di una riforma così, di sistema, si vedono non a 16 mesi, ma negli anni. Il Jobs Act ha segnato una svolta che è stata metabolizzata, è entrata nel modo di essere del lavoro. I numeri dicono che abbiamo più contratti a tempo indeterminato, che abbiamo più occupazione. I miglioramenti, casomai, non si sono avuti proprio laddove il Jobs Act non incideva, cioè il tema dei salari Oggi il problema è ciò di cui non si è occupato il Jobs Act».

Poi ci sono stati anni di continue modifiche. Ora è diventato il nuovo bersaglio da sinistra, da una parte sindacale…

«Sì, in realtà il bersaglio è un pezzettino, cioè ancora una volta riguarda l’articolo 18, questo benedetto sistema di tutele crescenti. Ricordo sempre che Jobs Act si compone di otto decreti legislativi, ma si va a discutere sempre di quello. Vuol dire riesumare questioni che sono state già in qualche modo sistemate dalla storia. La questione lavoro oggi non è attorno alla tutela della reintegrazione. Vogliamo una sistemazione della disciplina? Facciamo una riforma, un ridisegno! Un referendum abrogativo, mi sembra che sia veramente un’operazione priva di senso».

Tornando alla Milano che chiede flessibilità, agilità ed è la realtà economica e lavorativa pilota: chiamiamolo Jobs Act o come vogliamo, ma lo diciamo che la direzione è necessariamente quella e che altrimenti si rischia di perdere il treno del cambiamento e della crescita?

«Sì, se vogliamo guardare all’avanguardia del lavoro. Milano è stata ed è la città laboratorio del lavoro. E’ stata la città dove si è sperimentato il primo patto per il lavoro di Biagi, dove si sono in qualche modo impostate le riforme del lavoro del ventunesimo secolo. È il laboratorio di sperimentazione delle nuove soluzioni».

Aveva ragione Macron (laragione.eu)

di Massimiliano Lenzi

Gliene hanno dette di tutti i colori e invece 
alla fine aveva ragione lui: 

Macron, l’unico leader nella vecchia Europa ad aver parlato senza ipocrisie elettorali della situazione in Ucraina

Gliene hanno dette di tutti i colori. Guerrafondaio. Appicciafuoco. Narciso. Nostalgico della grandeur. E invece aveva ragione lui, unico leader nella vecchia Europa ad aver parlato senza ipocrisie elettorali della situazione in Ucraina.

Lui è il presidente francese Emmanuel Macron e le parole che lo avevano fatto mettere (dagli altri leader, da ministri vari, da giornalisti e commentatori tv) sul banco degli imputati erano queste: non è da escludere l’invio di truppe Nato in Ucraina.

Gli imputavano una fuga in avanti quando in realtà l’unica fuga era quella dalla realtà dei suoi loquaci critici. Perché la situazione al fronte per gli ucraini è malmessa e se la posizione occidentale resta la stessa – non far vincere Putin – lo status quo non può bastare.

In queste ore il quotidiano statunitense “The New York Times” ha scritto che la Nato è sempre più vicina all’invio di truppe in Ucraina per l’addestramento dei militari. Lo scopo è di accelerarne lo schieramento sul campo. E tanti saluti alla retorica (e ai retori) del giammai.

(EPA/Gonzalo Fuentes / POOL MAXPPP OUT)

Burioni accusa il Cnr di Pisa: «È passato dalla parte dell’antiscienza». Nel mirino il convegno organizzato con Assis (open.online)

L’associazione, ricorda il virologo, ha mosso 
diverse critiche ai vaccini e alle politiche 
sanitarie dell’era Covid

«Complimenti al Cnr di Pisa per ospitare un convegno così “prestigioso”. Applauso a scena aperta». Roberto Burioni, sui social, attacca il Cnr di Pisa per aver organizzato un incontro insieme all’associazione Assis (Associazione di studi e informazione sulla salute).

Il virologo ricorda che il Cnr è «un ente statale finanziato dalle nostre tasse» e invita i suoi follower ad «andare a vedere cosa è Assis». Il riferimento è alle posizioni dell’associazione che, negli anni, ha mosso diverse critiche ai vaccini, anche quelli usati per contrastare il Coronavirus.

Assis, in generale, ha espresso giudizi negativi alle politiche sanitarie adottate durante la pandemia. Condividendo la locandina dell’evento intitolato Vivere in salute, che vede la partecipazione del guru dell’alimentazione salutare Franco Berrino, Burioni aggiunge: «Sto pensando che se anche il Cnr passa dalla parte dell’antiscienza, opporsi diventa inutile».

Farsi prendere per i fondelli: Midazolam (butac.it)

di 

Ci troviamo a trattare lo stesso canale YouTube 
per la seconda volta in pochi giorni...

