Luoghi e volti di Odessa, inseguendo la nuvola nera dopo l’ultimo attacco (ilfoglio.it)

di ADRIANO SOFRI

PICCOLA POSTA

Dopo l’attacco ucraino a Sebastopoli, Crimea, una rappresaglia su Odessa era scontata. Così, quando la notte era trascorsa tra gli allarmi senza esito, una certa incredulità si era diffusa. Si trattava solo di un ordinario ritardo

Odessa, lunedì 24 giugno. C’è un sobborgo di Odessa che si chiama Blizhniye Mel’nitsy, dei Mulini vicini, perché ce n’è un altro dei Mulini lontani. E’ vecchio e abbastanza diroccato, case di abitazione a un solo piano, una strada stretta ma lunga intitolata a Babel’.

E’ attraversato dalla ferrovia regionale che ha una sua stazione, Odessa Malaja, Piccola Odessa, che passa sotto un ponte di ferro ad arco, già sovietico, il Ponte Gobbo. C’è una caserma che fu già colpita nell’aprile scorso, con un bilancio grave di vittime militari. Al limite del quartiere c’è un vasto viale che si chiama Lustdorf, dal nome tedesco del paese di mare cui portava, che oggi si chiama Chornomors’k.

E’ un viale cui ho un rispetto speciale, perché, venendo dal centro, ha a destra il lungo confine del cimitero cristiano, ortodosso prima e cattolico poi, e a sinistra la lunga livida barriera della vecchia prigione, maschile e femminile, dismessa più o meno da un anno, probabilmente nell’intento di usarne lo spazio per scopi più redditizi, come si vorrebbe da noi per Regina Coeli o San Vittore – è in funzione ancora il pezzo del carcere giudiziario, per gli imputati in attesa di processo.

Tra due fuochi, si può dire. Con un’altra singolarità: che il viale è attraversato dai doppi binari del tram numero 7, erede del tram che nel 1907 fu inaugurato dal centro di Odessa a Lustdorf-Chornomorsk, l’unico villaggio rurale dell’impero dotato di una linea tranviaria elettrica. E la storiella di tipico umore odessita dice che sul tram ci sono due uomini anziani, uno che guarda fuori a sinistra e l’altro che guarda fuori a destra, e al passaggio tirano ambedue un gran sospiro, senza pronunciare una sola parola: e si sono detti tutto.

Dunque ci ripasso questa mattina, inseguendo la nuvola nera. Dopo l’attacco ucraino di domenica a Sebastopol, Crimea, una rappresaglia su Odessa era scontata. Così, quando la notte era trascorsa tra gli allarmi senza esito, una certa incredulità si era diffusa.

Si trattava solo di un ordinario ritardo. Alle 8 di mattina due missili sono arrivati, Khalibr, o Iskander K, uno intercettato, l’altro caduto su una vasta area industriale dismessa da molti anni – ci si fabbricavano gru e macchinari di costruzione in epoca sovietica – e adibita in parte a deposito della catena di supermercati Tavria.

L’esplosione ha provocato una nuvola nera colossale, come non si era mai vista sulla città, e l’incendio è stato domato (chissà perché si dice ancora così) solo dopo molte ore. Ci sono stati tre feriti, un diciottenne e due uomini di 58 e 59 anni. Roba da poco.

 La pretesa di qualche fonte russa che sia stato colpito un deposito di munizioni è del tutto infondata, dal momento che il rumore dell’esplosione è stato minimo rispetto a tutto quel fumo. L’attacco alla Crimea, dicono le fonti russe, era costato la vita a cinque persone, di cui tre bambini, bagnanti su una spiaggia adiacente a Sebastopol e a un aeroporto militare, e 150 feriti.

Le autorità russe hanno denunciato la responsabilità diretta, “terroristica”, degli americani, per i missili Atacms che sarebbero stati impiegati e deliberatamente rivolti contro i civili. Si è trattato più verosimilmente dei frammenti di un missile diretto su Sebastopol e intercettato dalla contraerea russa. Dolorose come sono tutte, le incursioni dal territorio russo (o dai russi occupato) su quello ucraino sono quotidiane e illimitate, le incursioni ucraine sul territorio russo rare e ferreamente limitate, e accolte con gran dissipazione di scandalo. Superior stabat lupus.

