Balneari, il Consiglio di Stato dà ancora torto al governo: le concessioni per le spiagge sono scadute (fanpage.it)

di Luca Pons

Tre sentenze del Consiglio di Stato chiariscono 
ancora una volta che le proroghe varate dal 
governo Meloni 

– ma anche Conte e Draghi – per le concessioni balneari non sono valide: i permessi sono scaduti da fine 2023, e i Comuni devono affrettarsi a lanciare i nuovi bandi.

Tre nuove sentenze del Consiglio di Stato confermano la linea dei giudici per quando riguarda le concessioni balneari: le proroghe approvate dal governo Meloni e dai suoi predecessori sono illegittime, quindi molti permessi di utilizzo delle spiagge sono scaduti il 31 dicembre 2023.

Per garantire la libera concorrenza, è necessario che i Comuni si organizzino immediatamente per lanciare nuovi bandi, dove chiunque potrà partecipare per ottenere le concessioni. E anche gli escamotage utilizzati finora dal governo – come quello secondo cui la direttiva europea Bolkestein, che regola la questione, non si applica perché in Italia non c’è scarsità di spiagge – non stanno in piedi, secondo il Consiglio di Stato.

In un comunicato, i giudici hanno fatto sapere che “con le tre sentenze depositate oggi”, così come con quella arrivata a fine aprile, il Consiglio ha “riaffermato i consolidati principi della sua giurisprudenza sulla illegittimità delle proroghe generalizzate delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative stabilite dal legislatore”.

Come a chiarire che non si tratta di un’opposizione solo al governo Meloni, nel comunicato il CdS ha elencato le proroghe che non sono valide: si va dal 2018, con il primo governo Conte, fino al 2020, con il governo Draghi, e infine al 2022 con l’esecutivo attuale.

Il problema è sempre lo stesso: la direttiva europea Bolkestein impone che per rispettare il principio della libera concorrenza non possa essere lo Stato a prorogare in automatico le concessioni a quei proprietari che già le detengono. Servono procedure trasparenti e paritarie, in cui chiunque possa candidarsi per gestire le spiagge, e a vincere sia l’offerta migliore.

In passato il governo Meloni ha sostenuto che in Italia non ci sia scarsità di spiagge – effettuando una mappatura delle spiagge piuttosto controversa – e che quindi la direttiva Bolkestein non si applichi. Ma i giudici hanno ribattuto:  “Il Consiglio di Stato ha chiarito che la disapplicazione delle norme nazionali sulle concessioni demaniali marittime”, quindi l’illegittimità delle proroghe e il fatto che le concessioni siano già scadute, “si impone prima e a prescindere dall’esame della questione della scarsità delle risorse”.

Questa infatti “in ogni caso non risulta essere decisiva, in quanto anche ove si ritenesse che la risorsa non sia scarsa, le procedure selettive sarebbero comunque imposte dall’art. 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in presenza di un interesse transfrontaliero certo, e dal diritto nazionale anche in assenza di tale interesse”.

Insomma, la sentenza del Consiglio è che non ci siano scappatoie: le concessioni per le spiagge sono già scadute, e quindi è necessario per i Comuni “bandire immediatamente procedure di gara imparziali e trasparenti per l’assegnazione delle concessioni”.

Se poi ci fossero difficoltà nel completare la gara, visto che la stagione balneare si avvicina, c’è una norma che consente una proroga ‘tecnica’, “fino al 31 dicembre 2024 delle concessioni già scadute per i Comuni che abbiano deliberato di avviare o abbiano già avviato le gare per assegnare le concessioni”.

La Crimea è la chiave per fermare l’aggressione russa all’Ucraina (linkiesta.it)

di

Il prossimo anno a Bakhchysarai

La riconquista della penisola occupata illegalmente dal Cremlino nel 2014 è uno dei primi obiettivi di Kyjiv in questa guerra. Un brano tratto da “L’Ucraina siamo noi”, pubblicato da Linkiesta Books

« Il prossimo anno a Bakhchysarai » è il modo di concludere, con una variante ucraina del tipico saluto ebraico del seder di Pesach, una cena di tradizionale cucina tatara di Crimea a Kyjiv.

