Omicidi bianchi, sette morti in 48 ore (ilmanifesto.it)

di Riccardo Chiari

SANGUE SUL LAVORO

Due morti sul lavoro nella giornata di ieri, ben cinque in quella di lunedì.

La mattanza continua, e alla tragica conta degli omicidi bianchi vanno aggiunti i feriti gravi, come un operaio trentenne che rischia di perdere un braccio rimasto incastrato in un macchinario alla Iti Box, azienda cartotecnica di Monsummano Terme nella Valdinievole pistoiese, e quelli meno gravi ma comunque bisognosi di un immediato ricovero in ospedale, come i quattro lavoratori travolti dalle scenografie che stavano scaricando per l’allestimento di uno spettacolo al Teatro Pucciniano di Torre del Lago, a pochi chilometri da Viareggio. Tutti fortunatamente fuori pericolo, hanno fatto sapere in serata i sanitari.

E’ purtroppo rispettata la terrificante media quotidiana degli omicidi bianchi italiani. Imparagonabile, con tre casi al giorno, rispetto a quelle delle altre grandi nazioni del vecchio continente.

A partire dalla morte lunedì di tre autotrasportatori, con le prime due vittime che erano alla guida di due camion scontrati frontalmente sulla strada regionale 11, al confine tra le province di Verona e di Brescia I due autisti, entrambi residenti in Trentino, erano Renzo Roberto Leita, 65 anni, di Ischia di Pergine, e Costel Blanaru, 53 anni, di Ala.

La terza tragedia sul lavoro nel piazzale di una segheria ad Asolo, ancora nel Trentino, dove Natalino Paradisi, 55 anni, di Castel Ivano, è rimasto schiacciato da una delle due sponde del suo camion. L’allarme ai soccorritori è stato dato da alcuni ragazzi che avevano notato il mezzo pesante fermo e subito dopo il corpo dell’uomo.

Ancora lunedì in tarda serata il quarto omicidio bianco. Simone Mezzolani, operaio di 33 anni, è morto incastrato in un macchinario mentre stava lavorando alla Fab, azienda che produce componenti per il settore del mobile, a Gallo di Petriano, in provincia di Pesaro e Urbino. A scoprire il cadavere alcuni suoi compagni di lavoro che hanno subito avvisato i sanitari, purtroppo per il giovane operaio non c’era già più nulla da fare.

Le ultime tre vittime a Modena, a Roggiano Gravina in provincia di Cosenza e a Semiana in Lomellina, nel pavese. Qui un bracciante di 53 anni ha perso la vita ieri mentre era al lavoro in un’azienda agricola. Dai primi accertamenti sembra fosse impegnato a trasportare alcuni carichi particolarmente pesanti, quando è caduto a terra per un un malore che gli è stato fatale, nonostante gli sforzi dei sanitari del 118 che hanno cercato in ogni modo di rianimarlo.

Nei cantieri edili gli ultimi due morti. A Modena ieri mattina un operaio di 45 anni, residente nel perugino e dipendente di una ditta umbra specializzata nelle coperture di immobili, è precipitato dal tetto di un capannone in disuso in via di riqualificazione.

La caduta da circa cinque metri di altezza gli è stata fatale, in una tragedia che ha molti punti di contatto con quella avvenuta il giorno prima a Roggiana Gravina, dove a morire è stato un muratore di ben 65 anni precipitato dall’impalcatura sulla quale stava lavorando.

“Le norme ci sono ma non vengono applicate, perché la sicurezza sul lavoro è considerata un costo, mentre la precarietà, il lavoro nero e gli appalti e subappalti al massimo ribasso sono diventati la regola”, ben fotografa la situazione il senatore Tino Magni di Avs, che guida la commissione di indagine sulle condizioni di lavoro, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.

Anche Maurizio Landini, intervenendo in piazza della Loggia a Brescia nell’anniversario della strage fascista de 1974, non ha dimenticato di denunciare quanto di tragico avviene ogni giorno nel paese: “E’ una strage che dobbiamo combattere.

Bisogna combattere la logica del subappalto, bisogna ricostruire il protagonismo del lavoro, la nostra bussola rimane la Costituzione. E voglio ricordare le parole dette dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il Primo Maggio scorso: il lavoro non è una merce”.