L’itinerario al luogo dell’esplosione del missile mi ha portato nei pressi del cortile e della casa di Dal’nickaja 26 che la mia guida, la fotografa e scrittrice Anna Golubovskaja, raccontò sulla scorta di un racconto di Babel’ per la nostra Review (n. 20, giugno 2023), dopo aver rintracciato il tataro Zyaki Fazlyevich, bisnipote di Ismitulla Rashkin (Sultan-Ali Bikbaev), e nipote della leggendaria Mirziya Ismitullova. Rileggetela, se ne avete voglia.

Io oggi voglio annotare (non mi pare narcisista, mi pare piuttosto una conferma delle cose straordinarie che capitano se si va per il mondo) che ho fatto la conoscenza della famiglia di Zyaki e mi sono fotografato con lui sotto il famoso noce del suo cortile, dopo aver scoperto che siamo nati nello stesso giorno dello stesso mese dello stesso anno. Nella stessa guerra.

Mastro Lino, Salis e occupazioni etiche (corriere.it)

di Gian Antonio Stella

Tuttifrutti

Michele Vallone, detto «Mastro Lino», era un ometto storto e zoppicante col petto carenato, soffriva d’una disabilità riconosciuta al 70% che gli consentiva solo un lavoretto precario da inserviente a 700 euro al mese e viveva nel 2007, l’altro ieri, in un «basso» di Pizzo Calabro nel rione degradato vicino al maniero in cui fu fucilato Gioacchino Murat.

Un tugurio, tra case diroccate e tetti sfondati, puzza di miseria e masserie accatastate, che divideva con la moglie Carmela, tre dei quattro figli (una sposata viveva altrove) e i topi in due stanze più uno sgabuzzino che l’ufficio igiene aveva già bollato negli anni 90 «insalubre» con «evidenti infiltrazioni» e i soffitti bassi 2,26 metri, inferiori al minimo del minimo.

Quando lo incontrai e vidi quel tugurio era in lista dal 1977 e per tre volte gli avevano fregato sotto il naso la casa popolare cui aveva diritto. La prima per «l’errore» d’un ufficio, la seconda perché era stata occupata da abusivi poi benedetti da una sanatoria regionale, la terza quando ormai si sentiva già all’asciutto in un locale di tre stanze con acqua corrente in una palazzina nuova a 100 metri dai carabinieri.

Macché: poco prima che entrasse, nel 2005, un gruppo di facinorosi sfondò le porte del condominio per occuparlo tutto. La prima a correre sul posto fu Teresa, la vecchia madre di Michele. Che si parò nel corridoio della scala cercando di impedire il viavai degli abusivi che andavano su e giù con cassapanche e letti e televisori: «Mio figlio aspetta da quasi trent’anni! Non potete farlo!».

Troppe emozioni: crollò sul pavimento. Morta. A quel punto le buttarono sopra una coperta e continuarono ad andare avanti e indré coi mobili, scansando il cadavere. Senza che alcuno intorno osasse intervenire. Pochi mesi e su ogni terrazzino, viste io, c’era una parabola delle pay-tv. La luce? Misteriosamente allacciata e così il gas e così l’acqua nonostante fosse tutto illegale.

Finché al povero Michele si presentarono gli abusivi: «In memoria di vostra madre un appartamento lo diamo a voi». Rispose: «No, ho diritto che me ne diano uno dove entrare con la mia chiave, non abusivamente». Dovette aspettare altri anni.

Ma davvero, compagna Ilaria Salis, le occupazioni hanno una «giustificazione etica, morale e politica»?

La riforma del “premierato” consentirà ancora i ribaltoni tra i governi (pagellapolitica.it)

di VITALBA AZZOLLINI

RIFORME

Giorgia Meloni ripete che la modifica della Costituzione impedirà l’alternarsi di governi con maggioranze molto diverse tra loro. Questa certezza però non c’è

Uno dei «grandi obiettivi» della riforma costituzionale del “premierato”, come ha spiegato spesso la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, più di recente a maggio, «è garantire il diritto dei cittadini di scegliere da chi farsi governare mettendo fine alla stagione dei ribaltoni».

