Strage di Capaci, il ricordo malato della morte di Falcone: quando il parlamento cedette le armi all’alba di Mani Pulite (ilriformista.it)

di Tiziana Maiolo

Il ricordo

La morte di Giovanni Falcone del 23 maggio 1992, cui seguirà quella di Paolo Borsellino del 19 luglio, ha segnato, insieme alla fine della Prima Repubblica, anche quella dello Stato di diritto e della sua riforma del 1989. Fino a quell’anno tragico, dal giorno dell’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa del 1982, il governo si era impegnato nella lotta alla mafia con ben 113 provvedimenti legislativi, a partire dalla creazione dell’articolo 416-bis del codice penale, che definiva l’associazione mafiosa.

Ma non si era dimostrata la strada giusta, infatti non era riuscita a impedire le stragi. E l’attività di intelligence correva parallela, con i boss di Cosa Nostra tutti latitanti, fino a che, nel gennaio 1993, il generale Mori non riuscì a catturare Totò Riina. E poi tutti gli altri. Ma nel frattempo si provvide a distruggere tutto. La Prima Repubblica e lo Stato di diritto. Nessuno dei due si riprenderà più.

Il contesto

Due giorni dopo la morte di Falcone, mentre a Palermo si celebrano i funerali, a Roma si incorona Scalfaro presidente della Repubblica. Una mossa improvvisa e imprevista, improntata all’ondata moralistica che imperversava dall’inizio delle inchieste milanesi su tangentopoli. Ma tutto si muove nella fretta, in quei giorni, come se si avesse la sensazione, che non si rivelerà infondata, che presto sarebbe finito tutto.

Alla Camera tutto pare concentrato nell’attività della commissione per le autorizzazioni a procedere. Ci sono sei casi urgenti da risolvere, e riguardano personaggi politici non proprio secondari. Si tratta di Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, i socialisti ex sindaci di Milano, di Severino Citaristi amministratore della Dc, Paolo Del Pennino, capogruppo repubblicano, il socialdemocratico Renato Massari e l’esponente del Pds Gianni Cervetti.

Eh sì, perché in quei giorni non c’erano solo le stragi dei corleonesi, ma anche un altro tipo di bomba, quella lanciata dal pool di Mani Pulite. E l’aria della situazione economica del Paese non era delle più respirabili. Tanto che all’assemblea annuale della Banca d’Italia il governatore Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo che si sta per formare di riavviare immediatamente il risanamento della finanza pubblica con una manovra da 30.000 miliardi di lire per il 1992 e una da 100.000 per il 1993.

Le leggi antimafia e la rinuncia all’immunità

In questo clima di debolezza finanziaria, economica e politica, con un’opinione pubblica che sbeffeggiava gli uomini di partito e osannava le toghe con fiaccolate in cui si invocava “Di Pietro facci sognare”, la magistratura assunse le leve del potere. E non le lasciò più. Indagò e arrestò, a Milano e poi in tutta Italia. E il Parlamento cedette le armi.

Prima con le leggi “antimafia” che introdussero il doppio binario e la distruzione delle regole basilari della riforma del codice di procedura penale del 1989. E poi, l’anno successivo, con la rinuncia a quell’immunità dei parlamentari che i padri costituenti avevano voluto per porre argine all’arbitrio non solo della magistratura ma addirittura del singolo pubblico ministero.

Fu un parlamento debole per l’assalto mafioso e ricattato da quelle fiaccolate che invocavano le manette per i politici, quello che si tagliò le gambe con l’abolizione dell’immunità. Ma prima ancora, con l’illusione di poter combattere la mafia con leggi repressive che, nel nome di Falcone e Borsellino, erano impregnate più di vendetta che di diritto.

La controriforma

È l’8 di giugno del 1992, Falcone è morto da due settimane, quando il governo, che sarà l’ultimo governo Andreotti, in risposta a Cosa Nostra, approva un decreto legge dal titolo importante. Ma che non contempla solo “provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”, come ci si aspettava. Perché alle norme “antimafia” erano aggiunte anche “modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale”.