Calenda querelato da Landini, il leader di Azione all’attacco su Stellantis ed Elkann: “A Marchionne hai fatto la guerra, hai il nervo scoperto” (ilriformista.it)

Jens Stoltenberg, l’uomo che rimise insieme i pezzi di una Norvegia ferita a morte (ilfoglio.it)

di ADRIANO SOFRI

PICCOLA POSTA

Altro che uomo di paglia. Il discorso del segretario Nato dopo il massacro di 77 persone nell’isola di Utøya, nel 2011, quando era primo ministro norvegese

Jens Stoltenberg è, nella media degli articoli del giornalismo italiano, un uomo di paglia, un burattino messo alla segreteria della Nato (da Obama, nel 2014, col consenso di Merkel e di Cameron, allora primo ministro britannico, oggi ripescato ministro degli Esteri) per la sua assenza di personalità e docilità agli ordini della Casa Bianca, con una tentazione irresistibile alle gaffe: ultima e più grossolana delle quali, la sortita sulla libertà ucraina di colpire oltre frontiera le basi da cui partono gli attacchi alle sue città. Il 1° ottobre prossimo Stoltenberg lascerà la carica che ha occupato con due proroghe, nel 2020, e di nuovo nel 2022, dovuta, quest’ultima, alla guerra russa contro l’Ucraina.

Il fatto è che questo supposto uomo di paglia, erede di una famiglia che ebbe un ruolo di primo piano nella politica laburista della Norvegia – un paese sempre rilevante per la Nato, centrale per la vocazione solidale col mondo povero, e mai entrato nell’Unione europea – era stato più volte ministro nel governo del suo paese, e per due volte primo ministro, dal 2000 al 2001, e dal 2005 al 2013. 

E quando gli si chiese di restare alla segreteria generale della Nato, stava per assumere l’incarico di presidente della Norges Bank, la Banca nazionale norvegese, un organo che quanto e più di altre banche centrali amministra, soprattutto attraverso il suo fondo pensioni, una ricchezza economica enorme.

C’è dell’altro nel curriculum di Stoltenberg, che fa sembrare quasi buffo o lui o chi di lui parla e scrive. Di sinistra da ragazzo, legato a una sorella marxista-leninista, Stoltenberg, che ha 65 anni, fece in tempo a manifestare piuttosto vivacemente per il Vietnam, contro gli yankee e la loro ambasciata a Oslo. Mi sono divertito a risalire la corrente di Google.

Alla sua nomina alla Nato, 2014, una giornalista scriveva su Panorama che l’alleanza atlantica era stata messa in mano a un pacifista, antiamericano, agente del Kgb. Nome in codice: Steklov. Non si era però potuto provare un suo alto tradimento, e nemmeno basso. Nel 2006, da premier, aveva negato gli investimenti del fondo pensione a tre grandi compagnie americane, e dichiarato che “il cento per cento delle società colpevoli di violare i diritti umani sono americane”. Non è poco, il cento per cento.

Più fondatamente, il governo greco gli ha ripetutamente rinfacciato, da segretario della Nato, una parzialità faziosa o intimidita in favore della Turchia di Erdogan. L’appartenenza sbilenca della Turchia alla Nato è un fenomeno tragicamente stravagante, ed è possibile che stia arrivando al capolinea.

Jens Stoltenberg era a capo del governo norvegese quando l’infame Anders Breivik, che aveva anche lui tra i suoi bersagli, massacrò a Oslo e nell’isola di Utøya 77 persone, per la gran parte giovani e ragazzi laburisti riuniti nell’isola, il 22 luglio del 2011. Davanti a una enorme folla di cittadini colpiti e angosciati, il premier Stoltenberg evocò una sola data precedente, quella del 9 aprile 1940, l’occupazione nazista della Norvegia.

Il suo discorso permise ai norvegesi vecchi e nuovi di sentirsi orgogliosi di sé nel momento più terribile. Ciò non impedì che due anni dopo, alle elezioni del 2013, Stoltenberg fosse battuto dai conservatori di Erna Solberg. Succede infatti. Ma forse è il momento di rileggere quel discorso.

