Personalizza le preferenze di consenso

Utilizziamo i cookie per aiutarti a navigare in maniera efficiente e a svolgere determinate funzioni. Troverai informazioni dettagliate su tutti i cookie sotto ogni categoria di consensi sottostanti. I cookie categorizzatati come “Necessari” vengono memorizzati sul tuo browser in quanto essenziali per consentire le funzionalità di base del sito.... 

Sempre attivi

I cookie necessari sono fondamentali per le funzioni di base del sito Web e il sito Web non funzionerà nel modo previsto senza di essi. Questi cookie non memorizzano dati identificativi personali.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie funzionali aiutano a svolgere determinate funzionalità come la condivisione del contenuto del sito Web su piattaforme di social media, la raccolta di feedback e altre funzionalità di terze parti.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie analitici vengono utilizzati per comprendere come i visitatori interagiscono con il sito Web. Questi cookie aiutano a fornire informazioni sulle metriche di numero di visitatori, frequenza di rimbalzo, fonte di traffico, ecc.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie per le prestazioni vengono utilizzati per comprendere e analizzare gli indici di prestazione chiave del sito Web che aiutano a fornire ai visitatori un'esperienza utente migliore.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie pubblicitari vengono utilizzati per fornire ai visitatori annunci pubblicitari personalizzati in base alle pagine visitate in precedenza e per analizzare l'efficacia della campagna pubblicitaria.

Nessun cookie da visualizzare.

Il Superbonus non ha creato 140 miliardi di euro di gettito in più (pagellapolitica.it)

di CARLO CANEPA

ECONOMIA

Lo sostiene Giuseppe Conte per difendere l’incentivo edilizio, ma questo numero non sta in piedi

Nelle interviste di queste settimane il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte ripete un numero sbagliato e parecchio esagerato per dimostrare che il Superbonus ha avuto grossi benefici per le casse dello Stato, nonostante i suoi costi. Per esempio, ospite il 5 maggio a Zona Bianca su Rete 4, Conte ha accusato di «disonestà» i critici del Superbonus «perché parlano solo del costo» e «non ci dicono dei ritorni, dei ricavi diretti e indiretti» generati dall’incentivo edilizio.

Nello specifico, Conte si è lamentato del fatto che non si parli «del maggior gettito che ha avuto anche questo governo». «Parliamo nel 2023 di circa 140 miliardi», ha aggiunto il presidente del Movimento 5 Stelle, citando un numero che ha poi rilanciato alcuni giorni dopo. «Il maggior gettito di IVA, il maggior gettito complessivo, le maggiori entrate di 140 miliardi, l’anno scorso da dove sono arrivati?», si è chiesto Conte il 13 maggio, ospite dell’Associazione Stampa estera a Roma, sostenendo che questi soldi sono stati portati nelle casse dello Stato proprio dal Superbonus.

In breve, il ragionamento dell’ex presidente del Consiglio è il seguente: grazie agli incentivi fiscali le aziende del settore edilizio, e non solo quelle, hanno lavorato di più, così l’economia è cresciuta e lo Stato ha incassato più soldi dalle tasse pagate dalle imprese e dai clienti, per esempio attraverso l’IVA.

Al di là della bontà di questo ragionamento, abbiamo controllato che cosa dicono davvero i numeri: la cifra riportata dal presidente del Movimento 5 Stelle non sta in piedi, per vari motivi.