La riforma, che è stata approvata dal Senato il 18 giugno e ora sarà esaminata dalla Camera, contiene varie novità, tra cui l’elezione diretta del presidente del Consiglio e la cosiddetta “norma anti-ribaltoni”. Nelle intenzioni del governo, questa norma vuole evitare che il risultato delle elezioni sia modificato con cambi di maggioranza durante la stessa legislatura.

In altre parole, il governo Meloni promette che la riforma scongiurerà casi simili a quello accaduto tra il 2018 e il 2019, quando in meno di un anno e mezzo si è passati dal governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega a quello sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Partito Democratico, entrambi guidati dallo stesso presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.

In realtà il testo della riforma – così come è stato approvato dal Senato – fallisce nel suo obiettivo di impedire i “ribaltoni” tra i governi, anche se li renderà più difficili.

Che cosa dice la riforma

La novità principale della riforma sul “premierato” è la modifica dell’articolo 92 della Costituzione, che propone di introdurre l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

La riforma prevede infatti che il capo del governo sia «eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni» e che non sia più nominato dal presidente della Repubblica sulla base delle possibili maggioranze in Parlamento uscite dalle elezioni, ma sia incaricato sulla base della sua elezione diretta.

La riforma costituzionale propone di modificare poi altri articoli della Costituzione, tra cui l’articolo 94, quello che regola il rapporto di fiducia tra Parlamento e governo. I primi due commi di questo articolo non sono toccati dalla riforma: il primo prevede che il governo «deve avere la fiducia» della Camera e del Senato, ossia la maggioranza dei voti a favore in entrambe le camere; il secondo dispone che le camere possono accordare o revocare la fiducia al governo con una «mozione motivata e votata per appello nominale».

Quello che la riforma approvata dal Senato propone è di cambiare il terzo comma dell’articolo 94 nel seguente modo: «Entro dieci giorni dalla sua formazione», il governo deve ottenere la fiducia di Camera e Senato. Se non la ottiene, il presidente della Repubblica conferisce un nuovo incarico al presidente del Consiglio votato dagli elettori.

Se fallisce anche questo tentativo, perché il governo non ottiene la fiducia, il presidente della Repubblica scioglie il Parlamento e si torna al voto. Si va a nuove elezioni anche nel caso in cui la Camera o il Senato revocano formalmente la fiducia data al governo.

«Negli altri casi di dimissioni», stabilisce la riforma, ci sono due possibilità. Entro sette giorni il presidente del Consiglio può chiedere al presidente della Repubblica di sciogliere il Parlamento e di andare al voto. Se non esercita questa facoltà, il presidente della Repubblica può incaricare il presidente del Consiglio dimissionario di formare un nuovo governo o può dare l’incarico a un altro «parlamentare eletto in collegamento con il presidente del Consiglio».

Come spiega un dossier del Servizio studi del Senato, le modalità di questo «collegamento» saranno stabilite dalla nuova legge elettorale che dovrà essere approvata se la riforma costituzionale diventerà legge. In ogni caso, nelle intenzioni del governo, questa espressione significa con tutta probabilità che l’altro parlamentare dovrà fare parte almeno della stessa coalizione di partiti che hanno vinto le elezioni.

Questa alternanza tra due presidenti del Consiglio diversi può avvenire solo una volta nel corso di una legislatura e questa opzione può essere scelta dal presidente della Repubblica «nei casi di decadenza, impedimento permanente o morte del presidente del Consiglio eletto».

Come detto, il riferimento al rispetto dell’indirizzo politico e del programma di governo è stato tolto nel testo approvato dal Senato. Ma la nuova norma, come ha ribadito di recente Meloni, può davvero evitare che nella stessa legislatura si formino governi supportati da maggioranze diverse da quella elettorale?

L’ipotesi di maggioranze diverse

Come spiegato, se il presidente del Consiglio eletto non esercita la facoltà di chiedere lo scioglimento del Parlamento e di andare al voto, il presidente della Repubblica, dopo le consultazioni con i partiti, conferisce l’incarico di formare il governo, per una sola volta, al presidente del Consiglio dimissionario o a un parlamentare a lui collegato.

La norma non aggiunge altre specificazioni. Quindi non pone la condizione che la legislatura possa andare avanti solo se, in seconda istanza, il nuovo presidente del Consiglio sia supportato esclusivamente da parlamentari appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni, vietando in maniera esplicita o con altri meccanismi che possa essere supportato da una maggioranza composta da partiti diversi.