“Miei cari, che spettacolo! Mi trovo faccia a faccia con la volontà del popolo. Voi siete la volontà del popolo. Migliaia e migliaia di norvegesi – a Oslo e in tutto il paese – fanno la stessa cosa stasera. Occupano le strade, le piazze, gli spazi pubblici con lo stesso messaggio di sfida: abbiamo il cuore a pezzi, ma non ci arrendiamo. Con queste fiaccole e queste rose mandiamo al mondo un messaggio: non permetteremo alla paura di piegarci, e non permetteremo alla paura della paura di farci tacere.

Il mare di gente che vedo oggi davanti a me e il calore che sento da tutto il paese mi convince che ho ragione. La Norvegia ce la farà. Il male può uccidere gli individui, ma non potrà mai sconfiggere un popolo intero. Questa sera il popolo norvegese sta scrivendo la storia. Con le armi più potenti del mondo – la libertà di parola e la democrazia – stiamo disegnando la Norvegia per il dopo 22 luglio 2011. Ci saranno una Norvegia prima e una Norvegia dopo il 22 luglio.

Ma sta a noi decidere come sarà la Norvegia. La Norvegia sarà riconoscibile. La nostra risposta ha preso forza durante le ore, i giorni e le notti difficili che abbiamo dovuto affrontare, ed è ancora più forte questa sera: più apertura, più democrazia. Determinazione e forza. Noi siamo questo. Questa è la Norvegia. Ci riprenderemo la nostra sicurezza! Dopo gli attacchi di Oslo e Utøya, abbiamo affrontato uniti lo choc, la disperazione e il lutto.

Continueremo a esserlo, ma non sarà sempre come è adesso. Lentamente, qualcuno inizierà per primo a essere in grado di riaffrontare la vita di tutti i giorni. Per altri ci vorrà più tempo. E’ importante che siano rispettate queste differenze. Tutte le forme di lutto sono ugualmente normali. Dovremo comunque prenderci cura l’uno dell’altro. Dimostrare che è qualcosa cui teniamo. Dobbiamo parlare con quelli per cui è stata più dura. Dobbiamo essere umani e fraterni.

Noi riuniti qui questa sera abbiamo un messaggio per tutti quelli che hanno perso qualcuno cui volevano bene: siamo qui per voi. Guarderemo anche in avanti per la Norvegia dopo il 22 luglio 2011. Dobbiamo fare attenzione a non arrivare a conclusioni affrettate mentre siamo un paese in lutto, ma ci sono alcune cose che ci possiamo promettere questa sera. Prima di tutto, oltre tutto questo dolore, possiamo intravedere qualcosa di importante che ha messo le sue radici. Ciò che vediamo questa sera potrebbe essere la più grande e la più importante marcia che il popolo norvegese abbia mai condotto insieme dalla Seconda guerra mondiale. Una marcia per la democrazia, per la solidarietà e per la tolleranza. Le persone in tutto il paese sono fianco a fianco in questo momento. Possiamo imparare da questo.

Possiamo fare più cose come questa. Ognuno di noi può contribuire a costruire una democrazia un po’ più forte. Questo è ciò che vediamo ora qui. In secondo luogo, voglio dire questo a tutti i giovani raccolti qui. Il massacro di Utøya è stato un attacco contro il sogno dei giovani di rendere il mondo un posto migliore. I vostri sogni sono stati interrotti bruscamente. Ma i vostri sogni possono essere esauditi. Potete tenere vivo lo spirito di questa sera. Voi potete fare la differenza. Fatelo! Ho una semplice richiesta per voi. Cercate di essere coinvolti. Di interessarvi. Unitevi a una associazione. Partecipate ai dibattiti.

Andate a votare. Le elezioni libere sono il gioiello di quella corona che è la democrazia. Partecipando, voi state pronunciando un sì pieno alla democrazia. Infine, sono infinitamente grato di vivere in un paese dove, in un momento così critico, il popolo scende nelle strade con fiori e candele per proteggere la democrazia. Per commemorare e onorare le persone che abbiamo perso.

Questo dimostra che Nordahl Grieg aveva ragione: ‘Siamo così pochi in questo paese, che ogni caduto è un fratello e un amico’ Ci porteremo tutto questo con noi mentre iniziamo a mettere insieme la Norvegia del dopo 22 luglio 2011. I nostri padri e le nostre madri ci avevano promesso: ‘Non ci sarà mai più un 9 aprile’. Oggi diciamo: ‘Non ci sarà mai più un altro 22 luglio'”.