La fonte di Conte
Innanzitutto, non è chiaro quale sia la fonte del dato citato da Conte. Un indizio, però, viene fornito da alcuni suoi colleghi di partito, che nelle scorse settimane hanno rilanciato la cifra dei «140 miliardi», seppure con sfumature un po’ diverse. Per esempio il 27 marzo la vicepresidente del Senato Mariolina Castellone ha scritto su Facebook che «nei tre anni del Superbonus le entrate fiscali per lo Stato sono aumentate di 140 miliardi».
Lo stesso giorno il vicepresidente del Movimento 5 Stelle Mario Turco ha fatto la stessa dichiarazione sui social network: «Negli anni di produzione degli effetti del Superbonus le entrate fiscali per lo Stato sono aumentate di 140 miliardi».
Come fonte, Turco ha citato un «bollettino» dell’Istat pubblicato il 1° marzo. In effetti, quel giorno l’istituto nazionale di statistica ha pubblicato le stime aggiornate sull’andamento del Prodotto interno lordo (Pil) e dell’indebitamento dello Stato, ma da nessuna parte ha scritto che grazie al Superbonus lo Stato ha incassato 140 miliardi di euro in più in tasse.
Si può comunque ipotizzare da dove Turco abbia preso questo numero. Se si calcola la differenza tra le entrate correnti (Tav. 18-19) registrate nel 2022 (919,1 miliardi di euro) e quelle registrate nel 2020 (781,7 miliardi), si ottengono circa 138 miliardi, un numero molto vicino ai «140 miliardi». Nelle entrate correnti rientrano varie voci, tra cui le imposte dirette e indirette, e i contributi sociali.
Prendendo per buono il calcolo fatto da Turco, questo vorrebbe dire che tutte le entrate in più registrate tra il 2020 e il 2022 sarebbero merito del Superbonus, il che è evidentemente impossibile (su questo punto torneremo tra poco).
Negli scorsi mesi un errore simile è stato fatto più volte da Conte per quanto riguarda la crescita del Pil e degli occupati: in varie occasioni, sbagliando, il presidente del Movimento 5 Stelle ha dato al Superbonus il merito di tutta la crescita del Pil registrata tra il 2021 e il 2023 e di tutto l’aumento dei posti di lavoro. È vero che il Superbonus ha avuto un impatto sull’economia, ma è sbagliato attribuirgli tutti i meriti della crescita economica post-pandemia.
Prendiamo l’esempio del Pil: nel 2023 il Pil italiano è stato più alto del 13,6 per cento rispetto al 2020. Questa crescita, però, non è stata creata tutta dal Superbonus, approvato a maggio 2020 ma diventato operativo mesi dopo. Secondo le stime più attendibili, il contributo degli investimenti in costruzioni residenziali alla crescita del Pil è stato di due punti percentuali, di cui uno è riconducibile al Superbonus. Dunque il bonus edilizio ha avuto un impatto sull’economia, ma non tanto da essere responsabile di tutta la crescita economica registrata dopo il crollo del Pil nel 2020.
I numeri sulle entrate tributarie

Ritorniamo alla dichiarazione di Conte, secondo cui solo nel 2023 il gettito in più generato dal Superbonus sarebbe stato pari a 140 miliardi. Anche i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze sulle entrate tributarie mostrano l’implausibilità di questa tesi.

Nel 2020 le entrate tributarie hanno raggiunto un valore pari a 446,8 miliardi di euro, nel 2021 a 496 miliardi, nel 2022 a 544 miliardi e nel 2023 a 568,5 miliardi. Tra l’anno scorso e l’anno in cui è iniziata la pandemia c’è dunque una differenza di circa 122 miliardi. Lo stesso ministero ha spiegato per ogni anno le ragioni delle variazioni e da nessuna parte scrive che l’aumento è tutto merito del Superbonus, anzi. In alcuni casi ha sottolineato la crescita di alcune entrate causata da fattori che non dipendono né dal bonus edilizio né, più in generale, dalla crescita dell’economia.

Per esempio, l’aumento del gettito registrato nel 2021 è stato in parte dovuto al fatto che nel 2020 era stato sospeso il pagamento di alcune imposte, sbloccato poi l’anno successivo. Molto semplicemente questo ha portato a pagare nel 2021 imposte che sarebbero dovute essere pagate nel 2020. Nel 2022 sono invece aumentate le entrate di alcune imposte (tra cui quelle sul gioco d’azzardo) «il cui andamento non è direttamente legato alla congiuntura economica», e quindi non legato a un eventuale contributo all’economia dato dal Superbonus. Infine nel 2023, tra le entrate in aumento, ci sono state quelle relative alle accise sui carburanti.

Che cosa dice l’Agenzia delle Entrate

Esistono poi alcune stime su quanto abbia contribuito effettivamente il Superbonus all’aumento del gettito, che mostrano ancora una volta l’implausibilità della dichiarazione di Conte.