Nonostante il dichiarato intento di evitarli, dal testo approvato in Senato non emergono dunque elementi normativi che inducano a escludere che i ribaltoni possano comunque verificarsi.

Per lo stesso motivo, non è nemmeno esclusa la possibilità di avere governi di unità nazionale, dove partiti di schieramenti opposti si alleino per supportare un nuovo presidente del Consiglio, che però deve essere un parlamentare eletto tra le fila della maggioranza.

Peraltro, la possibilità che la legislatura sia comunque in grado di proseguire, se pure con un governo sostenuto da una maggioranza difforme da quella che ha vinto le elezioni, è un elemento che si suppone sarà tenuto in adeguato conto dal presidente della Repubblica nel decidere, a seguito di consultazioni, se ridare l’incarico al presidente del Consiglio dimissionario o conferirlo a un altro politico della sua maggioranza.

Il precedente più rigoroso

Non è la prima volta che un governo cerca di far approvare una riforma costituzionale per evitare i ribaltoni. Per esempio, una norma realmente “anti-ribaltoni” è stata inserita (art. 32) nella riforma costituzionale approvata a novembre 2005, durante il terzo governo di Silvio Berlusconi, ma bocciata a giugno 2006 con un referendum.

Quella riforma interveniva su più articoli della Costituzione, rispetto a quella presentata dal governo Meloni, e tra le altre cose prevedeva che il presidente del Consiglio potesse nominare e revocare i ministri, godendo di rilevanti prerogative verso la Camera (in base alla riforma, il Senato, configurato come federale, non doveva dare la fiducia al governo).

Secondo la riforma voluta dal terzo governo Berlusconi, in qualsiasi momento la Camera avrebbe potuto obbligare il presidente del Consiglio alle dimissioni con l’approvazione a maggioranza assoluta di una mozione di sfiducia, da cui sarebbe automaticamente conseguito anche lo scioglimento della Camera stessa. Il meccanismo “anti-ribaltone” sarebbe scattato se la mozione di sfiducia fosse stata respinta con il voto determinante di parlamentari non appartenenti alla coalizione dei partiti della maggioranza.

In questo caso il presidente del Consiglio avrebbe dovuto dimettersi ugualmente, proprio per evitare che la sua permanenza in carica scaturisse da accordi parlamentari o, per usare un’altra definizione, da “giochi di palazzo” concordati con parlamentari dell’opposizione.

Lo scioglimento della Camera poteva però essere evitato se entro venti giorni fosse stata approvata, da parte dei «deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera», una mozione recante l’indicazione di un nuovo presidente del Consiglio e la dichiarazione della volontà di continuare nell’attuazione del programma di governo.

Da un lato, il meccanismo che evitava che una parte anche minima di deputati dell’opposizione potesse intervenire a sostegno del presidente del Consiglio avrebbe effettivamente ottenuto il risultato di precludere l’alterazione della maggioranza uscita vincente dal voto.

Dall’altro lato, l’indicazione chiara ed espressa dei parlamentari «appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni» come gli unici in grado di consentire alla legislatura di andare avanti non avrebbe consentito alcuno spazio a maggioranze diverse per la prosecuzione della stessa.

Né tale rigorosa impostazione normativa – che all’epoca comunque suscitò alcuni dubbi – né regole simili sono contenute nella riforma costituzionale oggi all’esame del Parlamento. Con la conseguenza che, come detto, non è esclusa la possibilità che partiti non facenti parte della maggioranza vincente alle elezioni possano sostenere il secondo presidente del Consiglio della legislatura, in virtù di margini di flessibilità che il nuovo impianto normativo non preclude.

Nel testo della riforma presentato in Parlamento a novembre 2023, poi modificato in Commissione Affari costituzionali del Senato, il governo aveva comunque provato a inserire un meccanismo che avrebbe vincolato il secondo presidente del Consiglio a essere in qualche modo legato alla medesima maggioranza.

Il testo presentato dal governo proponeva un vincolo più stretto per permettere al presidente della Repubblica di incaricare un altro parlamentare «eletto in collegamento con il presidente del Consiglio». In base alla proposta iniziale, questa alternanza tra due presidenti del Consiglio valeva solo «per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il governo del presidente eletto» aveva ottenuto la fiducia dal Parlamento.