Una vera controriforma, forse dovuta anche a tre sentenze della Corte Costituzionale, che erano state il primo segnale di quella sub-cultura conservatrice di tanta parte della magistratura che si manifesta ancora oggi con l’ostilità a qualunque tipo di cambiamento nel settore della giustizia penale. Quel decreto, che nel clima passivo del parlamento di oggi avrebbe scandalizzato forse solo qualche deputato di Forza Italia e Italia Viva, insieme a Enrico Costa e un paio di radicali, nel mondo politico del 1992 incendia gli animi.

Intanto, prima che le carte planassero al Senato, c’era stato un mese di assordante silenzio nel quale si era tolto la vita Renato Amorese, il primo dei 41 suicidi di tangentopoli, Giuliano Amato era diventato presidente del consiglio, Bettino Craxi aveva denunciato alla Camera il finanziamento illecito di tutti i partiti e la falsità dei bilanci chiusi nelle casseforti, la Banca d’Italia era intervenuta a sostegno della lira aumentando il tasso di sconto dal 12% al 13%.

Ma subito il mondo della giustizia è in subbuglio. Soprattutto i componenti della commissione Pisapia, che lavorava alla riforma del codice di procedura penale e che tanto si era battuta perché anche in Italia si passasse dal sistema inquisitorio a quello accusatorio.

Documenti di protesta erano arrivati anche da parte dell’Associazione dei docenti di procedura penale presieduta da professore Giovanni Conso. Gli avvocati erano scesi in sciopero e anche una parte della magistratura, quella riformatrice che oggi non esiste più, aveva manifestato il proprio dissenso.

Nelle carceri i detenuti, su cui si era avventata la vendetta dello Stato che ancora non riusciva a catturare i boss latitanti, avevano iniziato scioperi della fame e si erano iscritti in massa al partito radicale.

La tomba dello Stato di diritto

Si era buttata alle ortiche una intera stagione di riforme, quelle carcerarie come la Gozzini e quella del 1975, ma anche il primo timido tentativo di entrare nel sistema accusatorio, quello che deve ancora essere completato con la separazione delle carriere e il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Sia la politica del doppio binario che la retroattività di quella norma del 1992, in contraddizione con il processo di tipo accusatorio, e poi la nascita dei reati ostativi e dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, furono la tomba dello Stato di diritto. Da cui, nella sostanza, non si è più tornati indietro.

Anche se, va ricordato, quella classe politica indebolita dalla mannaia della magistratura e dalla ferocia della mafia, mostrò, finché poté, una certa resistenza alla controriforma. Per esempio, in una conferenza stampa del 7 luglio 1992, furono i comunisti di allora, ben diversi da quelli di oggi, il senatore Ugo Pecchioli e il deputato Massimo Brutti, a chiedere al governo di ritirare il decreto, a causa dello “stravolgimento del processo penale, della Costituzione e dell’ordinamento penitenziario”.

Il processo Trattativa

Una certa maretta c’era anche tra i socialisti e nel mondo cattolico, mentre i liberali, i radicali e Rifondazione erano contrari. Si tennero audizioni su audizioni, nelle quali il decreto non trovò sostenitori. Tanto che il governo stava quasi per rinunciare. Ma provvide la mafia, a togliere dall’imbarazzo. Il 19 luglio in via D’Amelio a Palermo i corleonesi uccisero il giudice Paolo Borsellino. E lo scenario cambiò. Il 4 agosto il decreto fu approvato, in un clima da funerale che non era solo il cordoglio per l’ennesimo tragico assassinio di mafia.

Quello fu non solo il giorno della sepoltura dello Stato di diritto, ma anche l’inizio di una nuova favola, quella che porterà al “processo Trattativa”. Che durerà per trent’anni, prima che un tribunale della corte di Cassazione lo dichiari “storiografia” e non giustizia. Ma anche una storia che pare non finirà mai, dopo l’iniziativa della procura di Firenze di indagare il generale Mario Mori per strage e eversione, senza il rossore per averlo convocato proprio per il 23 maggio, nel ricordo, in questo caso malato, della morte di Giovanni Falcone.