L’Agenzia delle Entrate ha calcolato che tra il 2021 e il 2022 il gettito complessivo del Superbonus è stato pari al 19 per cento circa della spesa, una percentuale in linea con quella stimata dall’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano.

Secondo i dati più aggiornati dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea), alla fine di marzo 2024 gli oneri a carico dello Stato per il Superbonus hanno raggiunto i 122 miliardi di euro. Applicando a questo valore la percentuale del 19 per cento, si ottiene un gettito per lo Stato pari a circa 23 miliardi di euro, una cifra molto distante dai 140 miliardi di euro rivendicati da Conte.

In passato lo stesso presidente del Movimento 5 Stelle aveva sostenuto che addirittura il 70 per cento della spesa del Superbonus sarebbe rientrato nelle casse dello Stato grazie alle imposte. La fonte di questa percentuale era un rapporto pubblicato a novembre 2022 dal Censis, un istituto di ricerca socioeconomica, che si occupa anche di consulenza e assistenza tecnica. Quel rapporto era stato scritto in collaborazione con alcune società attive nel settore dell’efficientamento energetico e con organizzazioni del settore delle costruzioni.

Ma al di là del potenziale conflitto di interessi, le stime fatte dal Censis erano «eccessive», come ha spiegato il 24 novembre 2022 su Il Foglio Leonzio Rizzo, professore di Scienza delle finanze all’Università di Ferrara. Senza entrare troppo nei dettagli, il Censis ha provato a quantificare il cosiddetto “effetto moltiplicatore” del Superbonus.

Detto in parole semplici, il Censis ha tentato di stimare il valore della produzione attivata dagli investimenti legati al Superbonus. Secondo i calcoli di Rizzo, però, il centro di ricerca ha sovrastimato il gettito fiscale di «più del doppio rispetto a quello effettivo».

Gentiloni contro Conte per dire a Schlein di farla finita con quest’alleanza (linkiesta.it)

di

Gancio al mento

Il commissario europeo all’Economia smentisce il capo Cinquestelle sul pnrr, tre anni dopo che l’aveva fatto Renzi a Linkiesta Festival

Un pugno in faccia improvviso nel bel mezzo della campagna elettorale per le elezioni Europee. Un cazzotto di quelli che fanno male, come avrebbe detto il personaggio dell’ex pugile Vittorio Gassman ne “I mostri”.

Per la verità nell’attacco di Paolo Gentiloni non c’è nessunissimo scoop: che la cifra italiana del Next Generation Eu sia stata stabilita da un algoritmo e non strappata con le unghie da un sedicente eroico Giuseppe Conte lo aveva già detto Matteo Renzi due volte, prima al Festival de Linkiesta a Milano il 13 novembre 2021 ripetendo lo stesso concetto una settimana dopo alla Leopolda: quella «incredibile mole di denari che arriva al nostro Paese non è perché l’ha portata Conte.

C’è un algoritmo fatto da due dirigenti olandesi in sede di istituzioni europee che hanno matchato le caratteristiche macroecononiche dell’Italia e i denari che vengono dall’Europa. Non è un merito del governo che ha fatto la trattativa, è un algoritmo».

Gentiloni ha adoperato più o meno le stesse parole nel libro-intervista scritto da Paolo Valentino, firma autorevole del Corriere della Sera, di cui ieri il quotidiano ha fornito un’anticipazione, ed è scoppiata la polemica. Perché che Renzi ne dica di tutti i colori sul capo del Movimento 5 stelle non fa notizia, ma lo è se lo fa il tranquillo commissario europeo: «Parlo delle quote di finanziamento assegnate ai diversi Paesi. Non sono state negoziate dai capi di governo. Sono state ricavate da un algoritmo che è stato tra l’altro ideato e definito da due direttori generali (entrambi olandesi). C’è un po’ di retorica italiana sul fatto che abbiamo conquistato un sacco di soldi. Non è vero. L’Italia è il settimo Paese in termini di rapporto tra soldi ricevuti e Pil. Ci sono altri che in termini relativi hanno portato a casa molto di più, dalla Spagna alla Croazia. Sempre grazie all’algoritmo».

