Lo “sbarco in Lombardia”, su quattro telegiornali di oggi (ilpost.it)

Giovedì in varie edizioni di telegiornali 
italiani che davano notizia delle celebrazioni 
per gli 80 anni dello sbarco in Normandia, 

uno dei momenti più ricordati e conosciuti della Seconda guerra mondiale, quattro giornalisti e giornaliste si sono sbagliati a pronunciare “Normandia” e hanno parlato invece di “sbarco in Lombardia”, confondendo la regione francese con quella italiana.

È successo a Unomattina, su Rai 1, al TG La7, su La7, a Studio Aperto e anche al Tg4, entrambi su Mediaset.

In tutti i casi i conduttori e le conduttrici dei telegiornali hanno introdotto la notizia delle celebrazioni per l’anniversario dello sbarco, organizzate proprio in Normandia alla presenza di vari capi di stato, tra cui il presidente statunitense Joe Biden, parlando di “sbarco in Lombardia”: su quattro giornalisti solo una si è corretta pronunciando poi “Normandia”, la conduttrice del TG La7 Bianca Caterina Bizzarri.

“La Resistenza non esiste”: lezione revisionista di una prof di italiano nell’ultimo giorno di scuola (corriereuniv.it)

E’ successo al liceo “Aldo Moro” di Reggio Emilia. 

Nei confronti della docente potrebbero arrivare presto dei procedimenti disciplinari.

In aula per gli ultimi giorni di scuola ha pensato bene di concludere l’anno scolastico con una lezione sull’invenzione della Resistenza, con tanto di volantino distribuito in classe ai suoi studenti e un’approfondita spiegazione di teorie complottiste. Protagonista della vicenda una docente di italiano del liceo “Aldo Moro” di Reggio Emilia, città che (guarda caso) è Medaglia d’Oro al Valor militare della Resistenza, per il rilevante ruolo avuto durante la guerra di liberazione italiana.

La professoressa, ormai prossima alla pensione, avrebbe distribuito il materiale “didattico” agli studenti dell’ultimo anno spiegando che la Resistenza sarebbe un’invenzione. Per farlo si è avvalsa di un volantino che ritrae una celebre foto di donne partigiane, così come riportato dalla Gazzetta di Reggio che per prima ha parlato del caso.

“Partigiane ne abbiamo? No pare proprio di no ed allora che si fa? Si prendono tre tizie e le si arma per far la foto. La prima a destra ha un fucile forse un po’ troppo lubrificato e perciò ha un fazzoletto o un giornale per non sporcarsi – si legge nel volantino distribuito in classe – Quella al centro, non sapendo come impugnarlo, decide di trascinare il fucile tenendolo come un ombrello. Bella foto che conferma una Resistenza nata dopo l’8 settembre del ’43, pagata dagli Alleati, inventata come questa foto”. Agli studenti è stato distribuito anche un altro volantino che aveva come obiettivo, invece, l’Agenda 2030, faro dello sviluppo sostenibile.

I ragazzi hanno segnalato la particolare lezione agli altri docenti della scuola che, a loro volta, hanno informato la dirigente scolastica. Non si esclude che nei confronti della professoressa d’italiano nelle prossime ore potrebbero arrivare dei procedimenti disciplinari.

La tragedia di Gaza e la farsa delle proteste nelle università italiane (linkiesta.it)

di

Laurea in tafazzismo

Le proteste degli studenti per ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza somigliano a un passatempo adolescenziale.

Non solo non otterranno nulla di concreto, ma in questo momento stanno danneggiando soprattutto i loro colleghi che vorrebbero seguire le lezioni

Non solo, nel corso della Storia, le tragedie si ripetono in farsa: qualche volta, nella cronaca, le farse le originano pure. A Gaza si consuma una tragedia, nelle nostre università va in scena la farsa. Il fenomeno riguarda mezzo mondo, ma restiamo all’Italia. E chiariamolo subito: non si tratta di parteggiare per la Palestina o per Israele, che si debba porre fine alla carneficina e che gli ostaggi di Hamas vadano liberati siamo tutti d’accordo (un po’ meno di tutti, per la verità, nel secondo caso).

Ma c’è qualcosa che non torna nelle occupazioni degli studenti pro Pal, che in molti casi bloccano da settimane l’attività didattica, gli esami, l’accesso a biblioteche e laboratori, riprecipitando l’università nel clima emergenziale del Covid, quando le lezioni potevano avventurosamente proseguire soltanto online.

Non torna, intanto, il fatto che non tutti sono studenti: avvistati anche diversi militanti della variegata galassia antagonista, che, per carità, hanno tutto il diritto di manifestare (pacificamente) il loro dissenso, ma che con l’università c’entrano poco o nulla.