L’eredità di Falcone tradita da un’antimafia autoreferenziale e di potere (ildubbio.news)

di Alberto Cisterna, magistrato

Gli strumenti ideati nel 1991, si sono trasformati 
in una sorta di grimaldello per fondarvi una 
egemonia politica, culturale e mediatica e, quindi, 
di potere

A 32 anni dall’eccidio, un tempo enorme in verità, probabilmente è corretto porsi una domanda: ma esiste davvero un’eredità di Giovanni Falcone? La sua vita, le sue idee hanno veramente scavato un solco nella vita del paese e nella magistratura italiana oppure solo la sua morte è stata l’inizio di un ciclo opaco con cui siamo ancora oggi chiamati a far di conto?

Giovanni Falcone, probabilmente, muore più per ciò che aveva portato a compimento nel 1991 che per la sola conclusione, nel gennaio del 1992, del suo maxiprocesso di anni prima.

Lo ha sussurrato agli inquirenti, prima di morire, persino Matteo Messina Denaro dubitando di quella scontata e tralaticia causa dell’attentato di Capaci e fornendo, così, un’indicazione che non deve essere fatta cadere troppo in fretta. L’attività del magistrato dal febbraio 1991 (quando era ancora procuratore aggiunto a Palermo) sino alla morte (come direttore generale del ministero della Giustizia) è il fulcro, la base, il solstizio che illumina praticamente tutta la legislazione antimafia.

Non c’è ambito, dallo scioglimento dei consigli comunali alla protezione dei pentiti, dai reparti speciali delle forze di polizia alla direzione nazionale antimafia, dal contrasto ai sequestri di persona alle intercettazioni che non abbia a proprio fondamento l’azione di Giovanni Falcone, quella di Claudio Martelli, ministro di Giustizia, e tra le quinte quella di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica.

Una triade di spettacolare e irripetibile efficacia che, a dispetto di ogni resistenza e di ogni ostacolo, in appena un anno organizzò la più potente e vittoriosa macchina da battaglia mai messa in campo contro le cosche mafiose. In confronto l’epica del famoso prefetto Mori – il cosiddetto prefetto di ferro di mussoliniana memoria – impallidisce se si guarda alla sorte spettata ad almeno un paio di generazioni di mafiosi, praticamente quasi tutti morti all’ergastolo o condannati a lunghissime pene.

Che fine abbiano, poi, fatto le mafie nel 2024 è questione che ricade per intero nella responsabilità di altri che sembrano aver pericolosamente smarrito le tracce di un fenomeno che ha in radice mutato pelle e, al momento, appare francamente intangibile e sconosciuto se non per via di sconfortanti ipotesi e talvolta sconclusionate interviste.

Cose di cosa nostra, il libro scritto dal giudice ucciso con Marcelle Padovani, è e resta un compendio preciso, minuto, dettagliato dello “stato” della criminalità mafiosa e, ancora oggi, si staglia come un’opera irripetibile; certo irraggiungibile da una florilegio di evanescenti e autocelebrative pubblicazioni che si lanciano in ipotesi e in iperboli, sapendo dire poco o nulla di concreto e verificabile su quel mondo.

Ecco l’eredità lasciata in vita da Giovanni Falcone – quel sofistico plesso di norme rivoluzionarie e di soluzioni organizzative avanzate – appare a tratti dispersa e consunta, annacquata da celebrazioni prive di una capacità propulsiva e diluita in pure commemorazioni, in gran parte retoriche, se non dolorosamente presenzialiste.

Per oltre tre decenni, praticamente sino a ieri, la soluzione più semplice è apparsa quella di innestare sull’albero lasciato vitale dal magistrato ucciso ulteriori rami. Così competenze, accessi, coordinamento, cooperazioni, comunicazioni hanno generato un gigantesco moloch documentale e informativo che nutre l’enorme macchina organizzativa che sono oggi gli apparati antimafia.

Un pulviscolo di uffici, di corpi di polizia, di uffici centrali e distrettuali, di sedi prefettizie, di articolazioni degli istituti bancari che cannibalizza ogni minuta informazione e cerca di espandere il raggio di influenza degli apparati antimafia sino a giungere alla soglia del pericolo dei dossieraggi sulla politica e non solo.