L’accusato di «retorica» che effettivamente in questi anni si è fatto bello per la da lui sbandierata capacità di negoziare, cioè l’avvocato del popolo, molto si è risentito bollando il discorso di Gentiloni come «sproloquio». Quando invece il meccanismo per la ripartizione dei fondi era proprio quello governato da un algoritmo, come è noto da anni, e infatti nessuno aveva smentito Renzi.

La domanda dunque non è se abbia ragione il commissario europeo o l’avvocato – ha ragione il primo – ma come mai l’episodio venga rievocato adesso, cioè mentre è in corso una sotterranea ma cruciale battaglia tra Partito democratico e Movimento 5 stelle per la primazia tra i partiti dell’opposizione, cioè per ipotecare la leadership del futuribile “campo largo”.

Per essere ancora più chiari, bisognerebbe chiedersi se il pugno in faccia rifilato da Gentiloni a Conte non prosegua il suo tragitto finendo per abbattersi, pur con molto meno impeto, su Elly Schlein, la leader del Partito democratico che non ha mai pensato nemmeno per un attimo di svincolarsi dall’avvocato di Volturara Appula.

Come se, insomma, la frase gentiloniana che azzera i meriti di Conte nella trattativa europea sul Piano nazionale di ripresa e resilienza contenesse anche un messaggio nemmeno tanto in codice a Schlein: non inseguire il Movimento. Perché gira gira il nervo scoperto è ancora Conte e il nodo resta sempre quello delle alleanze che dopo il “primum vivere” delle europee il Partito democratico dovrà porsi una volta per tutte.

C’è anche chi nel Pd l’ha letta in modo ancora più tranchant. Il commissario europeo all’Economia, il quale, non lo si dimentichi, tornerà presto a fare politica in Italia, ha voluto tirarsi fuori dalla parte di “federatore” che taluni gli vogliono cucire addosso: ma federarsi con chi, con quel finto negoziatore che deve solo ringraziare un algoritmo?

Può darsi che siano interpretazioni esagerate. Ma intanto il pugno in faccia è arrivato a destinazione e adesso Giuseppe Conte ha un bel livido in più, in questa che per lui è già una campagna elettorale non facile.

Leggi anche: Gentiloni sbugiarda Conte e la sua retorica sul Pnrr: “I soldi decisi da un algoritmo, nessun negoziato”. Il M5s si contorce

Il commissario Gentiloni: «Le quote del Pnrr? Non è vero che abbiamo conquistato un sacco di soldi»

Pnrr, scontro a sinistra sulle parole di Gentiloni: “Manipolazione della verità”

Perché la teoria della «falsa pandemia» del professor Stefan Homburg è del tutto infondata (open.online)

di Juanne Pili

FACT-CHECKING

Il professore emerito di economia Homburg è stato smentito dai suoi stessi colleghi riguardo alla pandemia di Covid-19

Circolano le condivisioni di una clip riguardante una conferenza del professor Stefan Homburg, dove l’uomo sostiene sostanzialmente che ci sarebbe stata una falsa pandemia di Covid-19. Infatti, secondo questa narrazione il numero di morti sarebbe stato sostanzialmente invariato rispetto alla norma. Piuttosto sarebbero stati i test diagnostici a creare questa illusione. Vediamo perché si tratta di affermazioni totalmente false.

Analisi

Le condivisioni riguardanti le gravi affermazioni di Homburg sul quella che secondo lui sarebbe stata una falsa pandemia, sono accompagnate dalla seguente didascalia:

Breaking news
DICHIARAZIONI EPICHE
FALSA PANDEMIA, LO DICONO I DATI. IN GERMANIA VIENE GIÙ TUTTO. PROF. STEFAN HOMBUR
Il Prof. Stefan Homburg, davanti a scienziati e colleghi, ha demolito la narrazione pandemica tedesca.
I dati ufficiali dimostrano che non vi fosse alcuna emergenza e che il tutto fu costruito ad arte con l’unico scopo di vincere le resistenze delle persone ed inocul@rle più volte con i vel€ni mRna.
STOP DITTATTURA
MASSIMA CONDIVISIONE

Le congetture alla base della teoria

Homburg condisce le sue tesi con svariate congetture, ma per dimostrare che ci troviamo di fronte a una falsa pandemia dovremmo avere effettivamente un numero di decessi invariato in Germania durante il periodo delle ondate di Covid-19; dei test PCR che riconoscano SARS-CoV-2 anche con tamponi dove sappiamo che non essere presente; infine dovrebbero esserci operatori sanitari che ammettono di aver fatto parte di una farsa in cui si sarebbe simulata una emergenza nei reparti di terapia intensiva.