Durante le audizioni in Commissione Affari costituzionali, alcuni costituzionalisti hanno espresso poi dubbi su questa norma. Per esempio, non è chiaro come si possa controllare se un governo rispetta gli «impegni programmatici» del precedente governo, un’espressione piuttosto vaga. In più c’è il rischio che un vincolo di questo tipo contrasti con l’articolo 67 della Costituzione, in base al quale ogni parlamentare «esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato», dunque senza obbligo di votare come imposto dai partiti.

Tiriamo le somme

Ricapitolando: nonostante quanto ripetuto da Meloni e da altri esponenti della maggioranza, niente sembra impedire che con la nuova riforma un parlamentare appartenente alla stessa coalizione del presidente del Consiglio, in caso di frizioni tra i partiti della coalizione stessa, possa ottenere la fiducia da maggioranza diversa. Il disegno di legge dice solo che deve trattarsi di un parlamentare eletto in liste collegate al presidente del Consiglio, ma nulla dice sulla maggioranza chiamata a votarlo.

Il silenzio della legge non esclude che tale maggioranza possa essere diversa dalla quella vincente alle elezioni. Anche perché, se il legislatore avesse voluto vietare questa ipotesi, l’avrebbe scritto chiaramente, come fece nel 2006. Dunque, i ribaltoni resteranno possibili nonostante la norma “anti-ribaltone”.

(italiaoggi.it)

Chi è Elisa Segnini, la militante di Gioventù Nazionale che si è dimessa da caposegreteria della deputata FdI Lucaselli dopo l’inchiesta (ilriformista.it)

Il profilo

Elisa Segnini, dopo la seconda puntata dell’inchiesta di Fanpage su Gioventù nazionale, il movimento giovanile di Fratelli d’Italia, si è dimessa da capo segreteria della deputata Ylenja Lucaselli, capogruppo del partito in commissione Bilancio alla Camera.

Un passo indietro che ha seguito quello di Flaminia Pace, altra giovane dirigente del partito di Giorgia Meloni.

Chi è Elisa Segnini, militante di Gioventù Nazionale dimessa

Nata nel 1995, Segnini, il cui intero nome è Segnini Bocchia di San Lorenzo, è di Bergamo e si è trasferita a Roma. È stata inquadrata spesso nel servizio giornalistico in cui si vedono ragazzi e ragazze del movimento giovanile di FdI che pronunciano frasi razziste e antisemite.

È considerata una delle promesse della destra, come d’altronde Pace, e nel video si sente Segnini dire di essere da sempre molto estremista: “Vado apposta a Budapest a fare festa e a dire a Ilaria Salis che deve marcire in galera con i ratti che le mangiano le dita dei piedi. Oppure la metti nel deserto e la fai mangiare dalle formiche”.

“Non ho mai smesso di essere razzista né fascista, quindi non ti preoccupare, mi stanno sempre sui coglioni i ne*ri e i comunisti” ha continuato. Segnini si è candidata con FdI come consigliera alle elezioni comunali di Bergamo dello scorso 8-9 giugno.

La linea dura di Crosetto in FdI

Le reazioni del partito di Meloni sono arrivate. La seconda puntata dell’inchiesta video di Fanpage ha avuto più riscontri: se dopo la pubblicazione del primo episodio, i dirigenti di destra avevano cercato di sminuire il fatto, ora sono arrivate le reazioni. Ha preso parola anche Guido Crosetto, il ministro della Difesa e uno dei fondatori di Fratelli d’Italia.

“Voglio esprimere la mia totale solidarietà e vicinanza alla senatrice Ester Mieli, vittima di offese intollerabili, che non possono passare sotto silenzio. Nel partito di cui sono stato con orgoglio uno dei fondatori non può esserci spazio per persone, parole e pensieri come quelli che ho ascoltato. Vanno presi provvedimenti immediati ed esemplari come ha già ha preannunciato la dirigenza FDI. È imperativo reagire con durezza. Scusa, Ester, a nome di tutti noi”, ha scritto Crosetto su X.