Grazie anche alle informative prefettizie e alle misure di prevenzione (portate qualche anno or sono a ridosso dell’evasione fiscale e, poi, della corruzione e dei reati contro la pubblica amministrazione) praticamente non esiste ganglio della vita sociale, politica ed economica del paese che non possa essere drenato al crivello fine degli strumenti che, ideati e affinati nel 1991, si sono trasformati in una sorta di efficiente grimaldello per fondarvi una profonda operazione di egemonia politica, culturale e mediatica e, quindi, di potere.

Si è, in parte, creato un ceto sacerdotale che, anziché procedere come suo dovere alla puntuale denuncia e alla conseguente estirpazione delle collusioni e delle complicità, si è specializzato in una sorta di perenne vaticinio sulle possibili, terribili conseguenze dell’azione delle cosche e che reclama l’olocausto in sacrificio di ulteriori competenze.

Un indecifrabile oracolo di Delfi che si destreggia con un linguaggio allusivo, evocativo, a tratti esoterico ed iniziatico che non può essere compreso dai più, dai deboli, da quelli che vivono davvero il dramma della sopraffazione. Alla descrizione piana, diretta, semplice, comprensibile dell’azione mafiosa e dei suoi polimorfismi generata da Sciascia e Falcone, si è sostituita l’intermediazione di un ceto di chierici composto promiscuamente di toghe, giornalisti embedded, improvvisati docenti universitari, scrittori di nicchia, associazioni antimafia che si sono arrogati il compito di decifrare i segni oscuri delle cosche, di interpretarne le dinamiche occulte e che vaticinano sulle sorti della democrazia.

Alla legittimazione costituzionale che trova fondamento solo sull’efficacia del contrasto e sulla sua assoluta indispensabilità emergenziale, si è sostituita l’autosufficienza degli apparati che pretendono di accrescere esponenzialmente la propria capacità di intrusione in nome di politiche ormai solo di asserita prevenzione della minaccia, con una repressione quasi sempre deludente nei suoi reali risvolti.

La morte di Falcone ha avviato un percorso che, in parte, ne ha tradito la vita, dissipando forse un bene prezioso.

Ferruccio De Bortoli boccia Michele Santoro: “Velleitario”

di Gabriele Imperiale

“Posizione assolutamente velleitaria”: 

Ferruccio De Bortoli bolla il Santoro-pensiero e striglia l’ex giornalista Rai per le sue posizioni sulla difesa europea e la necessità del continente di essere preparato a qualsiasi tipo di scenario.

L’editorialista de Il Corriere della Sera, ospite di Lilli Gruber e del suo Otto e mezzo su La 7, ha infatti risposto duramente all’intervento di Michele Santoro, molto critico nei confronti dell’Occidente e del riarmo europeo.

“Credo che la posizione di Michele sia assolutamente velleitaria – esordisce l’editorialista – Mi sembra di capire che se dobbiamo dar seguito alle indicazioni di Michele, gli ucraini dovrebbero arrendersi e lasceremmo lo spazio alla Russia di coltivare il proprio progetto neo imperiale”.

De Bortoli spiega quale dovrebbe essere il futuro degli europei e cita la storia: “Dobbiamo armarci in termini di deterrenza – spiega il giornalista – Meno male che c’è stata la deterrenza durante la guerra fredda perché poi il sistema sovietico è caduto anche per questa ragione”.

L’ex direttore de Il Sole 24 ore non scappa però dalle critiche sulla Nato del candidato alle prossime europee di Pace, Terra e Dignità, e anzi rilancia il dibattito sulla forza dell’Europa: “Poi ci saranno stati degli errori che ha commesso la Nato e li ha enumerati anche lo stesso Michele – ammette – Però è indubitabile: noi dobbiamo difendere quelli che sono i nostri diritti, la nostra civiltà in una difesa di pace all’interno dell’Europa, perché l’Europa è una costruzione di pace”.