Poi il fatto che gli studenti occupanti sono comunque una minoranza, alcune decine o alcune centinaia, a fronte di migliaia, decine di migliaia di loro colleghi (tanti fuori sede e quindi anche più penalizzati) che, pur solidarizzando con la causa palestinese e magari approvando la mobilitazione, vorrebbero non vedersi impedito il diritto a seguire i corsi.

Perché proprio questo è il punto, e qui si annida il paradosso. Una occupazione, allo stesso modo di uno sciopero, è uno strumento di lotta efficace quando in qualche modo lede gli interessi di una controparte: nel caso di uno sciopero in fabbrica, gli interessi del datore di lavoro; nel caso di uno sciopero nei servizi pubblici, oltre che (incidentalmente) quelli agli utenti, soprattutto (in linea di principio) quelli delle aziende che vengono private per uno o più giorni degli incassi, e incassano nel contempo il malcontento dell’utenza.

Nel caso delle università occupate la controparte diretta degli occupanti sono le autorità accademiche, ma il danno di chi è? Degli studenti, occupanti e non, ai quali viene a mancare la prestazione di cui, per il tramite delle loro famiglie, si sono caricate l’onere economico. È come se si acquistasse un biglietto aereo e poi, per protestare contro la compagnia, si rifiutasse di utilizzarlo: come si chiamava l’antonomastico autolesionista di Giacomo Poretti…? Semmai, l’occupazione avrebbe senso da parte dei professori, non pochi dei quali del resto ne condividono le ragioni.

Ma, si potrebbe obiettare, le università occupate non sono una novità: a cavallo tra il 1989 e il 1990 c’è stata la Pantera, e prima ancora abbiamo avuto il Settantasette, e prima di tutto l’epocale Sessantotto. Certo. Con una differenza, ed è qui che la ripetizione assume un aspetto farsesco.

La differenza è che in quei casi la protesta aveva come obiettivo – almeno, come obiettivo di partenza – la ridefinizione dei rapporti interni, dell’organizzazione e dei contenuti della didattica, ossia temi che riguardavano in prima persona gli studenti e il loro modo di stare nell’università, in opposizione al quale aveva una logica il blocco dell’attività accademica.

Quando invece, come nel caso presente, il focus della protesta è contro la collaborazione scientifica con le università israeliane, ma più in generale contro il governo israeliano, contro Israele e contro il sionismo (non, vogliamo sperare, contro gli ebrei), a che serve nuocere a sé stessi?

Non sarebbe meglio (più opportuno, più sensato) liberamente e variamente manifestare in piazza, come pure avviene quasi ogni giorno, o anche in ben definiti spazi e orari universitari compatibili con il perseguimento dello scopo per cui le università esistono e gli studenti si iscrivono? Tanto più quando le facoltà interessate non sono di carattere tecnico-scientifico, e quindi non attrezzate, anche volendo, per collaborazioni a presunto rischio di dual use.

Detto per inciso, qualcuno degli occupanti saprebbe indicare di preciso quali sono queste collaborazioni, quali i possibili usi militari e in quali tempi si svilupperebbero? Ci sarebbe poi da domandare perché altrettali scrupoli non investono altresì le collaborazioni scientifiche con università della Russia che ha aggredito l’Ucraina o dell’Iran che uccide le donne senza velo, ma vabbè.

È chiaro che la protesta ha ormai travalicato, nei modi e nei contenuti, i proponimenti iniziali. Le occupazioni sono diventate un happening un po’ svaccato di ragazzi che vanno e vengono, in un tempo senza tempo fuori del tempo, fanno ape, fanno festa, fanno after, fanno musica (a tutto volume: per la gioia del vicinato), fanno cucina, fanno eventi, fanno finta di fare qualcosa per la Causa, di cui ogni tanto si ricordano e allora fanno un corteo.

Questo è quanto si vede, per esempio, dall’esterno (e soprattutto all’esterno) di Palazzo Nuovo, che è la sede delle facoltà umanistiche a Torino, imbandierata di drappi nero-bianco-verdi con triangolo rosso.

All’interno, invece, c’è chi non si è risparmiato. I cronisti de La Stampa questa settimana sono penetrati in Fort Palestine e hanno documentato: scritte sui muri, sui vetri, nei bagni, lungo le scale. “Studenti Intifada”, “Con la resistenza palestinese con ogni mezzo” – e ok, inquieta un po’ quel “con ogni mezzo” ma giustamente c’è il tema Palestina, declinato ovunque senza troppa fantasia.

E però c’è anche “Fuoco ai Cpr”, “Fuoco alle galere”, “L’unico soldato buono è il soldato morto”, la A cerchiata dell’anarchia, il disegno di un kalashnikov.