Bakhchysarai è la storica ex capitale di Crimea venerata dalla popolazione autoctona dei tatari, e l’invocazione « il prossimo anno a Bakhchysarai » è un modo per mostrare fiducia nel fatto che il prossimo anno si potrà festeggiare la fine della guerra di aggressione russa proprio nella regione occupata illegalmente dal Cremlino nel 2014.

Una discussione intellettuale a Kyjiv sulla guerra e sulla pace comincia sempre con l’attualità, magari ricordando i diciassette morti al mercato a Kostyantynivka, nella regione di Donetsk, oppure scambiandosi impressioni sulle due ore trascorse la notte precedente nei rifugi antiaerei, che poi non sono rifugi ma semplici sotterranei, o semplicemente a casa con i tappi alle orecchie per continuare a simulare una vita normale. Ma poi arriva inevitabilmente la Crimea, la regione simbolo dell’imperialismo russo, dei crimini contro l’umanità e dell’indifferenza dell’Occidente.

La Crimea è la chiave di volta per ribaltare la guerra russa alla democrazia, alla cultura e alla libertà ucraina, ma è anche il tabù occidentale che perfino gli europei simpatetici alla causa ucraina pensano si possa sacrificare in nome della pace.

In mezzo c’è un non piccolo problema umanitario e giuridico, quello dei tatari di Crimea, la popolazione autoctona che a partire dal 1991, anno dell’indipendenza ucraina, è tornata in patria prendendo la cittadinanza ucraina dopo che i russi avevano provato a cancellarla con una ferocia addirittura superiore a quella usata contro gli ucraini.

Prima della prima invasione russa della Crimea, nel 1783, i tatari rappresentavano il novanta per cento della popolazione della penisola, poi sia Caterina di Russia sia Stalin decisero la loro rimozione forzata e la loro conseguente ricollocazione forzosa in Asia centrale, prevalentemente in Uzbekistan.

Stalin, inoltre, deportò centinaia di migliaia di russi in Crimea per farla diventare artificiosamente russa. Per effetto di questa politica imperialista e genocida, i tatari di Crimea scesero a quota 29 per cento della popolazione prima della Rivoluzione d’ottobre del 1917, per precipitare fino allo zero per cento in seguito all’esecuzione completa delle politiche staliniane.

Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, molti tatari sono tornati in Crimea e si sono integrati nella Repubblica ucraina, tanto che il nuovo ministro della Difesa, Rustem Umierov, è proprio un tataro di Crimea ( un altro segnale che la Crimea resta centrale nell’agenda politica e militare di Volodymyr Zelensky nonostante i giornali italiani sostengano il contrario ). Con l’invasione russa del 2014, e con la successiva annessione illegale della Crimea, Vladimir Putin ha ripreso in mano il progetto zarista e staliniano di oppressione e di pulizia etnica dei tatari ed è tornato a perseguitare la popolazione autoctona che nel frattempo è tornata a essere circa il 20 per cento, e poi a ricollocare in Crimea centinaia di migliaia di russi – le cifre, in questo caso, variano tra le cinquecento e le ottocentomila persone – con un impatto etnico devastante ( specie se si considera che la popolazione complessiva della Crimea era, prima del 2014, di poco più di due milioni e trecentomila abitanti ), che ha innescato la fuga verso la Turchia e verso l’Ucraina continentale di circa duecentomila tatari tra il 2014 e il 2023.

Putin ha affinato il piano di Stalin con il ponte sullo stretto di Kerch, costruito per collegare artificialmente alla Russia una penisola geograficamente e politicamente attaccata all’Ucraina.

La pulizia etnica si è intensificata dopo l’invasione su larga scala cominciata il 24 febbraio del 2022, al punto che la maggior parte dei prigionieri politici in Crimea oggi è composta da tatari, i quali a volte sono colpevoli soltanto di essersi dipinti le unghie con i colori giallo e blu della bandiera ucraina oppure di aver indossato la vyshyvanka, il tradizionale vestito ucraino ricamato, e per questo vengono condannati a diciassette anni di galera sulla base di un articolo del codice penale russo che punisce chiunque getti discredito sull’esercito di Mosca.