Europa che per De Bortoli è “l’unico esperimento che ha esportato la democrazia senza le armi, l’adesione è stata chiesta da Paesi che erano prima sotto il tallone comunista”.

Mentre Santoro in studio non sembra apprezzare l’intervento, il giornalista sottolinea anche un altro aspetto: “A me colpisce che ci sono alcune decisioni di Paesi con i quali noi ci confrontiamo sempre e li ammiriamo – spiega – pensate soltanto alla Danimarca che ha appena fatto una legge per la leva obbligatoria di donne e uomini”.

De Bortoli poi chiude il suo intervento: “Io spero che non si torni alla leva obbligatoria e penso che sarebbe veramente un tornare indietro. Però se anche Paesi come la Danimarca, la Norvegia, la Svezia che hanno una storia diversa dalla nostra, hanno un’attenzione di questo tipo, forse qualche riflessione in più dovremmo farla”.

La Statale di Milano si arrende agli studenti pro Palestina (ilfoglio.it)

Mentre il Senato accademico dell'Università di 
Firenze approva una mozione che chiede il cessate il
fuoco a Gaza, 

la Statale rimanda l’Open Day a causa dell’occupazione in corso.

Poche decine di facinorosi minacciano i diritti di tutti gli studenti e persino degli studenti futuri

Mentre l’Università di Firenze vive la sua giornata di ignominia con la stella di David incisa sulla porta di un docente da mani (insanguinate?) simili a quelle che facevano altrettanto nel Terzo Reich (tanto per dimostrare che il cedimento del Senato accademico che sotto pressione proPal ha approvato una mozione che chiede il cessate il fuoco a Gaza) l’Università Statale di Milano si limita, con una cedevolezza già più volte esibita, ad alzare bandiera bianca.

E ad arrendersi a chi non solo senza legittimità occupa cortili e corridoi, ma lede i diritti di tutti gli studenti e persino degli studenti futuri. Con uno scarno comunicato – “A causa dell’occupazione in corso, l’Università Statale di Milano rimanda l’Open Day, previsto inizialmente per sabato 25 maggio, a sabato 22 giugno 2024” – l’ateneo ha dimostrato di non essere in controllo della situazione e di non essere in grado di garantire un evento programmato (i manifesti di invito all’Open Day di Festa del Perdono sono ben visibili in città) cedendo a poche decine di facinorosi.

I quali, tra l’altro, oltre a imbrattare di scritte offensive i muri, si esibiscono in numeri di violenza persino grotteschi: martedì un pestaggio tra acampados ed esponenti di Lotta comunista. Come se l’università fosse un “loro territorio” di conquista e non uno spazio di tutti.

Il DNA nei vaccini, gli effetti avversi e la dottoressa Gismondo (butac.it)

di

Una teoria ormai smentita da miliardi di dosi 
somministrate, ma che viene ancora portata avanti 
citando ricerche... 

i cui autori hanno smentito tali teorie

Su alcuni siti web, nei giorni scorsi, è stata rilanciata un’intervista fatta qualche tempo fa da La Verità alla direttrice del laboratorio di microbiologia dell’Ospedale Sacco di Milano, la dottoressa Maria Rita Gismondo. A noi l’avete segnalata su un sito che si chiama L’Altra Imola, che l’ha rilanciata due giorni fa, ma si trova anche su MeteoWeb a fine aprile e su altri ancora.

Nell’intervista la dottoressa rilascia alcune dichiarazioni che riteniamo vadano verificate, a partire da:

Nessuno ha mai detto durante la campagna vaccinale che il vaccino può dare effetti collaterali

Frase che lascia il tempo che trova: chiunque usi un farmaco sa che esiste la possibilità di effetti avversi, ogni medico che ordina un trattamento per un paziente sa che esiste quella possibilità, la quale è anche regolarmente evidenziata nel bugiardino del farmaco. Nel caso dei vaccini anti-Covid già sui primissimi bugiardini erano segnalate le reazioni avverse che erano state evidenziate durante la fase di sperimentazione, qui ad esempio l’elenco sui bugiardini Pfizer a vaccini appena usciti:

Come tutti i vaccini, Comirnaty può causare effetti indesiderati sebbene non tutte le persone
li manifestino.