Nelle università occupate c’è di tutto, in un tumultuoso caotico affastellarsi di pulsioni anche generose, sebbene a senso unico, che mescola la solidarietà con il dramma di Gaza alla lotta ideologica contro il sionista genocida e a quelle evergreen contro il governo (oggi Giorgia Meloni, ma sarebbe stato lo stesso con Draghi, Conte, Gentiloni, Renzi, Letta e a risalire), contro «il sistema» e contro l’Occidente capitalista e colonialista – alla doverosa ricerca di un Nemico che faccia sentire uniti e buoni. Impegnarsi per qualche supposta buona causa è sempre meglio che disinteressarsi di quel che succede nel mondo, e se non ci si impegna per le buone cause da giovani…

E però, da tanto impegno, che cosa sortirà? Probabilmente nulla, o nella migliore (dal punto di vista degli occupanti) ipotesi la sospensione o il differimento di qualche accordo di collaborazione che avrà forse imprecisati effetti tra alcuni anni, quando la furia di Netanyahu sarà passata ma nel frattempo avrà consumato la sua opera devastante. Ma che importa?

Ai ragazzi di oggi diventati più grandi resterà il ricordo dei giorni fervorosi e sfaccendati passati a giocare all’occupazione.

Altri due detenuti si tolgono la vita, sono 38 dall’inizio del nuovo anno (ildubbio.news)

DRAMMA SENZA FINE

I suicidi si sono verificati a Cagliari 
(in ospedale) e a Venezia. 

Critica la UilPa Polizia Penitenziaria con la politica: «Sembra assorta tra la campagna elettorale e la separazione delle carriere della magistratura»

«Mentre la politica sembra assorta fra la campagna elettorale e la separazione delle carriere della magistratura, ciò che tragicamente non si riesce a scindere è la morte dalle carceri. Con un detenuto deceduto a Cagliari in ospedale, dopo che due giorni fa aveva tentato di impiccarsi nella sua cella della prigione del capoluogo isolano, e un altro impiccatosi a Venezia, sono due i morti di carcere a distanza di poche ore, forse minuti, nella mattinata di oggi.

Sale così a 38 il numero complessivo dei suicidi di detenuti dall’inizio dell’anno, cui vanno aggiunti quattro appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che, parimenti, si sono tolti la vita». Lo dichiara Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia Penitenziaria.

«Singolare, peraltro, che i temi della campagna elettorale non s’interessino particolarmente di pene e penitenziari, quasi fossero estranei alle politiche nazionali ed europee – continua – Questioni, peraltro, che si intersecano con le altre che investono pesantemente il nostro Paese, come le deficienze sanitarie e le carenze di medici e che sono ancora più devastanti in luoghi sovraffollati e soggetti a promiscuità come le prigioni».

NON C’È PIÙ TEMPO

«In carcere persino l’assistenza psichiatrica è ormai una chimera per mancanza di specialisti, con tutto ciò che ne deriva per gli effetti auto ed etero violenti; solo due giorni fa proprio lo psichiatra in servizio presso il carcere di Catanzaro è stato brutalmente aggredito e gravemente minacciato da un recluso», aggiunge il segretario della Uilpa Pp.

«Non c’è più tempo, se si vuole almeno tentare d’evitare di oltrepassare ogni record nella conta dei morti in carcere, di carcere e per carcere, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il governo Meloni prendano atto dell’emergenza senza precedenti e varino un decreto-legge per consentire il deflazionamento della densità detentiva, sono oltre 14mila i detenuti in più rispetto ai posti disponibili, assunzioni straordinarie e accelerate nel Corpo di polizia penitenziaria, mancante di almeno 18mila unità, e il potenziamento della sanità inframuraria – conclude – Parallelamente, lo stesso governo e il parlamento avviino riforme strutturali e riorganizzative. Diversamente, temiamo un’ecatombe».

La Russia di Putin punta a radere al suolo l’intera Ucraina ?????? (italiaoggi.it)

di Gianni Pardo

Colpendo senza complessi tutto che è a portata 
dei suoi missili. 

Mosca proprio non si pone il problema di aggredire il paese contiguo con tutti i mezzi di cui dispone

Nella guerra d’Ucraina c’è un modello di comportamento che si è già ripetuto molte volte. La Russia ha cominciato questa guerra come se dovesse essere nulla più che una parata militare, ma poi, visto come ha reagito Kiev, ha alzato la posta, fino ad impegnarsi in questa guerra molto seriamente, per non perdere la faccia.

Naturalmente e a fortiori l’Ucraina ha dovuto fare altrettanto, perché era impreparata alla guerra e perché ne andava, e ne va, della sua esistenza. Soffrendo per giunta moltissimo del comportamento dell’Occidente che ha fornito armi e munizioni sempre troppo tardi e in quantità insufficiente, per giunta condendo questa ipocrita generosità con mille raccomandazioni per non irritare l’Orso russo.