Nonostante qualcuno – con sprezzo della chimica – abbia tentato di screditare l’efficienza dei test molecolari PCR, che riconoscono univocamente la traccia genetica di SARS-CoV-2, per esempio usando dei kiwi (Sic!), nessuno ha prodotto evidenze che rendano tali strumenti una frode medica mondiale. Trovate diversi esempi nelle nostre precedenti analisi (quiqui e qui).

Non vi sono prove di una farsa che abbia simulato una crisi dei reparti di terapia intensiva in Germania. Inoltre i dati sui decessi collegati alla Covid-19 sono difficili da smentire. Certamente una maggior efficienza della Sanità tedesca rispetto a quella di altri paesi come il nostro deve aver giocato un ruolo importante.

Questo non ha impedito che anche i tedeschi registrassero i propri “record”, come quando il 10 novembre 2021 in un giorno superò i 50 mila contagi, che provocarono 235 morti. Prima ancora, nel febbraio dello stesso anno in Germania si superarono 2,44 milioni di contagi, con oltre 70 mila decessi.

Homburg non è un epidemiologo, né un virologo. Parliamo infatti di un professore emerito di economia. Questo non gli ha impedito di sostenere che le statistiche del Robert Koch Institute sull’epidemia di Covid-19 in Germania fossero «tutte bugie». Certamente non sono i titoli a stabilire di quali argomenti trattare, ma le sue argomentazioni sono state smentite anche da altri economisti ed esperti di statistica, che hanno definito le sue analisi «metodologicamente imperfette».

Conclusioni

Le congetture del professor Homburg sulla presunta falsa pandemia di Covid-19 sono state smentite non solo dai dati del Robert Koch Institute, ma anche dai colleghi dell’ex docente di economia e dagli esperti di statistica, notando dei veri e propri errori di metodo nelle sue “analisi”.

Pietro Ichino difende il Jobs Act: “La Cgil si oppose al salario minimo” (ilriformista.it)

di Aldo Torchiaro

Il giuslavorista puntualizza: con il governo 
Renzi e le misure sul lavoro ci fu un indubbio 
aumento degli occupati. 

“Il decreto attuativo prevedeva l’introduzione di una paga base, ma i sindacati…”

Sul Jobs Act la triade Cgil-Conte-Schlein suona i tamburi di guerra.

Tamburelli, per il momento, ma a loro piace così: raccolgono firme senza troppa convinzione per proporre un referendum di iniziativa popolare, con il non detto di non arrivare davvero a nessun quesito. Anche perché non precisano cosa vogliono riformare, né tantomeno come. Una storia sin troppo nota: tanta propaganda facile da mandare giù nel tentativo di richiamare attenzione alle Europee, ma neanche l’ombra di una ipotesi di riforma del lavoro. Come è peraltro assodato dopo tre anni di immobilismo dei due governi Conte, rimpianti dai “Nuovi Dem” di Elly Schlein. Un Pd molto diverso da quello del quale il giuslavorista Pietro Ichino è stato dirigente e parlamentare. Gli abbiamo chiesto cosa pensa della mobilitazione contro il Jobs Act, la grande riforma del lavoro voluta dal governo Renzi.

Professor Ichino, la Cgil promuove un referendum contro il Jobs Act e il Pd di Elly Schlein sembra aderire all’iniziativa. Lei cosa ne pensa?

«I decreti delegati che hanno dato attuazione al Jobs Act sono otto e hanno investito tutto l’arco del diritto del lavoro. La Cgil farebbe bene a dire chiaramente quali parti propone di abrogare».

Possiamo ipotizzare che vogliano abrogare il d.lgs. n. 23/2015, quello sui licenziamenti.