La storia in bianco e nero (corriere.it)

di Angelo Panebianco

Fanatismi e rischi

«La storia è dalla nostra parte», «Dio è con noi».

Due varianti — la prima secolarizzata e la seconda religiosamente ispirata — di una stessa sindrome. L’una e l’altra espressione rinviano a un fenomeno politico e sociale di grande rilevanza: il fanatismo. Nei periodi in cui cresce l’incertezza e il presente è gravido di minacce, il fanatismo si diffonde. Oggi la ripresa dell’antisemitismo è una prova della sua diffusione in Occidente.

I l fanatico è colui che di fronte alla complessità del mondo nonché all’ambiguità morale che tale complessità porta con sé, se ne ritrae e, per sfuggire all’angoscia, sceglie di aderire a una visione iper-semplificata di quel mondo, ove tutto è chiaro, cristallino, ove, soprattutto, il Bene e il Male sono facilmente identificabili e, per conseguenza, impegnarsi per schiacciare le forze del Male è un imperativo morale.

Il fanatico vede solo due colori: bianco e nero. Non è in grado di accettare l’idea che la realtà sia costituita da infinite gradazioni e sfumature di grigio. Il non fanatico sa che bene e male (ciò che l’opinione comune intende con questi termini) sono, in ogni momento, inestricabilmente connessi. Si prenda il caso dei bombardamenti alleati su Dresda all’epoca della Seconda guerra mondiale con tutte le vittime civili che provocarono.

Sconfiggere il nazismo era imperativo ma quei bombardamenti erano davvero necessari per raggiungere l’obiettivo? Evitando di guardare le cose col senno del poi(che è sempre un madornale errore quando si parla di storia) ma con quello di allora, va riconosciuto che quei bombardamenti apparvero necessari a coloro che li decisero. Ma ci furono anche persone, impegnate con convinzione contro il nazismo, che furono a disagio di fronte a quelle azioni di guerra.

È un esempio, fra i tanti possibili, dell’ambiguità morale che sempre accompagna la storia nel suo farsi, e le decisioni di cui è intessuta. I bombardamenti su Dresda sono un utile punto di paragone anche per giudicare il presente e certe forme di fanatismo di oggi. Perché quei bombardamenti, con tutte le differenze del caso,alla lontana, ricordano la guerra a Gaza. Qui la parola che conta è «genocidio».

Coloro che ignorano il significato delle parole non avrebbero probabilmente difficoltà a definire «genocidio» i bombardamenti alleati sulle città tedesche della Seconda guerra mondiale. Ma forse non ci metterebbero l’accanimento che ci mettono etichettando così l’intervento israeliano a Gaza. Perché in questo caso entrano in gioco i sentimenti antisemiti. È un aspetto, ancora compiutamente da esplorare, dell’azione dei gruppi pro-Palestina entro il mondo occidentale.

Testimonia dell’incontro e dell’alleanza fra i secolarizzati («la storia è dalla nostra parte») e i religiosamente ispirati («Dio è con noi»), ossia fra un certo numero di occidentali, per lo più giovani, e i propagandisti dell’ideologia di Hamas. La legittimazione morale dell’esistenza di Israele è legata a un genocidio (un genocidio vero), ossia la Shoah. Ma se diventa senso comune l’idea secondo cui lo Stato di Israele sia a sua volta impegnato in un genocidio, allora quella legittimazione morale viene meno: Israele non ha diritto di esistere.

Una posizione che, ovviamente, non ha nulla a che fare con il legittimo dissenso dalle scelte del governo Netanyahu. Non è solo una questione di ignoranza. Certo, l’ignoranza ha offerto un fertile terreno alla propaganda di Hamas. Ma il successo (innegabile) di quella propaganda si deve soprattutto alla esigenza di molti di semplificare il mondo. In modo da potere agevolmente identificare e scegliere il Bene (ciò che ritengono il Bene) contro il Male.

Ma, si potrebbe obiettare, che dire di coloro che difendono le democrazie nella sfida in atto contro le potenze autoritarie? Non sono anch’essi impegnati in quella che ritengono una lotta fra il Bene e il Male? Il punto è che chi difende la democrazia non lo fa perché pensa che la storia sia dalla sua parte o, per dire la stessa cosa con altre parole, perché pensa di essere «dal lato giusto» della storia.