La riconquista della Crimea è una delle questioni centrali al Ministero della Difesa e degli Esteri, ma anche al quartier generale del presidente Zelensky, il quale ha creato un team di giuristi, militanti dei diritti umani, avvocati e diplomatici per prepararsi al momento in cui avverrà la liberazione della penisola occupata illegalmente.

« Non commento le scelte militari, non posso dire quale avanzamento sul campo di battaglia potrebbe convincere i russi ad abbandonare la Crimea », dice Maria Tomak, il capo di Crimea Platform, la piattaforma di consultazione e di coordinamento internazionale lanciata dall’Ucraina con l’obiettivo di far finire l’occupazione della Crimea e di farla tornare pacificamente alla terraferma cui è legata naturalmente. « La cosa certa », aggiunge, « è che l’Ucraina non abbandonerà mai i suoi concittadini che vivono nella penisola occupata illegalmente e in particolare la popolazione autoctona dei tatari di Crimea da sempre oppressa dai russi ».

La sede di Crimea Platform, e della Missione del presidente dell’Ucraina nella Repubblica autonoma di Crimea, si trova a un passo dalla Verkhovna Rada, dal Parlamento ucraino, nella zona fortificata di Kyjiv che abbiamo visto molte volte in televisione accogliere i capi di Stato occidentali in visita di rito nella capitale.

Si trova a pochi minuti a piedi dal mausoleo dell’Holodomor, costruito dall’Ucraina indipendente per ricordare il male assoluto compiuto con la pianificazione sovietica della carestia dei contadini ucraini negli anni Trenta, ma anche negli anni Venti e Quaranta del secolo scorso. E accanto c’è il monumento sovietico alla vittoria nella Seconda guerra mondiale che ricorda il sacrificio ucraino nella lotta contro il nazifascismo.

La zona governativa si trova nel quartiere di Pechersk, nella parte alta della città, quella più elegante e monumentale. Vi si accede dopo aver superato posti di blocco, dissuasori di cemento armato e altre forme di difesa da barricata, gli unici segni di guerra che si vedono nella capitale. Superati i primi controlli, una volta dentro è vietato fotografare i palazzi presidenziali. La cautela è comprensibile benché per arrivarci si attraversi con serenità una città aperta e libera.

Il fatto che il dossier Crimea sia gestito a un passo dai luoghi di maggior potere è un’ulteriore risposta a quelli che fantasticano di una soluzione diplomatica che possa lasciare la Crimea alla Federazione russa.

La rappresentante di Zelensky per la Crimea, Tamila Tasheva, conferma la policy ufficiale del governo. La stessa che Olexander Scherba, ambasciatore responsabile della comunicazione, ribadisce essere quella del Ministero degli Esteri: «La vittoria deve essere totale ».

Meloni sbaglia: non è la premier con meno spazio in Rai, anzi (pagellapolitica.it)

di CARLO CANEPA

FACT-CHECKING

La presidente del Consiglio dice che il TG1 ha dedicato più tempo a Draghi e a Conte rispetto a lei, ma non è vero

Il 14 maggio, ospite di un evento organizzato dal quotidiano La Verità, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha respinto le critiche di chi la accusa di avere troppo spazio nei telegiornali della Rai da quando è al governo. Nel farlo, però, ha usato dei numeri parziali e fuorvianti.

«Mi sono andata a guardare proprio i dati del TG1, perché se effettivamente ci fosse una “Tele Meloni” per me sarebbe problematico», ha dichiarato la leader di Fratelli d’Italia, elencando alcuni dati sulla presenza dei presidenti del Consiglio in tv. «Allora, segnatevi questo dato: nei primi 14 mesi di governo Meloni, Giorgia Meloni su “Tele Meloni” è stata presente 15 minuti.

Governo precedente: Mario Draghi, nei primi 14 mesi, è stato presente 19 minuti. Giuseppe Conte, Conte II: nei primi 14 mesi è stato presente 42 minuti. Conte I: 25 minuti», ha aggiunto Meloni, citando anche i dati di altri due predecessori: Paolo Gentiloni (28 minuti) e Matteo Renzi (37 minuti). Secondo la presidente del Consiglio, la fonte di questi dati è l’Osservatorio di Pavia, un istituto di ricerca indipendente che monitora il pluralismo politico sui media.