«Tornare al vecchio regime della job property nelle aziende medio-grandi sarebbe una sciocchezza. In primo luogo perché la riforma risponde all’esigenza di armonizzare il nostro diritto del lavoro con quello di tutti gli altri Paesi della UE: tornare a un regime di job property nel settore privato significherebbe ripristinare una anomalia italiana dannosa».

E in secondo luogo?

«Perché quella riforma non ha portato affatto la “precarizzazione del lavoro” di cui parla il segretario della Cgil: la probabilità di essere licenziati è rimasta sostanzialmente invariata. Mentre il vero risultato della riforma è stato il dimezzamento del contenzioso giudiziale su questa materia: i soli che ci hanno perso veramente sono gli avvocati».

Si è detto anche che è una riforma che ha prodotto lavoro, un milione di occupati in più. È così?

«Nel quinquennio tra il 2013 e il 2018 si è registrato un forte aumento del numero degli occupati. Però la scienza economica insegna che la concomitanza temporale non basta per affermare il nesso causale tra la norma legislativa e il fenomeno osservato».

Sta di fatto che le leggi successive e la Corte costituzionale sono già intervenute più volte a correggere la riforma dei licenziamenti.

«Nel 2019 è stato aumentato il limite massimo dell’indennizzo per il licenziamento ingiustificato da 24 a 36 mensilità; inoltre la Consulta ha stabilito che il giudice deve poter stabilire liberamente l’indennizzo tra il minimo e il massimo. Ma nel complesso questi interventi non hanno scalfito il nucleo essenziale della riforma, cioè il passaggio da un regime fondato sul principio della job property a un regime fondato sulla sanzione indennitaria».

Landini dice che così si lede un diritto fondamentale della persona del lavoratore.

«Se la job property fosse un diritto fondamentale della persona, non si spiegherebbe come nel vecchio regime abbia potuto restarne esclusa metà dei lavoratori dipendenti. E non si spiegherebbe perché quel preteso diritto fondamentale sia ignorato in tutti gli altri Paesi dell’Occidente sviluppato. Chi vuole abrogare questa riforma dovrebbe, piuttosto, spiegare come si giustifichi un regime come il nostro ora superato, che garantiva l’inamovibilità alla metà privilegiata dei dipendenti privati, scaricando tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno sull’altra metà».

Poi c’è il discorso sui contratti a tempo determinato: si dice che ora due terzi dei nuovi posti di lavoro sono a termine.

«Non si deve confondere il dato di flusso col dato di stock: sul totale dei dipendenti occupati, quelli a termine oggi non sono più di un sesto: una percentuale in linea con la media della UE, che comunque è andata lentamente crescendo dappertutto nell’ultimo quarto di secolo».

Il mondo del lavoro cambia. Velocemente. Il sindacato no: è un museo del lavoro, la fotografia in bianco e nero di come era una volta. Perché la Cgil in particolare rimane ancorata al passato?

«Non generalizzerei: il movimento sindacale non è solo la Cgil. E anche nella Cgil sono in molti a non pensarla come il suo segretario generale».

Il Jobs Act aveva punti di forza e punti da rafforzare. Non pensa che oggi se ne parlerebbe in modo diverso se esso fosse stato realizzato compiutamente in ogni sua parte?

«Concordo. I punti principali sui quali l’attuazione è mancata sono tre. In primo luogo l’ANPAL-Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, che è stata massacrata sotto la presidenza di Domenico Parisi. E le politiche attive hanno continuato a latitare. Poi l’anagrafe della formazione professionale e il suo incrocio con i dati sui flussi occupazionali, previsto dagli articoli da 13 a 16 del decreto n. 150 del 2015: anche questo è rimasto lettera morta, col risultato che continuiamo a finanziare formazione professionale di cui non conosciamo la qualità e l’efficacia».

Il terzo punto?

«Il salario minimo: la legge-delega prevedeva la sua istituzione per tutti i rapporti di lavoro non coperti da contratto collettivo nazionale. Se la delega non è stata attuata, è stato anche per l’opposizione della Cgil, che invece oggi rivendica la legge sul salario minimo».