Effetti indesiderati molto comuni: possono interessare più di 1 persona su 10
• nel sito di iniezione: dolore, gonfiore
• stanchezza
• mal di testa
• dolore muscolare
• dolore articolare
• brividi, febbre

Effetti indesiderati comuni: possono interessare fino a 1 persona su 10
• arrossamento nel sito di iniezione
• nausea

Effetti indesiderati non comuni: possono interessare fino a 1 persona su 100
• ingrossamento dei linfonodi
• senso di malessere
• dolore agli arti
• insonnia
• prurito nel sito di iniezione

Effetti indesiderati rari: possono interessare fino a 1 persona su 1.000
• asimmetria temporanea di un lato del viso

Non nota (la frequenza non può essere definita sulla base dei dati disponibili)

• reazione allergica grave

Segnalazione degli effetti indesiderati
Se manifesta un qualsiasi effetto indesiderato, compresi quelli non elencati in questo foglio, si rivolga
al medico, al farmacista o all’infermiere. Può inoltre segnalare gli effetti indesiderati direttamente
tramite il sistema nazionale di segnalazione riportato nell’allegato V, includendo il numero di lotto, se
disponibile. Segnalando gli effetti indesiderati può contribuire a fornire maggiori informazioni sulla
sicurezza di questo medicinale.

Quindi, venivano segnalate svariate possibili reazioni avverse, inclusa la possibilità di una reazione allergica ancora non osservata ma sempre possibile. Dare a intendere che così non fosse significa disinformare.

Ci teniamo a precisare che oggi quell’elenco è cambiato, tenendo conto di ogni possibile reazione avversa che è stata documentata post vaccinazione.

Ma procediamo oltre, perché dopo aver espresso le proprie lecite preoccupazioni la dottoressa dice che a suo avviso ci sarebbe necessità di portare avanti esperimenti come quelli di Philip Buckhaults, esperto di genomica del cancro, che vuole verificare se frammenti di DNA nel vaccino a mRna possano integrarsi nel genoma delle cellule tumorali ovariche con conseguenze che potrebbero essere pericolose.

Ma chi è Philip Buckhaults?

Un biologo molecolare che nel 2023, analizzando una fialetta vuota che aveva contenuto una dose di vaccino Pfizer e che era stata conservata da un suo collega e amico, aveva trovato svariati frammenti di DNA.

Buckhault aveva raccontato di questa scoperta durante una seduta del Senato del Sud Carolina, e in seguito aveva pubblicato uno studio che parlava appunto della scoperta di questi frammenti. Scoperta su cui però, subito dopo che il suo studio era diventato virale negli ambienti antivaccinisti, aveva pubblicato un post pubblicato su X, questo:

Post in cui chiarisce quanto spiegato nel suo studio, prendendo le distanze dai tanti che lo cavalcavano nella maniera sbagliata, ovvero dai tanti che sulla base di quello studio avevano cominciato a sostenere che il vaccino potesse causare tumori, che è in parte quello che sembra voler dire anche la dottoressa Gismondo nella sua intervista.

Non crediamo di poter aggiungere altro, se non alcuni link ai fact check dedicati allo studio sulle tracce di DNA nei vaccini anti-Covid:

E noi ci eravamo occupati di “Morti improvvise“, “Mortalità in eccesso” e “Tumori da vaccini“; anche se all’Ospedale Sacco di Milano è probabile che non leggano BUTAC con regolarità.

Un solo appunto in chiusura: il sito che ci avete segnalato, l’Altra Imola, è stato aperto nel 2021, è registrato in forma anonima e non riporta una privacy policy che spieghi in maniera corretta chi sia il responsabile del trattamento dei dati. Chi viola le norme in merito rischia multe salate, che sia il caso mettersi in regola? Anche perché chi lo gestisce ha fatto tanto per risultare appunto anonimo, ma per arrivare ad avere la sua faccia sul mio desktop ci ho messo meno di cinque minuti, credo che anche la finanza non farebbe fatica.