«Se qualcuno può confutarmi questi dati prima di parlare di “Tele Meloni”, gli sarò particolarmente grato», ha concluso la leader di Fratelli d’Italia. Abbiamo raccolto il suo invito, controllando che cosa dicono davvero i numeri dell’Osservatorio di Pavia. Senza entrare nel dibattito sulla gestione della Rai da parte del governo Meloni, i numeri elencati dalla presidente del Consiglio sono parziali e fuorvianti. In realtà se si guarda l’attenzione complessiva dedicata da tutti i telegiornali della Rai a Meloni, l’attuale presidente del Consiglio è quella che ha ricevuto più spazio.

Di che cosa stiamo parlando

Per verificare la dichiarazione di Meloni, abbiamo analizzato i dati mensili raccolti dall’Osservatorio di Pavia con il monitoraggio del pluralismo politico nella Rai (qui sono consultabili le nostre rielaborazioni).

Abbiamo considerato quattro governi, ossia quelli per cui sono pubblicamente disponibili i dati (qui i dati sull’attuale legislatura e qui quelli sulla precedente legislatura): il governo Meloni, il governo Draghi, il secondo governo Conte e il primo governo Conte. Abbiamo poi calcolato i primi 14 mesi di un governo considerando come mese di partenza quello in cui ognuno di questi quattro governi è stato in carica per la prima volta per un mese intero. Facciamo un esempio per capirci: il governo Meloni si è insediato il 22 ottobre 2022, quindi il periodo di 14 mesi che abbiamo considerato è quello che va da novembre 2022 a dicembre 2023 compreso.

Nei dati raccolti dall’Osservatorio di Pavia, abbiamo considerato due variabili: il “tempo di presenza” e il “tempo totale” di ognuno dei quattro presidenti del Consiglio. Il “tempo totale” indica l’attenzione complessiva che un telegiornale dedica a un singolo politico, sia che parli direttamente sia che altri parlino delle sue posizioni. Il “tempo di presenza”, invece, indica solo il tempo in cui si sente un politico parlare direttamente.

Le presenze al TG1

Meloni sostiene che nei suoi primi 14 mesi da presidente del Consiglio è stata presente «15 minuti» nelle varie edizioni del TG1 su Rai 1. Questo numero trova conferma nei dati dell’Osservatorio di Pavia: tra novembre 2022 e dicembre 2023, infatti, ogni mese il “tempo di presenza” di Meloni è stato pari in media a 15,1 minuti in tutte le edizioni del TG1.

Secondo le nostre verifiche, in effetti questo valore è il più basso tra quelli registrati dagli ultimi quattro presidenti del Consiglio. Il “tempo di presenza” mensile medio di Draghi nei primi 14 mesi di governo è stato pari a 19,7 minuti, quello di Conte a 41,4 minuti durante il suo secondo governo e a 22,4 minuti durante il suo primo governo.

La classifica però cambia se si guarda al “tempo totale” di Meloni al TG1, pari in media a 152,2 minuti ogni mese: questo dato è più alto di quello registrato da Draghi (125,4) e di quello di Conte alla sua prima esperienza al governo (147,7). Nel suo secondo governo, il tempo totale di Conte al TG1 è stato il più alto dei quattro (205).

I numeri che abbiamo visto finora fanno riferimento a tutte le edizioni del TG1. L’Osservatorio di Pavia raccoglie anche i dati sulle edizioni prime time dei telegiornali, ossia quelli serali e più visti. Nei primi 14 mesi al governo, ogni mese Meloni ha avuto un “tempo di presenza” medio nell’edizioni prime time del TG1 pari a 6,2 minuti, un valore più alto sia di Draghi (5,4) sia del primo governo Conte (5,7), con il secondo governo Conte al primo posto (13,1). Lo stesso discorso vale per il “tempo totale” di Meloni nelle edizioni prime time del TG1: 33,1 minuti in media al mese, un valore superiore a quello di Draghi (24,7) e a quello del primo governo Conte (27,9), ma più basso di quello del secondo governo Conte (40,9).

Dunque, nel suo intervento all’evento organizzato da La Verità, Meloni ha citato l’unica statistica sulle presenze al TG1 che la vede all’ultimo posto, omettendo le altre.