Mosca minaccia l’atomica, ma non la usa

Ma la guerra ha le sue necessità. Ciò ha fatto sì che nel corso del tempo molte delle varie linee rosse e molti dei divieti siano venuti meno. Dalle armi difensive alle armi offensive (che distinzione balorda!), dalle armi leggere alle armi pesanti, dall’artiglieria a corto raggio d’azione all’artiglieria raffinata e in grado di colpire lontano, e via dicendo. Ed ecco il punto interessante.

A ogni nuovo piccolo cambiamento di linea dell’Ucraina, la Russia ha reagito promettendo fuoco e fiamme, non esclusi la Terza Guerra Mondiale e l’armamento atomico. Ma (di fatto) di queste grandi minacce non abbiamo poi visto la realizzazione. Mosca ha aumentato fino all’inverosimile il suo impegno in uomini e mezzi, ma non ha voluto o potuto fare nessun salto di qualità.

Senza limite ai rilanci, vince il più ricco

E qui, come nel poker, si pone il problema dei rilanci. Se, secondo le regole convenute, non c’è limite ai rilanci, vince sicuramente il più ricco. Perché quando il meno ricco, raccogliendo il coraggio a due mani, dice «Ventimila», l’altro può sempre dire, senza nessuno sforzo di coraggio, «Trentamila».

E il meno ricco i trentamila non li ha. Applicando il principio alla guerra d’Ucraina, teoricamente l’Occidente e gli Stati Uniti sono talmente più ricchi della Russia, che non ci dovrebbe essere partita. Ma è anche vero che nessuno è più debole di colui che non vuole usare la propria forza.

La Russia è vicina al suo limite massimo?

Tuttavia quanto già successo può far sorgere un dubbio: quanto è vicina la Russia al suo plafond militare? Il fatto che le innumerevoli minacce, ormai da oltre due anni, non sono state messe in atto, non potrebbe indicare che l’acceleratore è completamente schiacciato?

Se guardiamo la tecnica militare russa dobbiamo ammettere che essa è dolorosamente ripetitiva. Essa cerca di distruggere le infrastrutture civili dell’Ucraina, in primo luogo le centrali elettriche. Effettua bombardamenti terroristici mirati esclusivamente a distruggere condomini, uccidere civili, terrorizzare la popolazione.

Si serve soprattutto della sua artiglieria, molto più forte di quella ucraina, ma per il resto, come tecnica di guerra, non abbiamo visto grandi novità, sin dall’inizio, salvo l’uso dei droni, campo in cui del resto Kyiv ha nettamente e bene reagito con i suoi, autoprodotti (e per questo usati per combattere la Russia sul suo territorio).

Altra domanda: i famosi aiuti e armamenti per 61 e passa miliardi di dollari, più tutti quelli che hanno donato e donano gli europei occidentali, quand’è che si vedranno sul fronte? È proprio vero che la guerra d’Ucraina non è ancora finita.

  La febbre che non passa (corriere.it)

di Massimo Gramellini

Il caffè

Come tutti i populisti, Nigel Farage non è la medicina e neanche la malattia, ma il termometro.

Candidandosi alle imminenti elezioni inglesi, l’uomo che inventò la Brexit certifica come la destra classica, moderata nei costumi e aperta in economia, non esista più nemmeno nel Paese che ne fu la culla.

La mia generazione è cresciuta con, o contro, i democristiani in Italia e Germania, i gollisti in Francia, i conservatori in Gran Bretagna e i repubblicani in America. Partiti e movimenti che, pur avendo una base popolare, rappresentavano l’anello di congiunzione tra il ceto medio e l’establishment. Erano i portavoce della maggioranza silenziosa che si faceva sentire soltanto nelle urne.

Gli interpreti di una società capitalistica che riusciva ancora a garantire stipendi dignitosi e (almeno in Europa) assistenza e istruzione gratuite a quasi tutti. Adesso che quei diritti acquisiti sono diventati privilegi di minoranze anch’esse sempre più impaurite, non molti possono concedersi il lusso di demonizzare la beceraggine e la mancanza di scrupoli dei leader populisti, a cominciare da quel Trump che tutti li contiene.

Chi, pur lavorando come una bestia, fatica a mantenersi da solo — figuriamoci a sfamare una famiglia — vede nei politici tradizionali i colpevoli di questo declino e nei Farage che li attaccano i megafoni del proprio disagio.

Darà retta ai populisti fino a quando avrà la sensazione che siano gli unici interessati a parlare con lui e, soprattutto, di lui.