Dal momento che la storia non ha «lati» né un senso, né una direzione di marcia. Chi è impegnato a difendere la democrazia contro l’autoritarismo lo fa semplicemente perché la democrazia è un assetto di governo che consente alle persone di campare meglio di quanto ciò sia possibile per quelle che vivono sotto il giogo autoritario. Senza alcun bisogno di idealizzare le democrazie, di negare i loro tanti difetti.

Minacciate dall’esterno, le democrazie sono anche sfidate, dall’interno, da spinte estremiste convenzionalmente distinte fra quelle orientate a destra e quelle orientate a sinistra. Però sono distinguibili in questo modo solo fino a un certo punto dal momento che la forma mentis di coloro che le alimentano è la stessa.

Come dimostra il fatto che l’antisemitismo, spesso, li accomuna. Il 2024, con le elezioni europee e con quelle americane, è un anno cruciale per le democrazie occidentali. Servirà anche a misurare la loro capacità — se questa capacità c’è — di tenere a bada le suddette spinte.

Europee 2024, Tarquinio: «Sciogliamo la Nato, serve un’alleanza paritaria tra Ue e Usa». Calenda e Renzi all’attacco (open.online)

«Se le alleanze servono a perpetuare le guerre 
è meglio scioglierle», 

ha detto il candidato Pd alle Elezioni europee

È polemica per le parole di Marco Tarquinio, candidato indipendente per il Partito democratico nella Circoscrizione centro alle Elezioni europee. L’ex direttore di Avvenire è finito sotto attacco per aver auspicato lo scioglimento della Nato in favore di un’alleanza paritaria con gli Stati Uniti.

«Se le alleanze non servono la pace e da difensive diventano offensive vanno sciolte. Sciogliamo la Nato. Va costruita un’alleanza nuova e tra pari, tra Europa e America», si legge su X. Poi a Tagadà su La7, Tarquinio argomenta le sue parole: «Se le alleanze servono a perpetuare le guerre è meglio scioglierle. Bisogna quindi sciogliere l’alleanza con Israele e magari, per quello che ci riguarda, sciogliere la Nato in Europa e costruire una nuova alleanza tra pari con gli Stati Uniti d’America», ha detto. «Non si fa in un giorno, ma bisogna farlo», ha concluso.

Le reazioni

Tempestive le reazioni politiche alle parole del candidato dem. «Il Pd con Marco Tarquinio dice che per costruire la pace bisogna sciogliere la Nato, sconfessando l’Atlantismo degli ultimi 70 anni. Noi invece diciamo che per costruire la pace servono la Nato, l’Esercito europeo, la difesa comune e una politica estera. Servono insomma gli Stati Uniti d’Europa, non questo Pd», scrive su X il leader di Italia Viva, Matteo Renzi.

«Il Pd chiede di sciogliere la Nato. Noi chiediamo gli Stati Uniti d’Europa. È chiara finalmente la differenza tra noi e il nuovo Pd?», gli fa eco la deputata Iv Maria Elena Boschi.

Anche Sandro Gozi, segretario generale del Partito democratico europeo e membro del Team Europe di Renew, si è espresso sulle dichiarazioni di Tarquinio: I socialisti europei sono «pronti a dare il benvenuto all’eurodeputato del Pd Marco Tarquinio? Ha appena chiesto di sciogliere la Nato, e lui sarebbe un moderato», si legge sui social. Il leader di Azione, Carlo Calenda, chiama invece in causa la segretaria del Pd, Elly Schlein: «Tarquinio, oltre a pensare che l’aborto sia come la pena di morte, vuole sciogliere la Nato. Il Pd cosa ne pensa? È la vostra linea, Elly Schlein? Davvero vuoi mandare in Ue queste idee?».

“Israele Genocida”, insulti e minacce: un’altra colata di odio su Segre (ilriformista.it)

di Iuri Maria Prado

Sei Punte

Ma è chiaro il motivo per cui si chiede a Liliana Segre, la senatrice a vita sopravvissuta alla Shoah, di “prendere le distanze da Israele”?

È chiaro il motivo per cui, nel grafico degli insulti e delle minacce che riceve questa anziana signora, la curva si impenna quando – com’è successo giusto l’altro giorno – si azzarda a pretendere rispetto della realtà e senso delle proporzioni nell’uso della parola “genocidio”?