Le presenze in tutti i TG

Se si estende l’analisi dei dati a tutti e tre i principali telegiornali della Rai – il TG1, il TG2 su Rai 2 e il TG3 su Rai 3 – si scopre che non è vero che Meloni è la presidente del Consiglio con meno spazio in tv.

Nei suoi primi 14 mesi di governo, in media Meloni ha registrato ogni mese un “tempo di presenza” pari a 48,9 minuti in tutte le edizioni dei tre telegiornali della Rai. Questo dato è più alto di quello di Draghi (40,4) e, seppure di poco, di quello del primo governo Conte (48,1) ed è più basso solo di quello del secondo governo Conte (67,1).

Se si prende il “tempo totale”, Meloni è prima, con una media mensile di 376,1 minuti, davanti al secondo governo Conte (350,6), al primo governo Conte (286) e a Draghi (264,1). In parole semplici, nei primi 14 mesi di governo, i telegiornali della Rai hanno dedicato più minuti a Meloni rispetto a quanto fatto per Draghi e Conte. Ricordiamo infatti che il “tempo totale” conteggia l’attenzione complessiva che un telegiornale dedica a un singolo politico, a prescindere che parli o meno.

La stessa classifica vale se si guarda il “tempo totale” di Meloni nelle edizioni prime time di tutti i telegiornali della Rai: il dato della leader di Fratelli d’Italia è il più alto (109,6 minuti), davanti al secondo Conte (92,3), al primo Conte (81) e a Draghi (75,5).

Per quanto riguarda il “tempo di presenza” nelle edizioni prime time di tutti i TG, il dato di Meloni è il secondo più alto (19,3 minuti), davanti a Draghi (14,2) e al primo Conte (17,3), ma dietro al secondo Conte (24,5).

La classifica dei politici

C’è poi un altro aspetto da tenere in considerazione: il fatto che un presidente del Consiglio abbia ricevuto dal TG1 più minuti rispetto ai suoi predecessori, non significa anche che quello stesso presidente del Consiglio sia stato il politico che in assoluto ha ricevuto più spazio dal TG1 rispetto agli altri politici.

In tutti e 14 i primi mesi del suo governo, la presidente del Consiglio Meloni è stata il politico – considerando tutti i partiti – che ha registrato il “tempo totale” più alto sia in tutte le edizioni del TG1 sia in tutte le edizioni prime time del TG1 [1].

Per quanto riguarda il “tempo di presenza” ricevuto nelle edizioni prime time del TG1, Meloni è sempre stato il politico a cui è stato dedicato più spazio, eccetto ad aprile 2023, superata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Per avere un termine di paragone, Draghi non è stato primo per “tempo di presenza” nelle edizioni prime time del TG1 in sei mesi su 14, superato in alcune occasioni dal leader della Lega Matteo Salvini. Nella stessa classifica, durante il suo secondo governo, Conte non è stato primo in tre mesi su 14, mentre durante il suo primo governo è stato in cima alla graduatoria solo quattro mesi su 14.

Discorso analogo vale per le edizioni di tutti e tre i telegiornali della Rai. Il “tempo totale” di Meloni è stato il più alto dedicato a un politico in tutti e 14 i primi mesi di governo, così come per Conte durante il suo secondo governo. In quattro mesi il “tempo totale” medio registrato da Draghi invece non è stato il più basso, mentre per Conte i mesi salgono a sei durante il suo primo governo.

L’anomalia del secondo governo Conte

I dati sulle presenze dei presidenti del Consiglio nei telegiornali vanno comunque contestualizzati.

Prendiamo come esempio i primi 14 mesi del secondo governo Conte, dove abbiamo visto che l’allora capo del governo aveva ricevuto molto spazio sui TG della Rai. I dati del secondo governo Conte sono stati fortemente condizionati dalla pandemia di Covid-19. Se si tolgono i mesi di marzo e aprile 2020, quelli del lockdown, e il mese di ottobre 2020, quando è iniziata la seconda ondata, l’attenzione dedicata a Conte dai TG scende.