I 14 anni di Julian Assange, lo spione “sgradito” tra accuse di stupro e asilo in ambasciata

Colpevole di aver violato le leggi sulla sicurezza, 
ha messo in luce verità di cui i media si sono 
nutriti per anni

Cala il sipario sul caso Assange (stavolta davvero) e in troppi non hanno niente da mettersi, indecisi se liquidarlo come un semplice hacker (tutti i giornalisti un po’ lo sono) o come un nuovo messia imputabile appunto del reato di giornalismo: certo è che lui ne esce da colpevole, perché ha scelto di patteggiare e si patteggia una pena, ma certo è, soprattutto, che Julian Assange non andrà in prigione perché in pratica c’è già stato.

Sono le fotografie a raccontare la sua storia: il ragazzino belloccio che impietosamente, ora, ci restituisce il biancore giallognolo dei capelli che furono biondo nordico, le rughe scavate sotto luci artificiali, persino la pancetta da abbruttito davanti a un monitor. Non andrà in prigione perché la giustizia statunitense, quella della pena di morte, funziona: unico requisito perché giustizia sia.

È vivo, ed è vivo il principio secondo il quale le conseguenze penali non sono graziabili a furor di popolo. Eccolo il patteggiamento: da una parte gli Stati Uniti che restano una democrazia di riferimento, dove la certezza della pena significa anzitutto che una pena c’è stata, e dall’altra parte Assange: libero, come noi, nella coscienza che il giornalismo ha ancora tanto da fare.

Nel 2006, poco più che trentenne, fondò Wikileaks forse con le migliori intenzioni. La sua organizzazione riceveva documenti segreti che poi caricava sul web: pubblicò mezzo milione di documenti soprattutto sulle attività statunitensi in Afghanistan, offrendo, secondo il New York Times, «un quadro incolore e cupo».

Comincia, in un certo senso, il patteggiamento tra la democrazia e i suoi frutti controversi: Assange era colpevole di aver violato le leggi sulla sicurezza ma aveva messo in luce delle verità di cui i media si sarebbero nutriti per anni. Assange fece delle scelte e la sua Wikileaks additò soprattutto dei crimini della stessa civiltà che aveva partorito lui e i suoi aneliti di libertà.

Poi la vita è strana. Nel 2010 la procura svedese emise un mandato d’arresto per stupro contro Assange, e la morale fu che lui se la diede a gambe. Si rifugiò a Londra in attesa di estradizione. E mentre in Russia d’un tratto comparve una serie tv condotta proprio da Assange (aprile 2012) l’Alta Corte britannica concesse l’estradizione in Svezia e lui si rifugiò nell’ambasciata dell’Ecuador, chiedendo e ottenendo asilo.

Se fosse uscito l’avrebbero arrestato. Gli anni passarono così: all’inizio del 2016 le Nazioni Unite dichiararono che la detenzione era illegale ma la Gran Bretagna definì «ridicola» la sentenza. Intanto, nel 2018, lui otteneva la cittadinanza ecuadoriana mentre si mormorava che gli Usa custodissero un processo penale sigillato.

Sinché, nell’aprile 2019, il presidente dell’Ecuador ritirò lo status di rifugiato e Assange finì in manette per aver violato la libertà su cauzione sette anni prima: il nuovo trasloco fu nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh (Londra) con conseguente condanna a 50 settimane di carcere. In pratica Barack Obama aveva deciso di non incriminare Assange per proteggere il diritto alla libertà di espressione, ma un procedimento era stato poi aperto dall’amministrazione di Donald Trump con 18 capi d’accusa, secondo i quali aveva cospirato assieme all’analista Chelsea Manning per entrare in un computer del Pentagono.

E qui forse, Assange, avrebbe potuto intravedere i futuri patteggiamenti col sistema che combatteva: Manning fu condannata a 35 anni nel 2013, ma prima di essere graziata da Obama e prima ancora di essere di nuovo arrestata per non aver testimoniato: oggi è libera.

Dopodiché tutti i passaggi successivi dell’affare (l’archiviazione per stupro, le nuove accuse, il timore di un giudice inglese che Assange si suicidasse, i tira e molla dell’estradizione) possiamo anche saltarli: si arriva all’accordo, si torna in Australia, fine.

Ieri notte Julian Assange si è dichiarato colpevole ed è tornato in libertà: cose che succedono solo nel suo, nel nostro Occidente.