Se non fosse chiaro, il motivo è semplicemente questo: che è ebrea. Liliana Segre non è più “israeliana” di un fruttivendolo catanzarese da otto generazioni o di una infermiera di Aosta da altrettante. Ma né a questa né a quello, nemmeno se diventassero parlamentari a vita, si richiederebbe di bardarsi di kefiah e di giurare sull’essenza neonazista di Israele.

Invece questo si pretende da Liliana Segre, la cui ascendenza ebraica costituisce appunto una colpa da ripulire dichiarando il ripudio di una stirpe, la propria, platealmente genocidiaria.

È semplicemente mostruoso che non si capisca il valore simbolico, e la vera essenza, delle violenze che, oggi, in quanto ebrea, sta subendo la persona che fu la ragazzina deportata, ancora in quanto ebrea, ottant’anni fa. Sono sull’avambraccio di Liliana Segre le ragioni dell’odio – le stesse – di cui oggi è destinataria questa novantatreenne.

E un paese che non ha fatto i conti con se stesso è quello che evidentemente non capisce di doverle delle scuse tanto più gravi e attuali. Scuse non per com’era l’Italia di allora, ma per com’è oggi.

Tutte le figuracce europee di Giuseppe Conte

di Francesco Curridori

Da Paolo Gentiloni a Jean-Claude Juncker, i leader 
europei sbeffeggiano Giuseppe Conte e smontano la 
sua protervia

“C’è un po’ di retorica italiana sul fatto che abbiamo conquistato un sacco di soldi. Non è vero”. 

Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia, intervistato dal Corriere della Sera, smonta così la versione di Giuseppe Conte sulla distribuzione dei fondi del Recovery Fund tra i vari Stati membri dell’Unione.

“Il mio governo è andato in Europa e ha portato a casa 209 miliardi di euro”, si è sempre vantato il leader del M5S che ha incentrato le campagne elettorali sulla sua capacità di “piegare” i falchi di Bruxelles a concedere all’Italia una tale quantità di risorse. Non era vero niente.

La scelta di destinare 209 miliardi al nostro Paese è stata presa attraversi un algoritmo “ideato e definito da due direttori generali (entrambi olandesi)”, rivela Paolo Gentiloni sottolineando inoltre che l’Italia è stato il settimo Paese destinatario dei fondi“in termini di rapporto tra soldi ricevuti e Pil”. Insomma, persino Spagna e Croazia, in proporzione, hanno ottenuto più risorse di noi. “Sempre grazie all’algoritmo”, sentenzia Gentiloni.

Una vera e propria figuraccia per l’ex premier Conte che arriva dopo appena due mesi dalla rivelazione alquanto esilarante di Jean-Claude Juncker. Il presidente della Commissione che ha preceduto Ursula Von Der Leyen, infatti, ha raccontato al Sole 24ore che l’allora premier del governo gialloverde, durante i summit europei, era solito intervenire con questo ridicolo incipit: “Io in quanto professore di diritto internazionale devo dirvi…”. Un esordio che aveva spinto anche i premier degli altri Paesi a sbeffeggiarlo presentandosi esaltando la professione che avevano svolto prima di entrare in politica: chi l’idraulico, chi il pompiere. “Anche se l’uomo ci piaceva, finì per infastidire gli altri leader”, disse Junker.

Che all’ex premier piacesse stare al centro dell’attenzione lo si era capito già nel 2020 quando, in occasione della Conferenza internazionale sulla Libia, cercò di mettere in prima fila accanto ad Angela Merkel e a Ursula von der Leyen per la tradizionale foto di rito. Essendo arrivato leggermente in ritardo, però, dovette lasciare spazio al presidente francese Emmanuel Macron e accontentarsi della seconda fila.

Senza bisogno di andare così a ritroso nel tempo, il trasferimento del detenuto Chico Forti ad opera del governo Meloni mette in evidenza quanto poco efficace è stata la politica estera grillina dal momento che anche l’allora ministro Luigi Di Maio, nel 2020, cercò invano di compiere la stessa impresa ma fallì miseramente.

E, mentre all’epoca Il Fatto Quotidiano sosteneva l’operazione diplomatica, oggi definisse Forti un assassino. Non va, inoltre, dimenticata l’ipocrisia di un leader politico come Conte che, sul simbolo del M5S ha fatto scrivere la parola pace, ma durante i suoi governi ha aumentato le spese militari del 17%…