Per esempio, escludendo questi tre mesi, il “tempo di presenza” di Conte in tutti i TG della Rai è stato pari a 55 minuti in media ogni mese. Questo valore resta il più alto tra i presidenti del Consiglio che abbiamo preso in considerazione, ma è un valore più basso rispetto ai 67,1 minuti calcolati su tutti e 14 i mesi.

*** Elaborazioni di Pagella Politica su dati dell’Osservatorio di Pavia 

[1] Le caselle verdi indicano le volte in cui il presidente del Consiglio è stato il politico che ha ricevuto più tempo rispetto agli altri politici.

La menzogna di Conte sul Pnrr: così Gentiloni ha smontato l’avvocato da fotoromanzo (ilriformista.it)

di Massimiliano Gallo

I palleggi alla Totti poi l'assist a 
Carolina Morace

Dai soldi del Belice a quelli del Pnrr. Dall’intemerata tv di Sandro Pertini nel remoto 1980 (resa celebre dallo sketch di Massimo Troisi) all’intervista di Paolo Gentiloni al giornalista del Corriere della Sera Paolo Valentino per il suo libro “Nelle vene di Bruxelles”. Le cui anticipazioni sono state pubblicate ieri dal quotidiano di Via Solferino.

Un’intervista in cui il commissario europeo Gentiloni smonta uno degli architravi del populismo dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Non è stato lui nel 2020 a far avere all’Italia i 209 miliardi come quota parte dei 750 miliardi di euro del Recovery Fund. Non fu una battaglia diplomatica consumata fino a notte fonda. Molto più semplicemente, fu un algoritmo redatto da due olandesi.

L’algoritmo

Dice Gentiloni: «Tutti questi soldi sono stati dati in base a un algoritmo ai vari Paesi, mentre è chiaro che i finanziamenti comuni europei dovrebbero innanzitutto andare a progetti comuni». Un algoritmo? Ma non li abbiamo ottenuti grazie a una lunga battaglia? (chiede Valentino).

«Parlo delle quote di finanziamento assegnate ai diversi Paesi. Non sono state negoziate dai capi di governo. Sono state ricavate da un algoritmo che è stato tra l’altro ideato e definito da due direttori generali (entrambi olandesi). C’è un po’ di retorica italiana sul fatto che abbiamo conquistato un sacco di soldi. Non è vero. L’Italia è il settimo Paese in termini di rapporto tra soldi ricevuti e Pil. Ci sono altri che in termini relativi hanno portato a casa molto di più, dalla Spagna alla Croazia. Sempre grazie all’algoritmo».

Ma come? E la Ferrari che Conte aveva lasciato nelle casse dello Stato, quel “sacco di soldi” eredità della lungimiranza governativa dell’avvocato del popolo? Finisce sbriciolato il pezzo forte del tribuno dei Cinque Stelle. Proprio adesso, nel bel mezzo della campagna elettorale. Quando noi tutti ci eravamo lasciati affascinare da quei palleggi alla Totti prima di servire l’assist a Carolina Morace. La vita sa essere davvero infame.

La menzogna di Conte

Va qui ricordato che fu Renzi uno dei primi (se non il primo) a raccontare la versione dell’algoritmo. Motivo per cui venne spernacchiato da Marco Travaglio, uomo comunicazione dell’avvocato del popolo. Lo immaginiamo alla tastiera pronto a infilzare il traditore Gentiloni.

Qui, per provare a non ridere, ricordiamo il tono trionfalistico di Conte in conferenza stampa al termine di quel Consiglio europeo: «Abbiamo tutelato la dignità del nostro Paese», «la verità è che l’approvazione di questo piano rafforza l’azione del governo italiano».

Prima di concludere alla Toto Cutugno: «Sono orgoglioso di questo risultato, orgoglioso di essere italiano». Un italiano vero. Su quella menzogna Conte ci ha costruito un piagnisteo di mesi. 209 miliardi che vengono tirati fuori a ogni occasione utile. Con quella smorfia contrita che contraddistingue Conte. Quello sguardo da attore di fotoromanzi. Lo immaginiamo provare e riprovare quell’espressione allo specchio. La lezioncina a pappardella.

E poi arriva Gentiloni a ricordarci che cosa ci è toccato in sorte in quegli anni bui del Covid. Noi che c’eravamo quasi riusciti a dimenticare.

(italiaoggi.it)