In tanti continuate a segnalarci video del canale AlmaPhysio, canale YouTube che dovrebbe occuparsi di fisioterapia e dintorni e invece sempre più spesso tratta medicina. La fonte sfruttata è sempre la stessa: l’australiano Wilson Sy, autoproclamatosi prima esperto di economia e poi di medicina.

A inizio video ci viene detto che:

…l’articolo di cui ti sto parlando è stato appena pubblicato febbraio 2024 nel Medical & Clinical Research da un gruppo di ricercatori australiani dell’Investment Analytic Research, e fin da subito dal sommario chiunque leggerà questo articolo rimarrà a bocca aperta. Questo studio dimostra, scrivono gli autori, che l’eccesso di morti in Inghilterra attribuito erroneamente al Covid-19 non è stato dovuto dal virus Sars Covid, bensì dall’utilizzo massivo di Midazolam.

Ma fin da subito veniamo presi per i fondelli, vediamo le cose nel dettaglio:

  • Medical & Clinical Research: si tratta di una rivista Open Access del gruppo Opast Publishing Group. Fondato nel 2016, ad oggi vanta un numero di testate online impressionanti, ben 108 che pubblicano a diverso titolo “studi scientifici”. Il sito Publishing with Integrity, dedicato a investigare le riviste scientifiche che fanno pubblicazioni predatorie, se ne è occupato nel 2023. I risultati della loro analisi non sono ancora definitivi, ma hanno sollevato davvero molti dubbi sull’eticità del gruppo editoriale. La cosa che solleva più dubbi è il fatto che gli articoli proposti per la pubblicazione vengono tutti approvati nell’arco di una decina di giorni al massimo, troppo pochi per permettere una vera revisione dei pari.
  • Investment Analytic Research: Italiano usa il plurale, ma non c’è nessun “gruppo di ricercatori”. Dietro quel nome, infatti, c’è una piccola azienda fondata dallo stesso autore dello “studio” Wilson Sy. Soggetto di cui non si sa molto, se non che pre-pandemia si occupava unicamente di investimenti, e anche di quelli senza avere alcuna autorevolezza in patria.

Viene da chiedersi perché un fisioterapista italiano debba prendere uno studio pubblicato senza alcuna valida revisione dei pari su una testata sconosciuta, pubblicata da un editore in odor di predatory publishing, e farci un video intero dal titolo:

La risposta è purtroppo sempre la stessa: clickbait. Esattamente come i quotidiani italiani che oggi riportano ogni morte “improvvisa” su cui riescono a mettere le mani, come i siti che scandagliano la rete per qualsiasi argomento controverso che possa portar loro visualizzazioni. Italiano ha probabilmente capito che il suo pubblico vuole questo genere di contenuti, e avendo lui un canale da circa un milione di iscritti è ben contento di assecondarli.

La tesi di Sy è che l’uso del Midazolam abbia causato, nel Regno Unito, un eccesso di mortalità. Il problema è che quella tesi è stata trattata e smentita ben prima che Sy pubblicasse il suo studio. Difatti i colleghi fact-checker di Full Fact nel 2022 avevano pubblicato un articolo dal titolo:

No evidence midazolam used to kill thousands of patients in April 2020

Articolo in cui viene spiegato perché c’è stato un incremento nell’uso del Midazolam e come qualche soggetto in malafede colleghi quell’uso all’aumento dei morti. L’unica cosa vera è che molti pazienti a cui è stato somministrato il Midazolam sono poi morti, ma il motivo è che il Midazolam si usa spesso per permettere ai pazienti terminali di non soffrire nelle ultime fasi della loro agonia.

Wilson Sy è diventato una voce con un discreto seguito grazie a sue comparsate su piattaforme come quella dell’Australian Citizens Party, partito politico così descritto su Wikipedia: 

L’Australian Citizens Party (ACP), ex Citizens Electoral Council of Australia (CEC), è un partito politico minore in Australia affiliato al movimento internazionale LaRouche, guidato dall’attivista politico e cospirazionista americano teorico Lyndon LaRouche.

Il partito ha promosso teorie cospirative, tra cui quella secondo cui l’azione internazionale sul cambiamento climatico e i diritti fondiari degli indigeni sono parte di una frode consapevole ideata dal principe Filippo, come parte del piano della famiglia reale britannica per spopolare il pianeta. E’ convinto che il principe Filippo stia cercando di dividere gli stati-nazione attraverso il World Wide Fund for Nature e sia coinvolto in un “complotto razzista per frammentare l’Australia”.

Teorie del complotto e puro populismo, non che la cosa ci sorprenda più di tanto.